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Democrazia: dalla teoria alla pratica

Leda e il cigno, cammeo, Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Leda e il cigno, cammeo, Museo Archeologico Nazionale, Napoli

di Elio Rindone 

Come facilmente prevedibile, e ampiamente confermato da secoli di esperienza, un abisso spesso separa i più nobili progetti, tanto politici quanto filosofici o religiosi, dalla loro attuazione pratica. Società che si definiscono cristiane non hanno stravolto il messaggio di amore fraterno del vangelo promuovendo guerre, discriminazioni, intolleranza, violenza, sottomissione e sfruttamento dei più deboli? E quanto dista lo stile di vita dei Paesi in cui si è affermato il buddhismo dai principi proclamati dal Buddha, o quanto era lontana l’organizzazione della Russia sovietica da quella che avrebbe dovuto realizzarsi, secondo Marx, con l’abolizione della proprietà privata? Nulla di strano, quindi, se anche i regimi democratici sembrano spesso negare i valori a cui proclamano di ispirarsi.

Ciò non toglie, certo, che anche una democrazia malridotta come quella attuale (ci riferiamo al caso italiano, ma il problema si pone anche per altri Paesi) sia di gran lunga preferibile alla più efficiente delle dittature. E tuttavia non si può ignorare una crescente disaffezione, testimoniata dal continuo calo degli elettori. Una delle ragioni di tanta delusione è costituita, credo, dal fatto che il sistema democratico si è ridotto alla pratica di periodiche elezioni, che attribuiscono il potere politico a chi ottiene la maggioranza dei seggi in Parlamento. Ed è ovvio che il solo criterio numerico non è sufficiente per garantire un buon governo!

In effetti – come ricorda Valentina Pazè [1], in un bell’articolo che prende le mosse dal celebre elogio, attribuito a Pericle da Tucidide, della democrazia ateniese – il regime democratico «non si basa esclusivamente sulla forza del numero (i ‘molti’ che prevalgono sui ‘pochi’), ma sulla libera discussione, e sulle ragioni che essa fa emergere». Anche questo, infatti, è un elemento imprescindibile, come dichiara il Pericle tucidideo:

«noi Ateniesi partecipiamo alle decisioni comuni, riflettendo a fondo sugli affari di Stato, poiché non pensiamo che il confrontare le differenti opinioni arrechi danno all’agire, ma che il pericolo risieda piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di passare all’azione».

pazeSe è vero che pure ad Atene la realtà era non di rado lontana dalla teoria, resta il fatto che quanto più è assente il confronto tra cittadini informati, tanto più la parola ‘democrazia’ perde il suo significato. Infatti, ribadisce Pazè, «la democrazia […] non si fonda esclusivamente sulla forza del numero. Essa trae la propria legittimità dal fatto che, prima del voto, i cittadini abbiano avuto la possibilità di formarsi un’opinione attraverso un dibattito libero e informato».

Cittadini informati, che eleggono uomini e donne che in Parlamento discutono liberamente, e le cui decisioni sono quindi regolarmente precedute da proposte frutto di studio e di riflessione: si può affermare che oggi la nostra democrazia abbia queste caratteristiche? O piuttosto, come capitava già ad Atene, la parola è usata non per mettere a confronto opinioni sostenute da argomentazioni razionali, ma per ottenere il consenso della maggioranza agendo sulla sfera emotiva? Da “veicolo di razionalità e di verità”, la parola si trasforma così in “strumento di seduzione e manipolazione da parte di retori e demagoghi”.

La democrazia diventa allora, come già Hobbes giudicava l’esperienza ateniese, «un’aristocrazia di oratori, interrotta talvolta dalla temporanea monarchia di un solo oratore», in cui i cittadini – influenzati dall’eloquenza ingannevole dei maestri della parola – non votano «in base alla retta ragione, ma al trasporto dell’animo». E con quanta maggiore facilità, ormai da decenni, retori e demagoghi possono, scavalcando il Parlamento, manipolare l’opinione pubblica! Grazie al proliferare di mezzi di comunicazione sempre più efficaci, infatti, è ormai naturale che si instauri un «rapporto diretto tra il leader e la massa, attraverso la televisione e altri strumenti di comunicazione solo apparentemente più democratici», come i social media!

Altro che confronto tra opinioni sostenute da argomentazioni razionali! È noto ormai, almeno dai tempi di Marx, che le idee dominanti sono quelle della classe dominante: è questa che decide ciò che i cittadini devono sapere o ignorare. In un mondo caratterizzato dal culto del denaro, il messaggio che passa, e che determina la configurazione della nostra società, è quindi uno solo: quello della più ricca borghesia che impone il dogma su cui si basa il suo potere, e cioè che il sistema capitalistico risponde agli interessi di tutta la società e che ad esso non c’è alternativa. I governi, in misura maggiore o minore, sono asserviti di fatto alla grande finanza e, per mantenere l’ordine costituito ed evitare inaccettabili mutamenti dei rapporti di forza, in alcuni Paesi essi sono pronti, nel caso non bastassero gli strumenti abituali, a utilizzare i mezzi ancora più persuasivi della violenza mafiosa. Su questi due aspetti – falsi messaggi da diffondere e fatti indicibili da nascondere – che poco hanno a che fare con i principi democratici, ci soffermiamo brevemente in questo articolo. 

41tey4ogpjlIn un efficace pamphlet di recente pubblicazione, Clara Mattei [2] spiega come l’opinione pubblica venga comunemente manipolata: «gli economisti di professione, la televisione, i social, i giornali perpetuano quotidianamente l’accettazione e la diffusione di narrazioni che mascherano il funzionamento del nostro sistema economico». Contrariamente a quanto si vuol far credere, le scelte economiche non mirano per nulla a «un fantomatico bene comune. Occorre rendersi conto che nel sistema capitalistico le politiche economiche funzionano a vantaggio di alcuni e a discapito della maggioranza. La nostra macchina economica non è strutturata per soddisfare i bisogni della gente comune ma per aumentare la rendita e i profitti dei pochi detentori del capitale». Le decisioni dei nostri politici hanno in realtà un solo obiettivo: «il mantenimento di una società di pochi vincitori e di molti vinti, sempre più isolati e intrappolati in condizioni materiali che impediscono di ritagliarsi il tempo e lo spazio collettivo per immaginare un modello sociale differente».

In effetti, cosa fanno da decenni i nostri governi se non privatizzare i beni pubblici, rendere il lavoro sempre più precario e indebolire i sindacati? I tagli alla sanità e alla scuola pubblica sono presentati come una dolorosa ma necessaria scelta di austerità, mentre «aumenta la spesa militare o quella per salvare e sostenere banche e imprese in difficoltà», trasferendo così «le risorse dai molti cittadini che dipendono dai salari che guadagnano ai pochissimi che vivono dei redditi da capitale generati dalla ricchezza posseduta».

Nello stesso tempo, mentre da un lato si fanno «riforme del fisco in senso regressivo», diminuendo le aliquote fiscali, e quindi la progressività delle imposte – nello slogan ‘abbasseremo le tasse’ non possono certo aggiungere: ‘ma solo ai ricchi’ – dall’altro si aumenta “l’Iva (che paghiamo tutti allo stesso modo indipendentemente dal nostro reddito)”. Il risultato è sempre lo stesso: avvantaggiare i detentori di capitali e mettere i lavoratori nella condizione di dover accettare anche un basso salario. E perciò, ovviamente, spesso i governanti «combattono il concetto stesso di reddito di cittadinanza che, in sé, è potenzialmente sovversivo: rischierebbe di illuderci che soddisfare i nostri bisogni primari sia un diritto invece che l’esito intermediato dal lavoro sfruttato».

Un buon numero di disoccupati, privi di ogni reddito, non è un problema: anzi, favorisce gli imprenditori, perché costringe i lavoratori ad accettare anche salari da fame. Perciò 

«per l’economia capitalistica la disoccupazione non è un male eccezionale ma un bene costitutivo e necessario, che difende un ‘sano’ rapporto di forza tra capitale e lavoro. La paura della disoccupazione agisce come strumento che crea ordine e disciplina, ed è talmente forte che porta i lavoratori non soltanto ad accettare la propria condizione di salariati molto spesso insoddisfatti, ma anche ad adeguarsi a stipendi sempre più bassi». 

E risponde parimenti all’interesse degli imprenditori disporre di un buon numero di immigrati privi di diritti. Quando cresce il malessere sociale, i governi, infatti, 

«soffiano sul fuoco per accendere l’odio dei deboli e scaricarlo contro quelli che sono ancora più deboli. Presentate come un modo per proteggere i cittadini, le leggi restrittive sull’immigrazione […] aggiungono all’esercito di riserva una massa di stranieri illegali […] che portano al ribasso la competizione nel mercato del lavoro». 

Se la realtà è questa, si capisce perché sono indotti a disertare le urne milioni di cittadini che constatano che, pur variando il colore dei governi, le loro misere condizioni di vita non cambiano, e anzi peggiorano. In Italia, infatti, 

«dove i salari sono in declino da decenni e il costo della vita è in aumento, intere famiglie di lavoratori sono ormai piombate nella povertà assoluta (1,9 milioni di famiglie nel 2021 secondo l’Istat, e i nuovi dati si preannunciano in crescita), e vi è addirittura un’opposizione feroce a introdurre un salario minimo di 9 euro all’ora». 

La lotta di classe l’hanno vinta davvero i ricchi: 

«il recente rapporto Oxfam (gennaio 2023) mostra che in Italia lo 0,1 per cento più ricco detiene una ricchezza pari al 60 per cento più povero. Se negli ultimi dieci anni il numero dei minori in povertà assoluta è triplicato, e parliamo di quasi un minore su sette, nello stesso periodo il numero dei miliardari è sestuplicato». 
Scarpinato

Roberto Scarpinato

Oltre che a promuovere l’economia capitalistica, giornali e televisione sono impegnati a nascondere il ricorso alla violenza di alcune forze politiche che sono disposte a stringere accordi anche con la mafia. In questo caso, per comprendere come stanno veramente le cose, ci si può rivolgere a chi, come il magistrato oggi in pensione Roberto Scarpinato, la mafia l’ha combattuta davvero. In un intervento, facilmente reperibile sul web [3], egli sostiene, citando una serie di sentenze definitive, che la storia della cosiddetta Prima Repubblica è stata segnata sin dall’inizio da una serie di stragi, eseguite certo dai mafiosi ma programmate da apparati dello Stato. Le stragi del 92-93 sarebbero, quindi, gli ultimi episodi, in ordine di tempo, «di una sanguinosa guerra del potere e per il potere che è stata combattuta dietro le quinte in Italia sin dall’inizio della Repubblica». Solo qui e in nessun altro Paese europeo, afferma Scarpinato, la lotta politica, oltre che alla luce del sole, si è svolta a un secondo livello, «nel fuoriscena, dietro le quinte, nell’ombra, con stragi, omicidi, intrighi di Palazzo finalizzati in alcuni momenti di crisi a condizionare l’evoluzione del quadro politico».

Di particolare interesse è quanto risulta processualmente confermato riguardo alle stragi del periodo che ha preceduto la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica: 

«Le stragi del 92-93 non furono affatto opera esclusiva dei mafiosi, furono eseguite dai mafiosi ma furono pianificate da mandanti esterni per ragioni politiche e furono coperte da esponenti dei servizi segreti e della polizia con depistaggi per evitare che dal livello degli esecutori si potesse risalire al livello dei mandanti. Mandanti eccellenti che grazie ai depistaggi non soltanto l’hanno fatta franca ma hanno raggiunto lo scopo di contribuire a costruire con le stragi il nuovo ordine politico dopo la fine della prima Repubblica».

Quando hanno temuto che col loro voto gli elettori potessero mandare al potere uomini fedeli ai principi costituzionali, certe forze politiche hanno dunque ancora una volta fatto ricorso alla mafia. E si tratta di forze politiche che oggi sono al potere, tanto che, sostiene Scarpinato, quelle verità sono ancora indicibili, devono restare segrete, fanno ancora paura perché, venendo a galla, «possono fare traballare gli attuali equilibri politici».

71jwwy54ccl-_ac_uf10001000_ql80_Tutto ciò non consente – è assolutamente evidente – alcun facile ottimismo. Finché permane questo quadro politico, non è neanche lontanamente pensabile che la magistratura possa fare liberamente il suo lavoro. Ma non è possibile neanche una ricostruzione politico-culturale delle stragi, che comprometterebbe l’immagine di tanti uomini di potere. Se le cose stanno così, è difficile affermare che nel nostro Paese si svolge un libero confronto democratico tra diversi partiti politici. E la situazione può ulteriormente peggiorare, conclude Scarpinato riferendosi ai progetti di riforma costituzionale proposti da chi oggi è al governo: 

«Dobbiamo essere realisti: si annuncia una stagione durissima. Tutto è in gioco se riescono a fare questa Repubblica Presidenziale, la stessa che prima volevano fare con le stragi e che ora vogliono realizzare con la forza politica. Se addomesticano la magistratura, sottoponendo il pubblico ministero al potere politico è finita: ci aspettano altri 20 anni di fascismo». 

Al di là del caso italiano, di cui ci siamo sin qui occupati, è però scoraggiante la situazione complessiva del nostro mondo globalizzato, in cui ha un ruolo di primo piano l’Occidente che si definisce democratico. Ancora oggi la struttura della società non è molto diversa da quella descritta, quasi un secolo fa, da Max Horkheimer (1895-1973): una piramide con al vertice i possessori di grandi ricchezze e alla base miliardi di esseri viventi la cui sofferenza non ha limiti. Ecco le sue parole: 

«Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: Su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici, che però sono in lotta tra di loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini; poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai vecchi e ai malati.
Soltanto sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei Paesi capitalistici sviluppati, la cui vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semicoloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. […]. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie [servi] della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. […] Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il tetto una cattedrale, assicura effettivamente dalle finestre dei piani superiori una bella vista sul cielo stellato» [4]. 

Un simile quadro è compatibile con gli ideali democratici? E, tornando all’Italia, è compatibile con la nostra Costituzione, che assegna allo Stato il compito di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3)?

Nell’anno appena iniziato, cosa possiamo fare se non impegnarci per evitare che la distanza, già inaccettabile, tra la teoria democratica e la sua attuazione pratica aumenti ulteriormente?

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] V. Pazè, La parola pubblica come fondamento della democrazia?, in Legittimazione del potere, autorità della legge: un dibattito antico, a cura di Fulvia de Luise, Collana Studi e Ricerche n. 10: 53-72. Le frasi riportate tra virgolette, se non altrimenti specificato, si riferiscono a questo articolo.
[2] C. E. Mattei, L’economia è politica, Trebaseleghe 2023. Le frasi che seguono, riportate tra virgolette, se non altrimenti specificato, si riferiscono a questo libro.
[3] R. Scarpinato, Le verità scomode delle stragi del 1992 e del 1993, https://www.youtube.com/watch?v=9r1dTkfCnIE. Le frasi che seguono, riportate tra virgolette, se non altrimenti specificato, si riferiscono a questo video.
[4] M. Horkheimer, Il crepuscolo. Appunti presi in Germania (1926-1931), Torino 1977: 68-70.

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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su “Aquinas”, “Rivista internazionale di filosofia”, “Critica liberale”, “Il Tetto”, “Libero pensiero”.

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