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Santa Lucia, un quartiere napoletano in trasformazione: da borgo marinaro a luogo di loisir

Spiaggia del Chiatamone

Spiaggia del Chiatamone

di Maria Sirago 

Introduzione

Il borgo marinaro di Santa Lucia, che si estendeva fino alla spiaggia del Chiatamone, era un pittoresco rione napoletano abitato dai “luciani” marinai, pescatori e sommozzatori, pescivendoli, ricordati in modo idilliaco nelle Eclogae piscatoriae (1526) dal poeta Jacopo Sannazaro, che descriveva la città partenopea come un incantato giardino in riva al mare.

Johann Wolfgang Goethe, che ha soggiornato a Napoli tra marzo e maggio del 1787, ha sottolineato la peculiarità del borgo di Santa Lucia, dove i pescivendoli presentavano i cibi ittici, «gamberi, ostriche, cannolicchi, piccoli crostacei … in una bella cesta pulita e su uno strato di foglie verdi», insieme agli altri venditori di frutta, carni ed altri commestibili; ed altri approntavano padelle dove preparavano pesci fritti offerti «in un brandello di carta» [un antico street food] (Goethe 2018: 377-378). 

Ancora nella prima metà dell’Ottocento alla “Pietra del pesce” si svolgeva un ricco mercato ittico ma le specialità, frutti di mare, mitili, vongole, ostriche, polipi lessi, si potevano gustare nelle numerose bancarelle e nelle trattorie disseminate per il rione, che reclamizzavano anche la cucina inglese e francese, destinata ai numerosi viaggiatori stranieri. Qui ogni cosa rievocava il mare, gli odori, i suoni degli uomini e delle cose, le reti stese ad asciugare al sole. Sulla banchina antistante erano ormeggiate le barchette dei marinai che invitavano i passanti a fare il giro del Golfo, cantando delle canzoni, o “barcarole”, durante la navigazione (Coppola, 1866).

In questo “mare del popolo”, come lo definiva la giornalista Matilde Serao a fine Ottocento, un mare popoloso e popolare, fin dall’inizio del secolo si era cominciata a sviluppare la balneazione (Sirago, 2010), per cui in estate «si costruivano de’ camerini sul mare per uso de’ bagni» (Galanti, 1829). Poi vennero allestiti eleganti stabilimenti balneari come l’Eldorado Lucia e numerosi alberghi di lusso. A fine Ottocento, dopo il “Risanamento” della città, i pescatori luciani furono trasferiti al Borgo Marinaro, sull’isolotto del Castel dell’Ovo, mentre veniva aperta la nuova via Caracciolo, sull’antica spiaggia. Così il borgo dei luciani sparì per dar vita a una nuova città di loisir (Sirago, 2010; Del Prete, 2022: 298ss.). Ma lasciò un ricordo indelebile nella celebre canzone Santa Lucia (in napoletano Lo varcaiuolo di Santa Lucia) scritta da Tedoro Cottrau e pubblicata come barcarola nel 1850, resa celebre ai primi del Novecento nella versione di Enrico Caruso. I versi celebrano l’aspetto pittoresco di Santa Lucia intonati da un barcaiolo che al tramonto invita a fare un giro in barca, per godere della frescura serale: ma la barca è attrezzata anche con una “tenna” (tenda) per proteggere i banchettanti, poiché «quanno stace la panza chiena/non c’è la minema malinconia» (nota popolare scomparsa nella versione in italiano di Enrico Cossovich).

Barcarola Santa Lucia

Barcarola Santa Lucia

Il borgo marinaro

Nel Borgo di Santa Lucia vivevano i “luciani”, che esercitavano le “arti di mare” per circa l’80% (Petraccone, 1974:77). Era una sorta di “corpo sociale a se stante”, isolato dalla città fino al 1620 (Clemente, 2020: 87ss.), composto da abili pescatori soprattutto di polpo o cefali: pescavano nelle acque di Castel dell’Ovo e nel Golfo con le barchette su cui era montata la lampara, usando il «lanzaturo», cioè la fiocina. Vi erano anche abili sommozzatori che pescavano in apnea e marinai che possedevano delle feluche utilizzate sia per la pesca che per il commercio (Sirago, 2018a e 2021). Nel 1576 avevano eretto la chiesa di Santa Maria della Catena (Galante, 1872: 381-82) in cui nel 1708 avevano eretto un “Monte di Padroni di felluche e marinai” insieme ai pescatori ed ai pescivendoli, (Sirago, 2022). Il monte era gestito soprattutto dai ricchi “capiparanza” pescivendoli che riscuotevano dai pescatori 2 carlini per ogni cantaro di pesce “ingabellato”, cioè portato nel luogo di vendita detto la pietra del pesce dove si pagavano le dovute gabelle) (Clemente, 2002: 553ss.; Sirago, 2018a e 2018b: 553).

La vendita del pescato era regolata da rigide norme: i parsonali, o capi paranza, incettatori di pesce sul mercato, davano degli anticipi ai padroni delle barche da pesca chiamate gozzi o feluche (Formicola Romano, 1992). I capiparanza stipulavano un contratto con i pescivendoli che dovevano pagare quanto stabilito in contanti ogni fine settimana. La durata del contratto variava da uno a tre anni, durante i quali il “parsonale” si impegnava a mandare le sue barche a ritirare il pesce in un luogo scelto dal pescatore, a pagargli ogni anno 100 ducati come regalia e a concedergli di poter pescare per il proprio profitto per due o tre mesi all’anno senza consegnare il pesce. I pescatori poi dividevano il prodotto della pesca in 12 parti, la metà per loro e il resto diviso tra le persone dell’equipaggio. Inoltre, i capiparanza esigevano altri diritti, tra cui uno per la mediazione tra i padroni e i pescivendoli che andavano in giro a vendere per le vie. Il pescato veniva portato nei luoghi deputati per la vendita, le pietre del pesce site tra il Lavinaio e il Mandracchio (porto mercantile), a Santa Lucia e a Chiaia, dove i parsonali trattenevano la parte migliore per venderla in loco, cedendo il residuo ai bazzarioti, venditori ambulanti, che lo vendevano con le tipiche “spaselle” (Moschetti,1982).

Fig. 3 Napoli, Santa Lucia, Cassiano da Silva, inizi Settecento (Amirante, Pessolano, 2005)

Napoli, Santa Lucia, Cassiano da Silva, inizi Settecento (Amirante, Pessolano, 2005)

Questo sistema, simile a quello usato con gli agricoltori col “contratto alla voce”, era strettamente legato a quello delle assise per cui il guadagno era appannaggio dei “capiparanza” o “parsonali” che prestavano il denaro per l’acquisto della barca e degli attrezzi della barca e generava un’enorme miseria tra i pescatori. Il prestito era senza interesse ma nascondeva un vero e proprio controllo usuraio sui pescatori; perciò, a fine Settecento fu proposto di abolire l’assisa e dare precise norme sulla libertà del commercio del pesce, che fino ad allora si poteva vendere solo sotto il controllo dei capiparanza a prezzo fisso, secondo la qualità del pesce (Sirago, 2018a; Clemente, 2020, 82ss.).

Da metà ‘700, nell’ambito delle teorie mercantilistiche, si cominciò ad analizzare anche questo ramo dell’economia. Antonio Genovesi nelle sue Lezioni di commercio rimarcava che la pesca o “pastorale del mare” era una delle attività economiche più importanti, ricordando come la vendita di merluzzo, aringhe ed altro pesce salato ed affumicato aveva arricchito Inglesi, Olandesi e Francesi; perciò, auspicava la promulgazione di leggi statali volte ad incrementare tale settore (Genovesi, 1769: 103).

Per tutta la metà del secolo XVIII gli illuministi di scuola genovesiana continuarono a discutere  su tale problema, denunciando la povertà dei pescatori, figure tipiche e variopinte ma miserabili dei vicoli napoletani, causata non solo dalle misere attrezzature e dalla poca specializzazione, ma soprattutto dai vari divieti da rispettare e da un sistema di vendita strettamente legato a quello delle assise che non permetteva un giusto margine di guadagno (Moschetti, 1982: 953ss.; Salvemini, 1984 e 1985: 443).

Verso il 1770 il ministro Giovan Battista Jannucci nel suo inedito trattato notava che solo in Napoli e in Taranto vi era una fiorente attività peschereccia, auspicando un incremento di tale attività per tutto il regno e un miglioramento delle tecniche di salagione, anche per poter diminuire le importazioni dall’estero di pesce salato per pareggiare il bilancio (Jannucci, 1981, l. V: 1122 ss.): annualmente se ne consumavano 40.000 cantara nella sola Napoli provenienti in massima parte dall’Inghilterra, dall’Olanda e dalla Sicilia (Pagano de Divitiis – Giura, 1996:106, 131,138).

Negli anni ‘80 il Pecorari, amministratore delle regie saline di Barletta, riprendeva nella sua “Memoria” tale questione osservando: «Merita protezione ancora la salata de’ pesci per quanto le circostanze de nostri mari li permettano e specialmente de’ tonni, la cui pescaggione è abbondevole presso di noi» (Pecorari 1784: 98-101; De Stefano, 1981).  

Infine negli anni Novanta Giuseppe Maria Galanti osservava: «la pesca si potrebbe accrescere [ma] si trascura di salare molti pesci per l’alto prezzo de’ sali»: egli ricordava che «i soli Napoletani e Tarantini sono gran pescatori … [visto che] la pesca nelli luoghi del regno è oppressa da vessazioni de’ proprietari» (Galanti, 1969, II: 148-149).  Difatti i pescatori dovevano pagare i «diritti feudali di mare» (Sirago, 2014).

Figura 4. La feluca tipica barca peschereccia napoletana (Bayard, 1832).

La feluca tipica barca peschereccia napoletana (Bayard, 1832)

Una descrizione delle malversazioni compiute dai capiparanza, o pescivendoli, è stata raccontata da Onofrio Galeota, un erudito “poeta e filosofo napoletano”, nato nel 1732, autore di molti opuscoli conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli (Croce, 1912, Placanica 2004). In uno questi, intitolato Opera appoggiata sotto il titolo della educazione medicinale per affrenare gl’iniqui porci mali costumi. La broglia e latrocinio dei primi ladri, porci e scostumati dei pescivendoli che svergognano la città di Napoli, che gli forastieri si scandalizzano e dicono che noi Cittadini dovemo mettere l’assisa secondo com’è il pesce, ed il Pescivendolo non lo vogliono sentire, e vogliono vendere a gusto loro, e maltrattano i loro prossimi Cittadini con loro oprare bestialmente appoggiato sopra queste due legge di Natura, jure defentio est Naturae, quod tibi non vis ne faceris, error, l’erudito descriveva una sua “avventura” capitatagli nel mercato di Santa Lucia (Croce, 1912: 257):

«Nell’anno 1788 io D. Onofrio Galeota mi trovai con alcuni miei Amici cari, ci volsimo rivertire con andare a Santa Lucia per mangiare un poco di pesce buono, e allora ci era l’assisa e con tutto questo volevano vendere come pareva e piaceva a loro, e detto D. Onofrio andiede da Giovanni Gioia, e Giasone li disse “queste palaie (sogliole), e queste treglie e il merluzzo”, mi domandai quattre docati e la spesa, io mi spaventai e D. Onofrio dissi ‘Oimé” “Che hai visto il Diavolo? Noi simmo Cristiani; va dì la verità quanto ne vuò quattro docati se lo buò (vuoi) te lo pigli, se no va felicissimo, non saccio che vai trovando, e se no vattenne. Vi come se n’era venuto frisco! sì Abbà, te dico collo buono vattenne, lasciaci sta quieti”; onde vale a dire se io parlava poteva essere mazziato (menato), e ba mo’, abbascio Santa Lucia, o a risico d’essere ucciso» (Croce, 1912: 258).

Per riorganizzare il sistema di vendita del pescato sulla scorta delle dottrine liberistiche del tempo, il 25 ottobre 1788 il Tribunale di San Lorenzo abolì l’assisa del pesce concedendone la “libertà del commercio” a tutti indistintamente (Giustiniani, 1803, II: 146-148). Ma tutti quelli che vivevano dello sfruttamento dei poveri pescatori, a cui prestavano il capitale necessario imponendo poi di vendere loro il pescato a prezzi irrisori, opposero una fiera resistenza per cui la questione fu rimessa al Tribunale dell’Ammiragliato e Consolato di Mare, dove il giurista Francesco Maria Pagano, “avvocato dei poveri”, intervenne in difesa dei pescatori, descrivendone diffusamente le tristi condizioni nel  suo “Ragionamento” sulla libertà del commercio del pesce, in cui li definiva «agricoltori del mare …[quasi] ascritti alla gleba» (Pagano, 1789).

Chiaia, di Juan Ruiz, Museo Prado

Chiaia, di Juan Ruiz, Museo Prado

La libertà del commercio del pesce migliorò le condizioni di vita dei pescatori, il ceto più povero. Uno dei punti di forza di questa abolizione, sottolineato dal Pagano, era che bisognava mutare l’antico sistema e favorire la salagione del pescato, con la quale gli olandesi, i danesi e gli scandinavi si erano arricchiti, salando il baccalà e lo stoccafisso di cui i napoletani si cibavano nelle date prescritte dal calendario liturgico. Il Pagano propose di impiegare la rendita annua di 3000 ducati annui del “Monte di Santa Maria della Catena” a Santa Lucia a mare, forse il più ricco della città, per anticipare ai pescatori, con un modesto interesse, la somma necessaria per l’acquisto degli strumenti.

Ma un cambiamento si ebbe solo dal 1806, quando fu promulgata la legge eversiva della feudalità e con essa tutti i diritti gravanti sulla popolazione, tra cui quelli “di mare” e sulla vendita del pescato (Clemente, 2020: 82 ss., Sirago, 2018a e 2022).  Da quel momento l’attività peschereccia ebbe un certo incremento, come si evince dalla Statistica Murattiana del 1811, in cui si registra un aumento dei marinai e pescatori (Martusciello, 1979; Demarco,1988; Sirago, 2004). Ma per tutto il corso dell’800 molti degli antichi conflitti rimasero irrisolti mentre le tecnologie praticate subivano una lenta trasformazione, visto che per la maggior parte si continuavano ad usare gli antichi “sistemi” (Armiero, 1988), descritti dettagliatamente da Leonardo Dorotea nel suo testo scritto dopo l’Unità per tracciare una mappatura delle attività di pesca nell’antica Italia meridionale (Dorotea 1862: 6-11). 

Fontana di Santa Lucia, fine 800

Fontana di Santa Lucia, fine 800

I luciani nel corso dei secoli erano passati dalla pesca di sussistenza ad una pesca “speciale”, imprenditoriale, la pesca a strascico, usata in tutto il Mediterraneo, detta alla “gaetana”, perché molto usata dai pescatori di Gaeta. Per effettuarla occorreva un ricco capitale per costruire ed equipaggiare le imbarcazioni, paranze e paranzelle, di grosso tonnellaggio, che navigavano in coppia trascinando una grande rete sciabica, a sacco, proibita da fine Settecento in alcuni periodi dell’anno perché distruggeva la fetazione delle specie ittiche, in modo da permettere il ripopolamento (Salvemini, 1984). I luciani, insieme ai pescatori del Mercato e delle principali comunità marine del golfo, Gaeta, Pozzuoli, Resina, Sorrento, e delle isole di Procida e Ischia, praticavano in modo quasi “industriale” questa pesca utilizzata per il rifornimento della Capitale. Perciò, malgrado i divieti, venivano concesse continuamente deroghe, anche perché i proprietari delle imbarcazioni avevano fatto grossi investimenti per l’esercizio della pesca, divenuta la tecnica dominante (Sirago, 2018°:76).

Fig.5 Disegno di una paranzella (Bayard, 1831)

Disegno di una paranzella (Bayard, 1831)

Dagli anni ‘30 gli stessi capiparanza luciani utilizzavano la loro flottiglia di paranze anche per la pesca nei mari di Capri con la rete “chiusarana”, affittata da sola o anche con la tonnara: in questo sistema di pesca si impiegavano dei particolari tipi di erba e frutti velenosi che stordivano i pesci e ne permettevano una più facile cattura, proibito in epoca francese perché rovinava la tipica pesca delle aguglie capresi. Nel corso dell’Ottocento il Comune caprese affittava annualmente questo cespite ai capiparanza luciani, ricavandone un certo guadagno (Sirago, 2018a:72).

Nel corso dell’Ottocento il borgo di Santa Lucia divenne il luogo di eccellenza per degustare ogni specie ittica, frequentato anche dai numerosi viaggiatori stranieri, che potevano ammirare l’incantevole scenario del golfo partenopeo lambito dal mare che si infrangeva sugli scogli del vicino Castel dell’Ovo, lungo la spiaggia del Chiatamone. Vi erano innumerevoli «bancarelle di ostricari» (venditori di ostriche del Fusaro) e di frutti di mare pescati nel Golfo), di «ancinari» (venditori di «ancini» cioè ricci di mare) e popolane che cuocevano in grosse caldaie i polpi lessi, per antonomasia il cibo dei poveri, definito da Alexandre Dumas «le règal de Napolitains» (1871: 393), venduto in inverno col brodo bollente, con cui i poveri potevano riscaldarsi. invece gli «acquaiuoli» offrivano «acqua ferrata» (acqua minerale) che sgorgava dalla fonte del Chiatamone. Da fine Settecento erano state aperte numerose trattorie in cui si potevano gustare i numerosi manicaretti, come i polipi alla luciana, cucinati in modo sapiente dalle mogli dei pescatori (Sirago, 2018b).

Fig. 6 Attilio Pratella, Santa Lucia, mercato del pesce, metà Ottocento, Reale Yacht Club Canottieri Savoia

Attilio Pratella, Santa Lucia, mercato del pesce, metà Ottocento, Reale Yacht Club Canottieri Savoia

Nella Guida del 1826 Giovan Battista De Ferrari descriveva il borgo come «luogo nobilissimo, tanto per la sua deliziosa posizione sul golfo, …quanto perché nell’estate vi concorrono di sera e di notte … e lungo la …spiaggia si sogliono ergere di dopo pranzo molte botteghe di legno nelle quali si vendono frutti di mare, e pesce squisito». Una descrizione ancor più dettagliata di questo mondo brulicante in cui si vendeva ogni sorta di prodotto ittico è nella Guida di Erasmo Pistolesi del 1845:

«… sopra uno spazio di circa trecento passi stanno esposte delle picciole tavole e su quelle le ostriche e i frutti di mare, che tanto abbondano su questa spiaggia, e quei bellissimi testacei sono artificiosamente posti entro cestelli piani, decorati di musco marino. Le ostriche del Fusaro stanno dentro secchi pieni di acqua di mare, e fra tanti testacei deesi onorare il cannolicchio, genere il più venduto, il tartufo dal guscio bianco, il vongolo dalle valvole rosse, la patella reale dal guscio madreperla, la spuma marina e l’ostrica rossa. La fiera testacea è riparata verso il mare da una tela su cui è scritto il numero e il nome di ogni venditore, e a ogni banco è sospesa una lanterna, cosicchè la molteplicità produce quasi un aspetto di permanente luminaria» (Pistolesi, 1845: 238ss.).

Re Ferdinando amava molto i luciani, ritenuti i migliori (Russo, 1918), che gli avevano insegnato i loro segreti, applicati nelle sue battute di pesca (Sirago, 2022). Così l’ultima domenica di agosto veniva allestita una fantasmagorica festa nel rione dei luciani in onore della Madonna della Catena, un anticipo di Piedigrotta, la Nzegna, dal verbo napoletano ingignare, cioè inaugurare. La festa era aperta dal corteo reale, con la carrozza del re e della regina e le altre dei nobili, che si dirigeva alla spiaggia, attorniato dai popolani che ingignavano (inauguravano) vestiti nuovi e tra musiche, canti e danze arrivavano alla riva e si gettavano a mare. Era una festa religiosa, come quella di Piedigrotta, ma conservava tutti i tratti pagani. Re Ferdinando, «O’ maste ‘e fest» (il capo della festa), dopo la sua morte fu sostituito da un popolano che in abiti regali insieme ad una regina dava inizio alla festa. (Russo, 2013).

Fig. 7 Ostricari di Santa Lucia (Alinari)

Ostricari di Santa Lucia (Alinari)

Lo sviluppo del turismo e della balneazione: un nuovo quartiere di “loisir”

Dalla fine del Settecento a Napoli si sviluppò la “moda dei bagni” praticata da sir William Hamilton, ambasciatore inglese, e dallo stesso re Ferdinando, che amava “natare” nello specchio d’acqua del Molosiglio (oggi sede della Lega Navale e del Circolo Canottieri, fondato nel 1914). Dai primi dell’Ottocento, in epoca francese, in estate venivano date licenze ai “bagnaiuoli” per costruire camerini di legno, licenza concessa da re Ferdinando anche dopo La Restaurazione (1815). Lungo la spiaggia di Santa Lucia in quel periodo se ne contavano una decina, da cui il Comune ricavava un diritto di “palmaggio” (in base all’estensione dello “stabilimento”) che rendeva 170 ducati annui. Ma spesso nascevano controversie con i pescatori, che non riuscivano più a distendere le reti. Con l’incremento del turismo borghese la costruzione dei camerini venne regolamentata e affidata ad architetti di nomina regia per ottenere dei luoghi ben separati tra la popolazione maschile e quella femminile e furono emanati dei regolamenti per la gestione degli stabilimenti. Nello stesso periodo cominciarono ad essere costruiti eleganti alberghi, come l’Hotel de Rome, che aveva una propria discesa a mare, preferito dai cittadini britannici, e l’Hotel des Etrangeres al Chiatamone. Inoltre, alcuni appartamenti eleganti come «la casa arredata di prima classe della baronessa Acton» erano fittati da famiglie aristocratiche.

Fig. 8 Santa Lucia, 1867

Santa Lucia, 1867

In una delle numerose “Guide” pubblicate in quel periodo Marcello Perrino sottolineava che la spiaggia da Santa Lucia alla Villa Reale (costruita a fine Settecento, oggi Villa Comunale), quasi deserta fino a cinquant’anni prima, abitata solo da marinai e pescatori, era divenuta il sito più gaio e ridente della città partenopea (Perrino, 1830: 57).

Anche la famiglia reale aveva un “casino di delizie” all’inizio di via Santa Lucia, l’antica villa di Michele Imperiali, Principe di Francavilla, sita di fronte al Castel dell’Ovo, incamerata dalla regia corte dopo la morte del principe (1782). In questo “casino” vi era una terrazza sul mare dalla quale gli illustri ospiti del principe potevano ammirare le evoluzioni natatorie di giovani e giovinette, uno spettacolo affascinante raccontato da Giacomo Casanova (Sirago, 2021). 

Fig. 9 Bagni a Santa Lucia a mare, 1876

Bagni a Santa Lucia a mare, 1876

Il “casino” era molto amato dalla regina Maria Carolina che lo aveva fatto raffigurare in una “gelatiera” del “Servizio dell’Oca” utilizzato per imbandire la tavola reale eseguito nella Real Fabbrica di Capodimonte tra il 1793 e il 1795. Era stato ampliato nella seconda metà del Settecento, poi a fine secolo era stato annesso un caffeàus sul davanti, all’estremità del piccolo promontorio, era stato ampliato il terrazzo che affacciava sul mare e rinforzato il piccolo molo d’approdo (Knight, 1986).

Nel corso dell’Ottocento re Ferdinando, per rendere ancor più gradevoli i soggiorni balneari della famiglia reale, aveva fatto ampliare e abbellire l’edificio con costruzioni in stile neoclassico, con terrazze prospicienti il Castel dell’Ovo e con un edificio fornito di comode vasche per i bagni. L’immobile era immerso nel verde del boschetto di lecci (luogo in cui fu poi edificata via Chiatamone) ricco di statue, a cui faceva da sfondo il panorama del golfo. Per dare sicurezza all’approdo il caffeàus fu sacrificato ma con l’aggiunta di un molo parallelo si ebbe un porticciolo. In questo “luogo di delizie” il re ospitava anche reali ospiti stranieri (Knight, 1986; De Fusco, 2004; Sirago, 2013).

Fig. 10 “Veduta del Casino della Regina nella strada delle Crocelle”, raffigurazione su una gelatiera del “Servizio dell’oca”, Museo di Capodimonte, Napoli (Carola, 1986: 449, scheda 376)

“Veduta del Casino della Regina nella strada delle Crocelle”, raffigurazione su una gelatiera del “Servizio dell’oca”, Museo di Capodimonte, Napoli (Carola, 1986: 449, scheda 376)

Dopo l’Unità si sviluppò il concetto del “tempo libero”, del “leisure time”, che separava il tempo del lavoro da quello dello svago, per cui fasce sempre più ampie della borghesia entravano nella sfera dell’“ozio organizzato”, fino ad allora appannaggio dei nobili aristocratici che avevano dato vita al Grand Tour. La città partenopea, pur avendo perso il ruolo di capitale, era ancora meta dei viaggiatori stranieri, attratti dal mitico paesaggio, ben presente nell’immaginario collettivo, e dalla salubrità dell’aria. Per soddisfare l’elegante clientela a fine Ottocento furono aperti i “Magazzini Mele” che in estate proponevano deliziosi abitini pubblicizzati con eleganti manifesti.

Fig. 11 Grandi Magazzini Italiani Mele, Moda estiva (http://www.fondazionemele.it)

Grandi Magazzini Italiani Mele, Moda estiva (http://www.fondazionemele.it)

La moda della balneazione, iniziata come attività terapeutica, divenne una abitudine consolidata anche per le donne, che sfoggiavano eleganti costumini necessari per le evoluzioni natatorie (Sirago, 2021). Matilde Serao nei suoi “Mosconi” pubblicati sul quotidiano Il Mattino dava precise istruzioni sul “Saper vivere … marino”, curando anche la pubblicità degli stabilimenti balneari, dei vari prodotti cosmetici necessari per preservare la “pelle di luna” e dell’abbigliamento, soprattutto quello dei “Magazzini Mele”, con i cui proventi sosteneva il giornale (Sirago, 2010).

Lo sviluppo della moda della villeggiatura estiva dette un ulteriore impulso alla costruzione di alberghi di lusso, specie quelli costruiti tra il Chiatamone, dove scorrevano le acque termali, e Santa Lucia, dotati sia di bagni termali che marini, come l’Hotel Royal des Etrangers, aperto nel 1877, l’Hotel du Chiatamone e l’Hotel de Rome (Sirago, 2011 e 2014).

Fig. 12 Costumi balneari femminili nella belle époque

Costumi balneari femminili nella belle époque

Un albergo elegante era l’Hotel Washington – Hassler, sorto dopo l’Unità nell’antica villa appartenuta alla famiglia reale. L’edificio era stato ceduto nel 1860 da Garibaldi ad Alexandre Dumas che vi aveva creato la sede del giornale L’Indipendente. Pochi anni dopo fu acquistato dalla famiglia Washington e trasformato in un hotel di lusso, destinato a illustri viaggiatori come Ferdinand Gregorovius, che vi soggiornò nel 1864, prediletto dai viaggiatori americani. Quando iniziò la costruzione del futuro lungomare l’edificio non si trovò più in riva al mare ma sul marciapiede; mantenne comunque il suo status di hotel di lusso anche dopo il 1899, quando fu acquistato da Alberto Hassler. Negli anni Venti del Novecento il giardino fu distrutto per dare luogo a via Chiatamone mentre l’edificio veniva usato per il “Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche”, istituito nel 1920, la futura Facoltà di Economia e Commercio. Infine, la Facoltà è stata trasferita a Monte Sant’Angelo per cui l’edificio è stato trasformato in “Centro di attività culturale dell’Università di Napoli Federico II” (De Fusco, 2004).

Fig 13 Hotel Royal des Etrangeres (1880 circa)

Hotel Royal des Etrangeres (1880 circa)

Uno degli stabilimenti termali più à la page era quello dei “Bagni del Chiatamone” diretto dal medico Domenico Franco, collegato all’Hotel du Chiatamone (odierno Grand Hotel Vesuvio), aperto nel 1882 dal barone Oscar du Mesnil (Sirago, 2013: 55). L’imprenditore e urbanista belga, insieme al fratello Ermanno, tra il 1872 e il 1879 aveva coordinato la costruzione del lungomare, futura via Partenope, facendo realizzare le colmate a mare lungo la spiaggia di Santa Lucia per estendere la terraferma; in cambio aveva ottenuto la concessione di poter edificare sui nuovi suoli dove oltre allo stabilimento balneare aveva fatto costruire il suo palazzo residenziale, oggi sede dell’Università Orientale di Napoli (Alisio, 1989).

Fig. 14 Hotel Washington – Hassler

Hotel Washington – Hassler

L’hotel fu organizzato su modello degli stabilimenti francesi e inglesi che il barone aveva visitato e studiato, traendo spunto anche dai nuovi ritrovati presentati nell’Esposizione di Parigi, offrendo ogni comfort e ogni macchina termale all’avanguardia all’elegante clientela. Era dotato anche di un caffè- ristorante e di un giardino pensile da cui si poteva ammirare uno splendido panorama. In estate la sera si organizzavano allegri concerti. Nel corso degli anni il cortile interno fu coperto e fu creato un giardino d’inverno dove si poteva chiacchierare al suono della musica. Il complesso termale, costruito in stile neoclassico sulle fonti del Chiatamone e collegato all’Hotel, nei piani dell’imprenditore doveva far diventare Napoli una “stazione balneare di prim’ordine”, anche perché veniva aggiunto uno stabilimento per i bagni marini.

Sulla scia del du Mesnil venne creato un altro stabilimento termale e balneare, il “Premiato stabilimento Balneare Chiatamone Mansi”, costruito anch’esso sulle antiche sorgenti termali, diffusamente pubblicizzato da Matilde Serao sulla sua rubrica “Api mosconi e Vespe” del nuovo quotidiano Il Mattino, da lei fondato con il marito Edoardo Scarfoglio nel 1892 (Lazzaro, 1880; Sirago, 2010).

Anche l’Hotel de Rome, a Santa Lucia, dagli anni Settanta venne dotato di uno stabilimento balneare per «bagni dolci (termali) e di mare … secondo le nuove esigenze della nuova scienza idrica ed igienica» frequentato da napoletani e stranieri. Vi erano vasche di marmo per i bagni dolci e bagni marini, la “specialità dello Stabilimento”, che si potevano effettuare anche in vasche con acqua marina riscaldata, pompata con rubinetti, data la vicinanza del mare. Lo stabilimento era dotato di eleganti sale di aspetto, di lettura, di un giardino e dal restaurant si godeva una vista spettacolare del golfo (Salute e conforto ai bagni,1886; Rich -Izzo, 2014).

 L’hotel de Rome visto dall’imbarcadero (1890 circa)

L’hotel de Rome visto dall’imbarcadero (1890 circa)

Oltre gli stabilimenti termali sulla spiaggia di Santa Lucia- Chiatamone venne creato un elegante impianto balneare, l’Eldorado Santa Lucia, «alla punta del forte dell’Ovo» dall’imprenditore Gabriele Valenzano. Nello stabilimento, anch’esso pubblicizzato da Matilde Serao come “Grande Stabilimento Balneare di prim’ordine”, alla stregua del mitico Pancaldi di Livorno, vi erano circa   350 camerini in muratura forniti di lavabo con acqua corrente (una vera novità!) e specchi, attrezzato in “modo moderno” con ogni comfort, «caffè, buffet, vaporino (per trasportare i bagnanti) carosello, fontana luminosa, doccia, ginnastica, servizio medico». La Serao sottolineava che vi era una vasca di 3000 metri quadrati ma ci si poteva bagnare anche in mare, poiché i piedi poggiavano “su arena soffice”. Ed era diventato così alla moda da essere preferito dalla duchessa Elena d’Aosta, che abitava a Capodimonte. Durante le serate estive sulla bella terrazza in cemento armato affacciata sul mare si esibivano importanti compagnie teatrali, primi esempi di “varietà”, o si organizzavano eleganti serate danzanti (Sirago, 2013: 54-58). Il Valenzano, da buon imprenditore, nel 1907 propose anche un nuovo divertissement, un annuale concorso di bellezza volto all’elezione della “Regina del mare”, con una giuria composta da nomi illustri come Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Dalbono. i rappresentanti dei club nautici e altri artisti. Ma dopo la morte del Valenzano lo stabilimento chiuse, e con esso il teatro, poiché tutti gli stabilimenti balneari, privi di spiaggia dopo la costruzione del lungomare, dovettero trasferirsi tra Coroglio e Bagnoli (Rich -Izzo, 2014:77ss.).

 Fig. 17 Bagno Eldorado - Lucia

Bagno Eldorado – Lucia

Dopo l’Unità le antiche trattorie cominciarono a trasformarsi in eleganti ristoranti, soprattutto quelle prospicienti il Castel dell’Ovo e quelle del Borgo marinaro. Un locale famoso era il restaurant Starita, nel Borgo marinaro luogo prediletto da Edoardo Scarfoglio che aveva il suo yacht ancorato alla banchina di Santa Lucia (divenuto probabilmente ristorante fratelli Caso), oggi Il Transatlantico, dotato anche di suites (Rich -Izzo, 2014: 74-75).

Fig. 18 Ristorante Fratelli Caso

Ristorante Fratelli Caso

Anche il ristorante Zi’ Teresa, fondato nel 1890, ben presto divenne famoso. Teresa era figlia di un garibaldino, Gennaro Fusco, che al ritorno a Napoli si era dato alla pesca con una delle barchette che partivano dal porticciolo di Santa Lucia. Teresa, che viveva in un piccolo basso del Borgo dei marinai, rimasta vedova, aveva cominciato a vendere i profumati cibi preparati da lei su piccoli tavolini posti davanti al basso. Ben presto il ristorante divenne meta di importanti personalità, menzionato anche sul New York Times, ed oggi è annoverato tra i ristoranti “storici” d’Italia. (www.ziteresa.it<storia).

Fig. 19 Borgo marinaro, Ristorante Zi’ Teresa

Borgo marinaro, Ristorante Zi’ Teresa

Una storia interessante è quella del ristorante “La bersagliera”, annoverato tra gli “storici” d’Italia, aperto nel 1919: la figlia del bersagliere Roderico del Tufo, Emilia, sposatasi con un luciano, Luigi Chiosi, in un primo momento preparava da mangiare per la numerosa famiglia impegnata nel noleggio delle barche. Poi cominciò a preparare anche colazioni con fumanti maccheroni e mescite di vino a marinai e studenti; infine aprì una trattoria in cui offriva, tra l’altro, ottimi “maccheroni al pomodoro” per i giovani sportivi dei circoli nautici. In breve tempo il ristorante, celebrato da Eduardo De Filippo e Totò; divenne meta preferita dei viaggiatori che frequentavano i lussuosi alberghi della zona (https://www.labersagliera.it/la-storia/).

In quel periodo si era diffusa la moda inglese dei circoli nautici per cui nel 1893 era stato fondato a Santa Lucia il Circolo Canottieri Sebezia, diventato nel 1895 Yacht Club Canottieri Savoia (http://www.ryccsavoia.it) e nel 1905 una società di pallanuoto sotto la presidenza dell’ingegnere Cottrau, ribattezzata nel 1927 Rari Nantes (http://www.storiedisport.it/?p=12150). Poi nel 1914 era stato costituito al Molosiglio il Circolo Canottieri (http://.circolocanottierinapoli.it). Il quartiere di Santa Lucia era ormai entrato a far parte della zona del leasure time.  

 Santa Lucia e il ristorante La Bersagliera

Santa Lucia e il ristorante La Bersagliera

Conclusioni

Gli effetti dello “sventramento” di Napoli a fine Ottocento hanno dato luogo al risanamento di Santa Lucia: i pescatori “luciani” furono trasferiti al borgo marinaro, creato alle falde del Castel dell’Ovo (Alisio, 1989). Ma dopo l’apertura del lungomare (via Caracciolo e via Partenope) la spiaggia, frequentata da almeno 20 mila persone lungo tutto il litorale, è scomparsa e gli stabilimenti balneari sono stati trasferiti tra Coroglio e Bagnoli (De Lorenzo, 2010: I).

Le nuove arterie create a fine Ottocento lungo le antiche spiagge del Carmine, di Santa Lucia e Mergellina, hanno modificato la struttura urbana e fatto sparire un aspetto caratteristico della città partenopea, quello degli antichi quartieri dei pescatori (Marmo, 1977), scacciando definitivamente da Napoli la sirena Partenope (Armiero, 19998 e 2004). Ma al loro posto tra Santa Lucia e Mergellina si è sviluppata una nuova città di loisir, che ancora ammalia i numerosi turisti (Sirago, 2014b). 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503 -1707), Licosia ed. Napoli 2018; La penna e la spada Bernardo e Torquato Tasso da Tunisi a Lepanto, Quaderni di Historia Regni, Nocera Superiore (Salerno), 2021; Il mare in festa Musica balli e cibi nella Napoli viceregnale (1503-1734), Kinetés edizioni, Benevento, 2022; L’istruzione nautica nel regno di Napoli [1734-1861], Società Italiana di Storia Militare, nadir Media, Fucina di Marte, Collana della Società Italiana di Storia Militare, vol.9, 2022, online.

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