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Fra Toscana e Maremma. Uno spaccato di vita rurale nelle memorie di Callisto Gherardini

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di Rossano Pazzagli 

Castelnuovo Val di Cecina è già Maremma, una quasi Maremma. Alle spalle c’è la Valdelsa, che nell’800 presentava caratteri già toscani: la mezzadria, l’insediamento sparso dei poderi, l’agricoltura promiscua, una campagna urbanizzata, una pluriattività artigianale e protoindustriale, una struttura socio-territoriale sostanzialmente stabile. Di fronte, si apriva la Valle del Cecina, uno dei fiumi che a pettine disegnavano la Maremma partendo dal Fine a nord e poi, dopo il Cecina, la Cornia, la Pecora, l’Ombrone, l’Albegna e giù giù fino al Chiarone e al Fiora, cioè fino al Lazio. La Maremma era un «un vasto tutto», come ebbe a scrivere il volterrano Carlo Martelli verso la metà dell’Ottocento: una grande area composta da «molta superficie di terra, e lunga spiaggia di mare», dalla costa all’interno, dove si potevano distinguere diverse maremme: la Maremma pisana, volterrana, massetana, la zona di Piombino e poi tutta quella che storicamente era stata la Provincia inferiore senese, ossia la Maremma grossetana.

Era un mondo in parte agricolo, ma soprattutto pastorale e forestale con un insediamento rado, quasi una terra senza uomini a tratti. Emilio Sereni includeva la Maremma in quelle aree del Paese caratterizzate da vaste plaghe ad economia latifondistica, con connotati di seminaturalità, dove si succedevano aree palustri, boschi, pascoli, corsi d’acqua e un’organizzazione agraria che era rimasta a lungo precaria e estensiva.

Callisto Gherardini era un ragazzo contadino, costretto a lavorare nei boschi per sbarcare il lunario suo e della sua numerosa famiglia: genitori, quattro fratelli e una sorella proprietari di un piccolo podere nella valle del Pavone, nel territorio di Castelnuovo, appunto. Una piccola vigna, pochi frutti, qualche campo strappato al bosco per coltivare i cereali, un asino per i lavori e gli spostamenti. Poca terra che, seppure in proprietà, non bastava a soddisfare le esigenze alimentari della famiglia né i pur minimi fabbisogni quotidiani, e tanto meno a far fronte agli imprevisti, sempre in agguato in situazioni di precarietà. Una condizione endemica di miseria, insomma, definita dallo stesso Callisto come «la peggio malattia che esista», alleviata soltanto da qualche risorsa spontanea della natura attraverso la caccia nella macchia o la pesca nei fiumi e nei torrenti.

Nato nel 1877 e morto in età avanzata nel 1969, Callisto scrisse a mano le memorie dei tempi giovanili intorno al 1960, ormai vecchio e malato, ma ancora in grado di mettere a frutto quella sua poca istruzione e soprattutto la sua curiosità e sensibilità culturale, in un mondo che era radicalmente cambiato rispetto ai tempi di cui si mise a ricordare: un periodo che va dal 1881 al 1913. È dunque il racconto della sua adolescenza e della sua giovinezza, sullo sfondo dell’Italia giolittiana che stava conoscendo fenomeni contraddittori: un moto di sviluppo e la prima onda dell’industrializzazione, ma nello stesso tempo l’aumento degli squilibri regionali, la crisi agraria, la povertà e l’emigrazione; una popolazione in aumento, ma costretta a muoversi su corte o lunghe, talvolta lunghissime distanze.

61sjscao4sl-_ac_uf10001000_ql80_Quelle memorie dei primi 36 anni di vita di Callisto Gherardini, manoscritte in buona calligrafia, in un linguaggio lineare ma ricco, talvolta perfino lirico rivelando la passione dell’autore per la poesia, sono rimaste a lungo chiuse in un cassetto, finché una pronipote, Roberta Bardi, insieme a un editore indipendente, le ha trasformate in un libro di rilevante valore documentale e di rara bellezza descrittiva ed evocativa: Il ragazzo del bosco. Le memorie di Callisto Gherardini 1881-1913, a cura di Roberta Bardi (Innocenti Editore, Grosseto, 2023). È il racconto, distaccato e appassionato al tempo stesso, di una vicenda personale e familiare che può essere considerata rappresentativa di un’Italia rurale alle prese con le prime spinte della modernizzazione contemporanea.

Il libro offre diversi spunti di lettura, che spaziano dall’antropologia alla poesia. Letto con l’occhio dello storico, si possono individuare alcune linee tematiche principali, attorno alle quali si snoda la vicenda del giovane Callisto. Si tratta di temi che si sganciano dal passato a cui si riferiscono nella narrazione, per interrogarci sul tempo nostro, con una potenza evocativa e didattica che potrà essere adeguatamente sfruttata, ad esempio, nell’uso che di questo libro possono fare le scuole del territorio. Il primo tema è la natura, quella descritta con competenza e dovizia di particolari come sfondo dei primi ricordi dell’autore (gli uccelli, la vegetazione, i corsi d’acqua) e quella nostra che non siamo più in grado di decifrare; emerge il rapporto intimo tra uomo e natura, ora venuto meno e in molti casi del tutto spezzato: chi conosce il cuculo come lo conosceva Callisto? Chi è più in grado di distinguerlo da un merlo o da una ghiandaia?

Castelnuovo val di Cecina

Castelnuovo Val di Cecina

Il secondo tema è la misera condizione contadina, una precarietà vissuta come normalità che ci rimanda alla precarietà dei giovani d’oggi, non più contadini né boscaioli, ma che si trovano costretti a riprodurre in altre forme e su altre distanze l’incertezza del futuro, spesso con sentimenti di sfiducia e di ineluttabilità anche più forti di allora. Poi, collegato alla miseria, c’è il tema dell’alimentazione: «si mangiava sempre pulenda» ricorda Callisto; polenta e a volte patate, cioè prodotti di minor valore, che rendevano di più e che con poco placavano l’appetito. Solo una povera lepre, fortunosamente cacciata in una fredda giornata d’inverno, poteva variare un poco la semplice dieta contadina.

Centrale è, nella narrazione di Callisto, il tema del bosco, una componente ambientale fondamentale che nei sistemi economici di antico regime fungeva da fonte economica e valvola di regolazione sociale. “Andare al bosco” è stato per secoli l’escamotage di tanti individui per sfuggire alla miseria e alla precarietà contadina, un’arte di arrangiarsi praticata quasi naturalmente. Il bosco allora era uno spazio popolato e vissuto, insidiato dai disboscamenti e dai dissodamenti nell’eterna lotta per la conquista di nuovi spazi da coltivare. Oggi il bosco è molto aumentato in termini di superficie – triplicata in Italia nell’ultimo secolo – e per la prima volta dopo tanto tempo, la sua estensione ha superato quella dei coltivi.

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Castelnuovo Val di Cecina, carbonaio (ph. Silvano Pistolesi)

Il bosco dell’800 e del primo ‘900 era un deposito di risorse e di lavoro. Accoglieva lavoratori migranti provenienti da ogni dove, soprattutto dalle montagne: taglialegna, carbonai, pastori, vetturini, garzoni di vario genere che lavoravano a cottimo per cercare fortuna e poter tornare a casa con qualche denaro. Callisto e i suoi fratelli andavano a raccogliere ciocchi di scopa (erica) per conto di mercanti che le vendevano per farne sbozzi di pipe, ma anche per levare la scorza di cerro, che come le gallozzole delle querce era ricca di tannino, sostanza indispensabile nell’industria della concia delle pelli prima dell’avvento delle sostanze chimiche. Ma poi c’erano il sughero, le corbezzole, le ghiande, la liquirizia, la manna e tante altre sostanze che raccolte spontaneamente alimentavano quell’economia seminaturale di cui parlava Sereni.

Di boschi era piena la Maremma, la grande Maremma che si distendeva «vuota e senza poderi» come la vide il granduca di Toscana Leopoldo II visitandola per la prima volta nel primo ‘800. Sarà l’area descritta più tardi da Carlo Cassola ne Il taglio del bosco, cantata dai poeti estemporanei, immortalata da fotografi come Corrado Banchi o Silvano Pistolesi (delle cui immagini dei carbonai è stata fatta recentemente una mostra presso il Museo della Civiltà contadina di Montecastelli, proprio nel comune di Castelnuovo Val di Cecina). Al centro della vita nel bosco c’era il capanno, una dimora transitoria per tanti lavoratori migranti che passavano qui interi mesi in una dura condizione: sette mesi senza spogliarsi mai, sotto queste capanne fatti di terre e sassi che sembravano proprio il ricovero dei tassi – come recita la popolare Ballata del carbonaro –, dormendo per lunghi periodi sotto quelle zolle, con la testa in terra come le cipolle.

Per cercare fortuna, ripeteva la stessa canzone, si andrebbe anche nel grigio luna. Qui la luna era la Maremma: «correre in Maremma in cerca di lavoro e di pane» scrive Callisto. In autunno-inverno c’era il taglio del bosco, poi il carbone e le altre attività che abbiamo visto. Con l’approssimarsi dell’estate c’era la mietitura del grano nelle coltivazioni estensive dei campi maremmani, un’operazione dura e faticosa, da compiersi in fretta per sfuggire all’incombente diffondersi della malaria, specialmente nelle terre più basse della pianura. Squadre di mietitori, delle quali faceva parte anche Callisto, dopo giorni di cammino si ritrovavano a Massa Marittima per essere assunti alla voce dai padroni o dai caporali di turno: un «mercato degli uomini» lo definisce lo stesso Callisto, con tanto rischio e qualche sudato guadagno da riportare alle famiglie.

callisto-2Molti altri argomenti sono trattati nelle memorie di Callisto, dai giochi, ai passatempi, ai contrasti in ottava rima, alle risse, alle relazioni tra i sessi, sia pure in una narrazione essenzialmente al maschile, fino al rapporto tra le generazioni che sembra emergere nella sostanziale accettazione della propria condizione sociale da parte del padre, deciso a proseguire sulla strenua difesa del piccolo podere, e nelle ansie di cambiamento del giovane Callisto, che vorrebbe una situazione familiare e lavorativa più stabile: «meglio essere piccolissimi padroni che grandi garzoni» gli avrebbe detto una volta il babbo.

Callisto riuscirà in qualche modo, più tardi, a intraprendere un suo percorso che lo porterà in modo più stabile lontano da Castelnuovo e dal poderino avito: andrà a lavorare come operaio nelle acciaierie di Piombino, poi emigrerà negli Stati Uniti dove farà il minatore per sei anni, infine tornerà a lavorare nelle fabbriche piombinesi, che ormai erano il segno di un’altra faccia dell’Italia: quella che si avviava a diventare industriale. Ma questa parte esula dal memoriale di Callisto. Pare che ne avesse scritto un altro, una specie di seguito, relativo soprattutto all’esperienza americana, ma per ora le sue ricerche hanno dato esito negativo. Resta dunque Il ragazzo del bosco, questo bel racconto del mondo contadino, del mondo dei boschi, della Maremma che cominciava subito dopo Castelnuovo, con il Volterrano, la Val di Cecina, le Colline Metallifere fino a Castiglione della Pescaia e al Grossetano.

Museo contadino

Montecastello Pisano, Museo della civiltà  contadina

Sono questi luoghi – dal Frassine a Massa Marittima, da Monteverdi a Caldana, da Gerfalco a Vetulonia e a molte altre località – lo sfondo della vita e dei lavori di Callisto. Luoghi fisici e reali che restano ben impressi nell’immaginario. Infine, leggendo questo libro, si resta colpiti proprio dalla straordinaria conoscenza del territorio, dalla fitta toponomastica, da quell’intimo rapporto coi luoghi che solo chi li percorreva a piedi, o al massimo con un barroccio o un asino, poteva possedere. Questo è, in fondo, uno dei messaggi più rilevanti dell’opera: l’invito a guardarci intorno, a vedere, capire, nominare e riconoscere i luoghi, come quando essi servivano alla vita reale, come quando erano soggetti attivi della condizione umana e non soltanto uno spazio da attraversare velocemente o un pavimento su cui appoggiare distrattamente le nostre suppellettili. È un richiamo implicito alla necessità di un recupero della conoscenza perduta del territorio e della natura, una conoscenza che si trasformi in coscienza di luogo per contrastare lo spaesamento dei nostri giorni. Perché i luoghi sono come le persone: bisogna volergli bene, ma per farlo bisogna conoscerli, rispettarli, curarli. E invece noi li abbiamo progressivamente trascurati, abbandonati, marginalizzati, feriti e qualche volta perfino derisi.

callisto-3Al tempo del giovane Callisto, il vasto territorio comunale di Castelnuovo con i suoi diversi paesi superava i 5.000 abitanti. Su questa dimensione demografica restò sostanzialmente per tutta la prima metà del ‘900. Al censimento del 1951 gli abitanti erano 5.023, mentre vent’anni dopo, nel 1971, erano scesi a 3.300, per poi scendere ancora fino ai 2.092 del 2021. È questa la traiettoria dell’Italia contadina, che soprattutto negli anni ’50 e ’60 è stata vittima dell’esodo rurale e di un modello di sviluppo che ha privilegiato le città e le coste, trascurando la gran parte del territorio: un boom e uno sboom avvenuti contemporaneamente, come due facce della stessa medaglia, e che ha finito per accrescere gli squilibri territoriali e le disuguaglianze sociali.

Ritengo che questo modo di proporre e di leggere memorie come quelle di Callisto Gherardini sia quello più giusto per non incorrere nel rischio della nostalgia e del rimpianto, per non cadere nella retorica celebrazione del bel tempo andato (che poi tanto bello non era), ma per farne un’occasione di conoscenza, di comparazione e di riflessione sul presente. Così il libro ben curato da Roberta Bardi diventa anche una fonte, in particolare una fonte per la storia del mondo rurale e forestale di un secolo fa, facendo il paio, in questo senso, non solo con altri libri di storia locale, ma soprattutto con il Museo della Civiltà Contadina meritoriamente attivo a Montecastelli Pisano, uno dei paesi del comune di Castelnuovo. I libri come i musei sono strumenti che documentano il passato, ma che ci proiettano nel futuro, facendocelo forse apparire meno cupo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 

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Rossano Pazzagli, insegna Storia moderna e Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, è vicepresidente della Società dei Territorialisti e direttore della Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni”. Fa parte della direzione di varie riviste, tra cui “Ricerche storiche” e “Glocale”. È autore di numerosi articoli e libri sulla storia del mondo rurale e sulla storia del turismo; con Gabriella Bonini ha recentemente pubblicato il volume Italia contadina. Dall’esodo rurale al ritorno alla campagna. È Vicepresidente della Società dei territorialisti.

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