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Nuove su Ripellino

primaverile-ripelliniano-coperinadi Antonio Pane 

Nella Premessa al ventaglio di saggi consacrati, nel sottotitolo, a Ripellino prosatore, Giuseppe Traina non ha paura di ammettere che «di fronte alla prodigiosa cultura di Ripellino, forse non si dovrebbe far altro che ritirarsi in buon ordine a studiare, di più e meglio». La decisione di procedere comunque, di affrontare l’ardua esplorazione dell’immensa contrada di Ripellinia, del ‘continente Ripellino’ [1], e di farsene onesto agrimensore, è così testimoniata da una mappa che ne ritaglia quattro quadrati quartieri (rispettivamente adibiti al flâneur di Praga magica, al saggista di Il trucco e l’anima e Letteratura come itinerario nel meraviglioso, al critico delle arti visive, al reporter della ‘Primavera di Praga’), mentre la targa superiore, Primaverile ripelliniano, condensa «l’idea che in Ripellino la brillante felicità della scrittura critica che lo contraddistingue quasi come un unicum nel novero dei grandi saggisti italiani del Novecento non manca mai di colorarsi di tinte malinconiche e occidue finendo per coincidere con la sua idea, appunto malinconica, di primavera, mentre, al contrario ma in perfetto equilibrio ossimorico, le tinte autunnali della sua poesia trovano sempre, nel gioioso dispiegarsi della pronuncia lirica, un risarcimento che consente, al poeta e al lettore, di non sprofondare mai nello sconforto».

Sull’alea di questa un po’ generica e un tantino forzata, ma, tutto sommato, efficace simmetria, Traina annuncia che una seconda topografia, in lavorazione, sul Ripellino poeta, prenderà il titolo di Autunnale ripelliniano (con simultaneo riferimento al ripelliniano Autunnale barocco e al dittico narrativo di Dario Voltolini, costituito da Primaverile (uomini nudi al testo) e Autunnale (dalla finestra sul teatro)), depositando sull’altro piatto della sua ‘bilancia consuntiva’ il compendio di riflessioni su un aspetto spesso oscurato dalle acrobazie del virtuoso (e non sempre colto dai suoi ammaliati spettatori): la coerenza etico-estetica, esito della libertà che informa la scrittura di Ripellino («così screziata nei toni e così fluttuante nei riferimenti culturali»), e che «si fa scelta etica di fronte a ogni fanatismo, sia esso del metodo critico o, a maggior ragione, dell’ideologia che giustifica la sopraffazione»; scelta che, scavalcando il «passato assoluto novecentesco» in cui l’opera di Ripellino sembra relegata, viene incontro al nostro bisogno di una «respirazione larga, a pieni polmoni».

pragaFrutto di una pluriennale applicazione (confessata in Sigle, avvertenze e ringraziamenti, dove si avverte altresì che i primi tre saggi «derivano, con rielaborazioni anche profonde, da precedenti pubblicazioni», mentre il quarto è inedito), il polittico è inaugurato dalle quindici pagine che tracciano un rapido profilo di Praga magica: ragionevole e rispettoso appressamento a un libro ‘fuori misura’ (nell’inviarne il manoscritto a Guido Davico Bonino lo stesso autore giunse a definirlo «il Mostro») [2], refrattario a ogni epitome, così ricco di temi e riferimenti che l’‘Indice dei nomi e delle cose notevoli’ che giocoforza vi manca ne pareggerebbe, si può dire, la mole. Uno schizzo che è quindi per prima cosa portato a rilevarne la poliedricità (il suo essere in uno «repertorio di autori e testi letterari, utilizzati come fonti di penetranti considerazioni storiche, storico-culturali e antropologiche», antologia di citazioni testuali quasi sempre «tradotte di prima mano», «tourbillon di considerazioni estrose e pertinenti su autori e personaggi prelevati dai mondi confinanti dell’arte, del teatro, del cabaret, del circo, della musica ma con, in più, l’affacciarsi frequentissimo di personaggi appartenenti alla storia […] o alla mitografia praghese» e «libro di una vita»), per evidenziarne poi risvolti cruciali, a partire dalla sbandata architettura che sembra imitare la forma della stessa città che ripercorre, e proseguendo con le sapide osservazioni sul «fluire associativo e inevitabilmente divagante, l’accostamento di tessere in vista della costruzione di un puzzle forse interminabile», sul «tono da litania», sulla «sequela di formule da interrogazione d’aruspice», sugli «incastri illusionistici – eppure così rivelatori – esperiti da Arcimboldo», sulla «malinconica e affettuosa celebrazione di un mondo che fu», sul «rabbioso struggimento per le perdute speranze della “primavera di Praga”», sul Kafka utilizzato come «mito paradigmatico dell’ingresso nel Novecento della capitale boema, ma anche come emblema riassuntivo di una sua essenziale tendenza a vivere con “una fenditura nel cervello”, che è garanzia di “libertà”», sulla «natura intrinsecamente teatrale ed attoriale che Ripellino non faceva nulla per nascondere», sullo stile che convoglia «un’immagine da orafo che è squisitamente praghese e rodolfina», sino alla suggestiva rilevazione della contiguità fonica fra i nomi di TitorELLI e RipELLIno (nonché dello ScardanELLI chiamato in causa, da alter ego, in varie poesie).

Relativamente più praticabili del labirintico maniero praghese, i variegati edifici del Ripellino saggista danno adito, mediante avveduti assaggi, a perspicue precisazioni degli appunti, anticipati in Premessa, sull’‘impegno’ di Ripellino (dalla scrittura che sa farsi «malcelatamente ma intrinsecamente politica, o tout court “civile”: come di scorcio, en passant» alla sua «valenza “politica” o morale di stampo benjaminiano») e ad affondi che toccano «la scelta dell’anti-accademismo come contravveleno esistenziale e l’opzione per la slavistica come volano d’una vocazione da comparatista sommo», il raffronto come «braccio armato iperattivo della forma mentis di Ripellino», la «ricerca di un linguaggio proprio ed originale, innanzitutto chiaro», l’«inarcatura di marca espressionista» attribuita allo «scialo delle metafore sorprendenti, dei guizzi lessicali, delle spire sintattiche», il «cammeo critico sintetico, ottenuto per metafora o per similitudine», la singolarità di uno slavismo ‘senza tempo’, concepito come signoria su un «continuum culturale acronico», i sorprendenti «residui crociani» avvistati nello studio su Deržavin [3], la giusta sottolineatura del ‘capriccio’ che «modula toni, cadenze, musiche, movenze sintattiche e lessicali sugli umori più personali», per giungere alla indovinata immagine del «grande circo in cui [Ripellino] gioca tutti i ruoli (domatore, saltimbanco, funambolo, augusto e clown bianco)».

isognideSi rimane invece perplessi quando la «scrittura compatta, cézanniana» rivendicata da Ripellino viene ricondotta, non, come sembrerebbe evidente, alla pennellata densa, ‘materica’ dell’artista, ma alla «smagliante libertà di Cézanne da gruppi e conventicole, alla sua formazione “senza maestri”, alla sua ambizione di essere “un poeta, un letterato»; e si stenta a validare il punto che nel paragone «tra le ‘masse’ attoriali che grazie a Stanislavskij “ripresero vita” sul palcoscenico, mentre prima “stavano sul palcoscenico mute come ordinate bottiglie, con un’inerzia da spaventapasseri”» intravede una «criptocitazione», un velato richiamo alla pittura di Morandi: cosparsa sì di bottiglie, ma tremule, quasi respiranti, tutt’altro che inerti e fantocce.

Le saltuarie incursioni di Ripellino nel campo delle arti visive, a suo tempo raccolte, a cura di Alfredo Nicastri, ne I sogni dell’orologiaio (un contenitore cui oggi si può idealmente unire il ‘medaglione’ sul pittore ceco Richard Fremund, apparso nel n. 10, aprile-giugno 1969, di «Carte segrete») [4], sono opportunamente collocate nell’orizzonte longhiano di una «critica d’arte pronta allo sconfinamento continuo in altri campi del sapere», con vivide e pertinenti postille che ne valorizzano di volta in volta l’‘ecfrasi rovesciata’ (che «illustra i testi letterari mediante “immagini”»), la precoce predilezione per «il dialogo circolare tra le arti, dove le intuizioni critiche si traducono in cortocircuiti che felicemente e sincronicamente travalicano i confini tra periodi storici, poetiche, nazionalità e culture diverse», l’immaginario di specie «prevalentemente iconica», la clownerie come «categoria critica e procedimento di scrittura» che promuove una «particolare versione dello straniamento di Šklovskij», il superamento della stessa «tradizione ecfrastica» mediante «scarti interpretativi metaforici, lessicali o analogici» che risolvono «la necessità innanzitutto linguistica di colmare un vuoto», con ‘equivalenti competitivi’ condotti «fuori dallo spazio linguistico consueto, dal recinto della lingua d’uso».

614keygcfal-_ac_uf10001000_ql80_Appreso anch’esso a un altro utile recipiente (L’ora di Praga che, dopo la breve antologia offerta da I fatti di Praga, ha procurato, per una felice intuizione di Andrea Cortellessa, l’integrale degli scritti ripelliniani sul dissenso e sulla repressione in Cecoslovacchia e nell’Europa dell’Est), l’ultimo riquadro verte sulle scritture che meglio documentano la coraggiosa ‘militanza’ di Ripellino (che gli valse l’esilio dai Paesi alla cui cultura aveva dedicato la vita). L’attento esame di questi materiali (e dei coevi resoconti forniti dai cronisti di mestiere e dalla stampa P.C.I.) autorizza condivisibili referti sul raffinato intellettuale che sceglie consapevolmente di «adattare il suo stile all’urgenza dei fatti da raccontare» (e quindi di «adottare la forma del reportage: rapida, disinvolta, tutta “fatti” e poche “parole”»), sul suo dettato che ancor più «si semplifica a partire dagli articoli del luglio ’68» (quelli scritti a ridosso dell’invasione del Patto di Varsavia), sul fatto che «pur adattando saggiamente il suo stile e le sue argomentazioni alle necessità del momento, Ripellino rimane in questi testi sempre sé stesso», e che «nei mesi successivi all’agosto ’68, l’emozione rabbiosa si va però stemperando in un sentimento più tipico di Ripellino, in una malinconia struggente» (non del tutto centrata mi sembra però la divinazione di «un progressivo allontanamento dall’amore per la cultura russa»: smentita da una bibliografia che, negli anni estremi di Ripellino, presenta prove come la monumentale digressione sulle prose di Rozanov [5], un Play Majakovskij [6], le prefazioni a Drammi lirici di Blok [7], Cuore di cane di Bulgakov [8], La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj [9]; per non parlare del libro su alcuni poeti russi del Novecento interrotto dalla morte [10]).

Alle mirate prospezioni di Giuseppe Traina si aggiunge, in coda al nostro volumetto, la ‘ciliegina’ di Luigi Weber (direttore di «Lettere Persiane», la collana di Mucchi che vi ha dato asilo): Necessità di Ripellino, un arioso excursus che denuncia, con rara affabilità e frizzantina ironia, la rimozione (consumata durante lo «sciagurato trentennio berlusconiano») di «quasi tutta la letteratura italiana contemporanea», e in particolare della critica letteraria, licenziando (insieme a imperdibili digressioni sullo stato della poesia italiana «ingabbiata alla triade di matusalemmi Ungaretti-Montale-Saba, con l’inaggirabile e francamente insopportabile propaggine di Pasolini, santificato nei modi più stucchevoli, e anch’egli poi, dopotutto, ben più citato e omaggiato e rimpianto e brandito che realmente letto»; o sul «chiacchiericcio onnipresente dei media dei social e del marketing, che da ogni cosa tendono a estrarre un succo banalizzato e gridato, di ogni idea fanno uno slogan, di ogni ragionamento un brand o una contrapposizione da tifo calcistico, e ad ogni diversità vogliono imporre un’etichetta normalizzante») «una sorta di contro-canone, o meglio ancora di canone parallelo, o ancor meglio un corso universitario» sugli «scrittori-critici che danno il meglio di sé, più ancora che nel contribuire alla ricerca nel loro specifico settore, quando forzano la lingua in cui si esprimono a diventare uno strumento conoscitivo ed espressivo insieme»; un argomentato elenco (di «grandi personaggi di cui abbiamo perduto la memoria, come prigionieri di un feroce incantesimo, come compagni di viaggio di Ulisse mutati in porci non da una maga ma, semmai, dagli imperativi del consumo») che non si può non sottoscrivere e che snocciola i nomi di Renato Serra, Giuseppe Antonio Borghese, Emilio Cecchi, Mario Praz, Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti, Cesare Brandi, Giovanni Macchia, Angelo Maria Ripellino, Piero Camporesi, Cesare Garboli, Grazia Livi, Alberto Arbasino, Roberto Calasso, Carlo Ginzburg, con una speciale menzione per Alberto Savinio, gemello perfetto di Ripellino, ugualmente dedito «alla divagazione, alla costruzione bizzarra, ed enigmatica, per slittamenti analogici, onirici ed arlecchineschi», ugualmente votato a ricordarci che «la critica è l’esercizio più prossimo alla fantasia, e si trova in questa libertà straordinaria, di penetrare il reale e liberarlo alla complessità invece che incaprettarlo alla sintesi, ciò di cui più abbiamo bisogno oggi».

mini_magick20200305-485-bgl2ppDa questa allettante compagine è rimasto escluso, si può credere per esigenze ‘architettoniche’ (che tuttavia non impedivano di farne una succosa Appendice), Il dialogo intertestuale di Bufalino con Ripellino: un primo sondaggio su L’amaro miele (apparso in «Cahiers d’études italiennes», 30/2020), che Traina diminuisce a «sommario regesto» e «rapida campionatura» in vista di un più ampio lavoro da condurre «su tutto il corpus dell’opera bufaliniana», ma che intanto non manca di farsi apprezzare. Il provvisorio bilancio del parziale schedario registra infatti, piuttosto che un pensabile influsso di Ripellino su Bufalino, una significativa serie di correspondances fra due distinti percorsi «confluiti in una comune visione della letteratura e dell’arte come ‘meraviglioso’ ‘balsamo e contravveleno’ ai drammi della vita e, anche, procedimento affine alla rêverie poetica che Bachelard ci ha insegnato a riconoscere» (con la pagina bianca che «si configura come lo spazio adatto ad esprimere i tormenti della vita e i balsami dell’arte, lo strazio e il diletto, il falsetto e il belcanto, il ‘trucco’ e l’‘anima’»): convergenze che riguardano partitamente la metrica (nel «recupero di forme metriche tradizionali, sempre attraversato dal novecentesco senso di libertà che si prova nel trasgredirle», e in una «certa predilezione per la composizione in quartine, più regolarmente assonanzate che rimate»), la sintassi (nel gusto dell’elencazione «non di rado caotica, talvolta in climax», della «ripetizione ravvicinata, nello stesso verso o in versi contigui, a volte in anafora, che assume sempre valore enfatico in contesti tendenzialmente drammatici, se non melodrammatici», delle «forme vocative» che in Ripellino tradiscono il «mascheramento di un effettuale e sincero slancio relazionale», la «teatrale esibizione di dialogati fittizi», laddove Bufalino le piega a «mero espediente retorico, somma di parole rivolte a interlocutori astratti o metaforici, con sovrabbondanza di situazioni e lessico di marca metafisica»), il lessico («inimitabile e consonante marchio di fabbrica» ed «effervescenza onomastica» consegnata all’uso massiccio di toponimi, nomi propri, neologismi d’autore, antonomasie, e anzitutto all’«aggettivo di derivazione nominale accoppiato, e quasi sempre preposto, al sostantivo»).

La fecondità di questa laboriosa analisi mi spinge a ricordare un altro ben fruttuoso lavoro: il recentissimo dittico, anzi il micidiale uno-due – costituito da «Un’ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze»: tessere cinque-secentesche in “Praga magica” di Angelo Maria Ripellino («Giornale di Storia della lingua italiana», anno II, fascicolo 2, dicembre 2023) e «Io che amo limar le parole come pietre dure». Note sul lessico di “Praga magica” («Diacritica», fascicolo 50, 31 dicembre 2023, vol. II) – con cui il giovane ricercatore Davide Di Falco vince a mani basse la sfida che investiva elementi primari dell’opera ripelliniana, vale a dire la fittissima rete di citazioni e allusioni che la sostanzia e la lingua che vi è impiegata.

s-l1600Il primo studio rubrica i prestiti riconducibili a un gruppo di autori del Cinquecento e del Seicento, manieristi e barocchi (in ordine di frequenza: Francesco Fulvio Frugoni, Pietro Aretino, Daniello Bartoli, Giambattista Basile, Giordano Bruno, Paolo Segneri, Tommaso Campanella, Giambattista Marino, Secondo Lancellotti, Giulio Cesare Croce, Tommaso Garzoni, Niccolò Barbieri detto il Beltrame, Gregorio Comanini, Emanuele Tesauro, Sforza Pallavicino), rintracciando con ragionevole certezza le principali fonti maneggiate da Ripellino (dalle collezioni ricciardiane Trattatisti e narratori del Seicento e Opere di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella, all’antologia Marino e i marinisti curata da Giuseppe Guido Fer­rero, a singole opere di Pietro Aretino e Paolo Segneri), e illustrandone le tipologie: i prelievi letterali, e quelli che accusano variazioni e interventi d’autore (grafie etimologizzanti, variazioni fonomorfologiche, inversioni, compensazioni, condensazioni, scomposizioni, caricamenti espressivistici, intarsi di tessere allotrie in sequenze che privilegiano diversi referenti). Regesto che fa vedere come le manovre dello scrittore siano legate al suo anticlassicismo («Ripellino opta per determinati antenati stilisticamente prossimi e ne seleziona tratti iperconnotati; li assume poi nella propria scrittura, che per parte sua non è scevra di quei tratti.

Il risultato è che il lettore, quando pure abbia preso coscienza delle proporzioni del gioco intertestuale, è a tratti disorientato, non riu­scendo sempre a stabilire se sia Ripellino ad essersi adeguato alla congerie delle sue fonti o se siano queste ad esserglisi acclimate» [11]), consentendo anche di «individuare alcuni di questi macro-tratti linguistico-stilistici: di Frugoni sono riprodotti l’erudizione farraginosa e bizzarra e l’incrocio dei generi; da Bruno sono attinte a iosa le filatesse accumulative (con punte di elenchi di dodici elementi); dalle opere teatrali di Aretino provengono le iperderivazioni, segno della sua “ghiottone­ria lessicale-espressiva”; si emula la sgargiante tavolozza verbale di Bartoli; echeg­giano Segneri alcune accensioni patetico-sublimi tipiche dell’oratoria sacra barocca, che convivono con gli accenti faceti e popolareschi desunti da Croce; proviene da Basile una concezione metamorfica del reale ma soprattutto uno spiccato gusto per la parola chiantuta». I copiosi ritagli bastano, credo, ad onorare la qualità di un’indagine fondata sul saldo possesso dei migliori strumenti della critica stilistica e della filologia e su un gusto letterario, un fiuto che assiste la formulazione di esatte diagnosi (quella, ad esempio, che considera l’arcimboldismo «solo una delle componenti stilistico-strutturali di Praga magica: accanto alla tecnica del collage, con­terà la tecnica del montaggio cinematografico»; o quella che invita a correggere «l’idea corrente di un Ripellino onomaturgo: più urgente dell’invenzione è in lui lo sfruttamento delle ri­serve diacroniche dell’italiano»).

Altrettanto cospicui appaiono i risultati del parallelo sondaggio del lessico di Praga magica, che, per quanto limitato all’area italoromanza, con esclusione dei forestierismi, vuol suggerire «alcuni percorsi esemplificativi: ideali avvii per un glossario ripelliniano» (che meriterebbe più di una medaglia). Volto a «introdurre un principio di ordine nella selva del vocabolario ripelliniano, chiarendo lo statuto del singolo lessema», e pronto a «snidare strategie allusive anche dissimulate», lo spoglio seleziona cultismi, arcaismi, cultismi-arcaismi, «lessemi non attestati dai dizionari perché poco comuni o perché iniziative d’autore», «macchie dialettali» (napoletanismi, romaneschismi, sicilianismi, toscanismi, venetismi), alterati (con sette tipologie di suffissi derivativi), «conglomerati nominali con lineetta». Uno schedario che permette di misurare «l’insoddisfazione per la parola di grado zero, che viene surdeterminata per un fondamentale piacere dell’espressività», il ruolo del preziosismo lessicale (che «mira a imitare e insieme a stilizzare il proprio oggetto»), il ricorso strategico agli «allomorfi meno frequenti», «l’insofferenza di Ripellino per una cultura esclusivamente letteraria», la «concezione magica di Ripellino, cui è complementare l’attitudine a leggere Praga con le lenti dell’erudizione» (donde «soluzioni antonomastiche e forme passate dal nome proprio al nome comune»), e di inoltrarsi con sicurezza nei dettagli: i napoletanismi che «alla funzione vivacizzante, assommano quella di segnali di allusività»; la scelta, in controtendenza rispetto a molti conterranei, di non attingere, se non sporadicamente, al «serbatoio del siciliano»; gli alterati che (senza fare di Ripellino uno scrittore «effuso e lutulento») «cooperano alla saturazione cromatica della pagina, a quell’effetto di tutto-pieno che esorcizza un horror vacui di ascendenza barocca»; i conglomerati nominali con lineetta (che «servono a rendere la compresenza e l’interscambiabilità delle componenti della realtà; e precisamente della realtà di Praga, dove è di regola la metamorfosi e dove paiono sospesi i principi di identità e non-contraddizione», presentandosi insieme come «similitudini condensate»); la «carica preziosistica e insieme ironico-straniante dei tecnicismi»; i composti che «ricordano lo stile di Pietro Aretino».

locandina-1-scaledDopo queste notevoli ‘nuove’, rimane infine da segnalare la ricca messe di contributi ospitati nel meritorio numero monografico di «Diacritica» di cui sopra (curato da Maria Panetta e Giuseppe Traina): una lista che, a cent’anni dalla nascita e a quarantacinque dalla scomparsa, grida il «vivere pòstumo» [12] di Ripellino, annulla il presagio di essere «allegramente dimenticato» [13]. Il primo dei due volumi (in corso d’opera) racchiude gli Atti dei convegni ripelliniani tenuti alla «Sapienza» il 12 giugno e il 23 ottobre 2023, prevedendo finora i saggi di Federica Barboni (Sul Baudelaire di Ripellino: primi appunti dai saggi alla poesia), Rita Giuliani (Angelo Maria Ripellino: il “Professore”), Sylvie Richterová (Magia versus accademia: Angelo Maria Ripellino), Claudia Scandura (Ripellino, Zabolockij e la poesia burlesca russa), Evgenij M. Solonovič (Angelo Maria Ripellino poeta e traduttore), Maria Antonietta Allegrini e Alberta Rossi (Brevi note sulla poesia n. 38 di Notizie dal diluvio), Corrado Bologna («Non ho mai detto nulla, ma ciascuno / comprende che adoro la vita»), Umberto Brunetti (La poesia come patchwork: dal riferimento esplicito alla citazione nascosta nei versi dello Splendido violino verde), Alessandro Fo (Cent’anni fa oggi: Ela (e famiglia) nei versi di Angelo Maria Ripellino), Rita Giuliani (L’archivio Ripellino), Renata Gravina (Le apocalissi infrastoriche di Belyj e Rozanov nella prospettiva di A. M. Ripellino), Caterina Graziadei (Voskovec e Werich vanno in scena a via Barnaba Oriani), Federico Lenzi (Fillotàssi di giorni sempre uguali: il racconto della malattia in A. M. Ripellino e G. Bufalino), Gabriele Mazzitelli («Una rapinosa infilata di porte»: Angelo Maria Ripellino ed Ettore Lo Gatto), Giuseppe Traina (Fiabesco e lessico familiare nelle Storie del bosco boemo), Roberto Valle (Un poema d’ombre. Ripellino e l’estetica della storia della Russia). Il secondo presenta ulteriori apporti di Ida De Michelis (Angelo Maria Ripellino: intervista a Cesare G. De Michelis), Nicola Ferrari («die Kunst, alles aus einem zu ergeugen». Su un titolo (postumo) di Angelo Maria Ripellino), Massimo Gatta («Scrivo la sera, a tempo perso». Rêverie e incantamenti su Angelo Maria Ripellino, a cent’anni dalla nascita), Martina Morabito (Angelo Maria Ripellino e Aleksandr Blok), Lorenzo Pompeo (Ripellino traduttore e poeta: convergenze, osmosi e influenze), Salvatore Presti (ANGELO MARIA RIPELLINO POETA. Appunti), Giovanni Salvagnini Zanazzo (Trattare coi fantasmi. Modi della rielaborazione nel saggismo di Ripellino), Chiara Benetollo (Ripellino e la narrativa russa all’Einaudi), Riccardo Deiana (Angelo Maria Ripellino e l’Einaudi: un poeta sull’orlo del rifiuto).

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] La difficoltà dell’impresa ha il suo emblema nell’affettuoso grazie rivolto, in Sigle, avvertenze e ringraziamenti, al «signore gentilissimo, di cui purtroppo ho dimenticato il nome, che mi ha regalato l’introvabile Poesie di Chlebnikov per il tramite della “Caccia al libro”, grande invenzione della trasmissione Fahrenheit di RadioTre». Appello che mi viene da collegare a un memorabile invito pizzutiano, risarcimento di un fuggevole incontro di sguardi nel traffico cittadino: «Se vi riconoscete, occhi inglesi in un viso lungo (Roma, tre forse quattro anni addietro), cedano qui almeno le impossibilità, venga un segno, me ne rammento, mi chiamo, my name is Maud, is Daphne, is Ruth» (vd. Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, Milano, Il Saggiatore, 1973: 289).
[2] Vd. Angelo Maria Ripellino, Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di Antonio Pane, introduzione di Alessandro Fo, Torino, Einaudi, 2018: 118.
[3] Da sommare alle tracce riscontrabili nella produzione giovanile, laddove si riecheggiano le celebri distinzioni arte/filosofia e arte/oratoria, o si contrappone «il senso dell’ampiezza e la tonalità della grande arte» al «rumore» e all’«irruenza» di alcuni scrittori dell’avanguardia ucraina. Vd. Antonio Pane, Il ‘primo tempo’ di Angelo Maria Ripellino, «Letteratura italiana contemporanea», a. XI, n. 30, maggio-agosto 1990: 328.
[4] La scoperta di questa voce sinora ignota alle bibliografie ripelliniane (e la sua implicazione con le poesie n. 19 e 48 di Notizie dal diluvio) è ripercorsa nel mio saggio Eva Svobodová e il «pittore barbuto», «Diacritica», fascicolo 50 (vol. I), 31 dicembre 2023.
[5] Ròzanov: ricognizione nel suo sottosuolo, postfazione a Vasilij Rozanov, Foglie cadute. Solitaria. Prima cesta. Una cosa mortale, a cura di Alberto Pescetto, Milano, Adelphi, 1976: 409-489.
[6] Apparso in «Rossija/Russia», n. 3, Torino, Einaudi, 1977: 15-28.
[7] Il teatro del giovane Blok (note di regia), prefazione a Alexàndr Blok, Drammi lirici, traduzione di Sergio Leone e Sergio Pescatori, Torino, Einaudi, 1977: V-XVIII.
[8] Introduzione a Michail Bulgakov, Cuore di cane, traduzione di Giovanni Crino, Milano, Rizzoli, 1975: 9-15.
[9] Introduzione a Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, Milano, Rizzoli, 1976: 5-8.
[10] Angelo Maria Ripellino, L’arte della fuga, a cura di Rita Giuliani, Napoli, Guida («Il fiore azzurro»), 1987.
[11] Questa consuetudine è già attiva nelle opere giovanili di Ripellino. Ad esempio, il saggio Il teatro di marionette nel romanticismo ceco (1949) incorpora, senza citarlo, un passo delle Considerazioni sopra le Rime del Petrarca di Alessandro Tassoni.
[12] Evocato nel Congedo della Fortezza d’Alvernia.
[13] Vd. la poesia incipitaria di Lo splendido violino verde.

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).

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