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Siciliani resistenti per la stessa libertà

Scheda segnaletica di Carmelo Salanitro

Scheda segnaletica di Carmelo Salanitro

di Grazia Messina

Le vicende militari e politiche che riguardarono la Sicilia, dal luglio 1943 alla fine della Seconda Guerra mondiale, si arricchiscono di importanti dettagli e conducono a contorni più precisi nella comprensione degli eventi se lo studio del contesto orienta la sua attenzione anche alla gente dell’isola, giacché nessuna ricerca volta alla comprensione storica della società umana può trascurare le «storie d’ognuno e d’ogni giorno», come suggerisce Fernand Braudel [1].

Ci viene oggi in aiuto nel racconto di quel tempo complesso e doloroso un patrimonio di testimonianze, lettere, documenti e pagine di diario che negli anni ha visto la luce, illuminando nuove prospettive di osservazione. Nonostante l’ordine degli accadimenti abbia inizialmente coinvolto la Sicilia, per molto tempo una lettura della Resistenza italiana ha considerato l’Isola area periferica, per gran parte estranea alla lotta di liberazione. I tempi e i luoghi degli eventi, che dal settembre del 1943 fino alla tarda primavera del 1945 segnano e accompagnano l’epilogo dell’occupazione nazifascista del nostro Paese, hanno effettivamente orientato a lungo gli storici verso questa interpretazione. Eppure proprio le microstorie che continuano ad essere consegnate e divulgate negli anni più recenti invitano ad un’analisi più attenta, e ci mostrano i siciliani costretti a decidere da che parte stare. Dentro e fuori le loro case, anche loro come tutti gli altri italiani.

Non si tratta di questione nuova. A conclusione di un vivace dibattito che negli anni Novanta del secolo scorso aveva messo in dubbio il carattere popolare della Resistenza, lo storico Nicola Tranfaglia, replicando a Renzo De Felice che aveva parlato di ampia «zona grigia» italiana, compresa tra partigiani e repubblichini e restia a schierarsi per un fronte o per l’altro [2], chiese che si tenesse conto dei tanti che non erano stati inclusi nei calcoli di De Felice: bambini, donne, anziani, la gente del sud ormai separata dopo l’8 settembre dal resto del Paese, i civili e i militari che avevano operato contro nazisti e fascisti, i prigionieri deportati in Germania come lavoratori, tutti i soggetti che proprio in quegli anni riemergevano dal silenzio attraverso memorie, diari, biografie [3].

il-costo-della-libertaLa storia di donne e uomini nata dalla ricca documentazione che negli anni continua ad includere nuovi protagonisti, dopo avere lasciato alle spalle il carattere del ricordo personale per conquistare quello della memoria storica, nel tempo è divenuta importante per ripristinare ruoli e valori della lotta di liberazione nazionale anche al sud, anche in Sicilia. Il racconto di drammi personali, tenuti a lungo sospesi e nascosti dal pudore, dall’incertezza di non essere appropriati né adeguati alla scrittura della grande pagina di storia nazionale, ha dato gradualmente vita ad una narrazione corale, umana e civile, che si aggiunge alla infinita catena di scontri, rastrellamenti e stragi che nella penisola si registrarono nei mesi terribili dell’occupazione nazifascista.

È opportuno cercare di comprendere, alla luce dei nuovi dati oggi in possesso da tutti gli studiosi, cosa emerge dalle memorie dei tanti – civili, partigiani, militari, prigionieri – che hanno sentito il bisogno di raccontare la loro storia perché, come ha affermato Jacques Le Goff, «la storia è ricerca, dunque scelta. Suo oggetto è l’uomo o meglio gli uomini e più precisamente gli uomini nel tempo» [4]. Ascoltiamo, pertanto, le voci degli uomini di quel tempo.

Gli anziani ancora in vita nella costa che da Siracusa sale fino a Messina ricordano ai nipoti i fatti dei lunghi mesi successivi allo sbarco [5]. Nell’isola la popolazione civile si era in rari casi opposta all’avanzata alleata, aveva ceduto molte abitazioni private ai presidi militari, di terra e di mare, che si erano acquartierati nelle zone costiere dopo lo sbarco alleato. Per tutta l’estate gli sfollati avevano cercato protezione in zone meno esposte ai bombardamenti, allontanandosi dalla costa ionica e rifugiandosi persino in tunnel e gallerie ferroviarie [6].  Ricorda un testimone di quei giorni, parlando della sua casa: «La casa di via Spezzi in quei giorni era piena zeppa di gente: sfollati di Giarre e dei dintorni, in cerca di riparo dai bombardamenti aerei e poi, dalle cannonate degli inglesi» [7].

Sin da piccola ascoltavo i ricordi di mio padre, che con la volontà di non cedere all’oblio ci raccontava l’allontanamento della sua famiglia dalla propria abitazione a Torre Archirafi, nel tratto costiero che collega Catania con Giardini Naxos, perché sequestrata ad uso infermeria dall’esercito inglese. I suoi familiari erano stati costretti di conseguenza a cercare rifugio ospitale da parenti nelle campagne retrostanti. Dal suo racconto trapelava la confusione che si era generata tra la gente del quartiere, prima costretta alla convivenza con soldati tedeschi ancora alleati con l’esercito italiano e, nel giro di pochi giorni, circondata da soldati inglesi. In entrambi i casi solo una esigua fascia della popolazione del luogo, per le comprensibili difficoltà linguistiche, era riuscita a comunicare con lo straniero e non tutti avevano ben compreso gli eventi in corso [8]. Tanti, va detto, erano stati antifascisti sin dall’inizio: mio nonno, ad esempio, non aveva preso la tessera fascista e per questo il suo negozio di macchine per cucire a Riposto era stato chiuso, con revoca della licenza di commercio. E non era rimasto solo nella scelta, come nelle conseguenti penalità: in paese si conoscevano – e si subivano – gli schieramenti di pensiero. Ricorda ancora Mariano Vasta:

«Era già avvenuto lo sbarco delle truppe alleate e si combatteva al ponte di Primosole: mio padre aspettava di incontrarli. Egli conosceva perfettamente le lingue inglese e americana, aveva ascoltato con continuità il colonnello Steevens da Radio Londra, non aveva mai accettato la tessera del fascio, anzi aveva dato le dimissioni dal Ministero della Guerra nel 1923 dopo l’arrivo dei fascisti al governo» [9].

Nonostante le diverse posizioni, è certo che dopo lo sbarco alleato e con la prospettiva di una guerra agli sgoccioli l’atteggiamento prevalente fu quello di vincere le paure che la presenza di due differenti eserciti stranieri in pochi anni poteva aver generato. L’avvio della liberazione, nonostante il comportamento degli angloamericani non sia stato sempre rispettoso e benevolo con i civili, anzi specie nel primo periodo fu non di rado accompagnato da sospetti, diffidenza e anche una certa ostilità [10], venne vissuto così da molta gente dell’isola con la speranza di un futuro di pace. Non bisogna dimenticare che il quadro demografico siciliano era all’epoca dei fatti composto principalmente da donne, bambini e ragazzi non in età di leva, anziani [11].

C’era anche una Sicilia fuori dall’isola. Gli uomini adulti erano infatti al fronte, in servizio nelle caserme della penisola e in quelle dislocate fino all’Egeo e alla Francia meridionale. Impegnati nelle azioni belliche a fianco dei tedeschi dal 1940, i soldati ignoravano le manovre che avrebbero avviato il cambio di posizione dell’esercito italiano, note probabilmente ai vertici ma non alle truppe, per timore di disordini e fughe. Erano altresì all’oscuro anche del piano Achse che, steso in segreto e in tempi rapidi dall’armata tedesca, prevedeva la cattura dei militari italiani dopo la resa, con lo scopo di spegnere una prevedibile reazione armata ma soprattutto finalizzato a recuperare il numero più alto di uomini da destinare alla manodopera coatta nell’industria tedesca.

Questo per rapidi cenni il contesto in cui venne dato l’otto settembre l’annuncio dell’armistizio. Nel messaggio di Badoglio non era però presente alcuna indicazione su comportamenti e misure militari da adottare nei momenti immediatamente successivi. Non può sorprendere dunque se, nell’incertezza generale a seguito dell’improvviso mutamento degli eventi, con re e Badoglio in fuga e caserme senza comandi, l’esercito italiano sia stato trascinato nel giro di poche ore in una disperata odissea collettiva [12].

Dei due milioni di soldati all’epoca in armi, una parte tentò la fuga per un rientro a casa, altri, specie se in servizio nelle caserme del nord Italia, si unirono alla lotta partigiana, più della metà venne infine catturata. Fra questi alcuni giurarono fedeltà a Mussolini e raggiunsero in seguito Salò, altri accettarono accordi con i tedeschi, altri ancora – la stima parla di 650 mila unità – si opposero, disarmati ma fermi, coerenti, e furono per questo internati nei lager tedeschi, classificati come IMI – Internati Militari Italiani. Tale denominazione fu accolta da Mussolini, ancora alleato di Hitler, perché da un lato non voleva si parlasse di prigionieri italiani e dall’altro confidava in un loro successivo giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana. Quella sigla allontanava inoltre dai campi l’intervento della Croce Rossa e di qualunque altra associazione umanitaria che la convenzione di Ginevra dal 1929 aveva previsto a tutela dei prigionieri di guerra [13]. 

Giarre, 2008, Nunzio Di Francesco incontra gli studenti. Sul tavolo il suo fazzoletto con il triangolo rosso riservato ai prigionieri politici nei lager

Giarre, 2008, Nunzio Di Francesco incontra gli studenti. Sul tavolo il suo fazzoletto con il triangolo rosso riservato ai prigionieri politici nei lager

Alcune testimonianze per una memoria civile

Tra quegli uomini – lo leggiamo oggi dalle loro memorie – non mancavano i catanesi [14]. Da Linguaglossa, ai piedi dell’Etna, era partito per il fronte Nunzio Di Francesco e si trovava in servizio nella caserma di Venaria Reale all’annuncio dell’armistizio. Seguendo le idee socialiste e cattoliche che in Sicilia univano i modelli di Matteotti e Sturzo, nel caos successivo all’annuncio di Badoglio, così efficacemente ricostruito nel 1960 da Luigi Comencini nel film “Tutti a casa”, decise di raggiungere i partigiani della Brigata Garibaldi già organizzati in bande nelle montagne piemontesi. L’anno successivo, catturato dai tedeschi, fu deportato a Mauthausen come prigioniero politico, col marchio di un triangolo rosso, codice K.Z.115503, riportato su un fazzoletto da tenere sempre appeso al collo.

«Ogni turno di lavoro durava 12 ore senza mangiare, né bere, ma con abbondanza di frustate. Ad ogni turno, sia di notte che di giorno, un quinto dei deportati rimanevano a terra stecchiti per precedenti e recenti maltrattamenti, affamati, assetati e svestiti, obbligati al lavoro coatto […]» [15].

Nel campo Di Francesco incontrò Carmelo Salanitro [16], un professore di latino e greco di Adrano, denunciato dal preside del Liceo classico Cutelli di Catania, in cui insegnava, per propaganda antifascista. Era l’unico docente della scuola senza tessera fascista, cattolico militante nel partito popolare di don Luigi Sturzo: venne consegnato dalle autorità fasciste ai tedeschi per la deportazione prima a Dachau e poi a Mauthausen. Così ce lo presenta Di Francesco nelle sue memorie:

«Il professore Carmelo Salanitro, pacifico intellettuale cattolico, era disarmato, da insegnante educava soltanto i suoi studenti per la pace, per la libertà e contro le guerre […], aveva sopportato tre anni di duro carcere fascista e circa venti mesi di assidua violenza, di tortura con i lavori forzati, con le pesanti pietre dietro le spalle a salire dalla cava […]. Salanitro voleva sopravvivere ci riuscì fino alla vigilia della resa finale dei nazisti in Italia. Il 24 aprile del 1945 però lo inviarono alla camera a gas. Fu eliminato così un testimone molto scomodo [17].
Messaggio del 17 giugno 1945 di Gerardo Sangiorgio alla famiglia

Messaggio del 17 giugno 1945 di Gerardo Sangiorgio alla famiglia

Anche Gerardo Sangiorgio, originario di Biancavilla, conobbe la disumanità dei lager. Al momento dell’armistizio si trovava per la leva presso la Scuola di Applicazione di Fanteria di Parma. Catturato per non essersi arreso ai tedeschi e per non avere giurato fedeltà a Mussolini, venne internato in Stalag e Staflager tedeschi fino al 1945, marchiato con il codice 102883/II A inciso su una placca. Insieme ad altri 650 mila prigionieri fece parte degli IMI, soldati italiani – tra cui, come si è detto, molti siciliani in armi bloccati oltre la linea Gustav – catturati dai nazisti, caricati di forza su vagoni piombati diretti ai campi concentrazionari in Germania, Austria, Polonia, Cecoslovacchia. Inglobati nella politica repressiva del nazismo, classificati come una ‘razza inferiore e inaffidabile’ poiché da italiani avevano “tradito” il vecchio alleato, gli IMI furono così destinati ai lager già raggiunti da ebrei, slavi e sovietici.

Ebbe da quel momento inizio il terribile processo di abbrutimento fisico e psicologico che per loro era stato pianificato: furono abbandonati alla sporcizia, con indumenti inadatti alle rigide temperature locali, con alimentazione insufficiente, alloggiati in fredde baracche in compagnia di cimici e pidocchi, con la minaccia perenne del tifo e della tubercolosi. Ma riuscirono a resistere, a non piegarsi. Posti dinanzi alla scelta fra una dura prigionia (che per i soldati comportava il lavoro forzato e per tutti fame e vessazioni) e l’adesione al nazifascismo (che apriva la via al ritorno a casa e come minimo garantiva un immediato miglioramento delle condizioni di vita), in grande maggioranza preferirono la fedeltà alle istituzioni e rivendicarono la loro dignità di uomini con una tenace resistenza, in nome della libertà dall’aggressore. Decisero di rimanere nei lager in condizioni durissime, e per 40 mila di essi questo significò il sacrificio della vita [18]. Gerardo Sangiorgio con chiarezza ha parlato della scelta che in tanti non esitarono a compiere, disarmati ma fieri e fermi nei loro valori: 

«Rimanemmo al nostro posto d’onore in omaggio al principio che il soldato possiede in se stesso i valori della sua dignità, prescindendo dal ricevere o non ricevere ordini pertinenti […] e convinti che in quel momento la causa giusta, quella della lotta all’aggressore disumano e soverchiatore aveva bisogno di noi, per dare una nuova e onorevole svolta alle infauste tragiche vicende della nostra Patria…» [19].

Nel lager resisterà a vessazioni, abusi, pestaggi nelle baracche, in cui ha combattuto il freddo, le umiliazioni, le malattie. Sarà una lotta silenziosa e senz’armi quella di Gerardo Sangiorgio, illuminata dalla fede religiosa e da profondi principi morali che lo avevano avvicinato ai gruppi universitari cattolici prima della partenza per il fronte, gruppi con i quali aveva condiviso la condanna della violenza, l’aspirazione alla libertà, un antifascismo indignato dall’emanazione delle leggi razziali del 1938.

lui-era-mio-padre-libro-sulle-memorie-di-alfio-russoEra stato chiamato per la leva Salvatore Russo di Solicchiata, una frazione del comune etneo di Castiglione di Sicilia. Nel 1943 si trovava in servizio militare in Grecia: proprio l’8 settembre compiva 26 anni, e non poteva certo immaginare il dramma che lo avrebbe rapidamente inghiottito fino al maggio del 1945.

Insieme agli altri commilitoni della sua divisione militare si rifiutò di aderire alla guerra nazifascista e venne catturato dai tedeschi. Iniziò così la sua odissea, con la deportazione nei campi di prigionia e di punizione nazisti: 

«Spogliati e disinfettati ci rasarono a zero con una violenza spietata […], io ero in una condizione fisica terrificante e mi reggevo in piedi a stento […], ero tanto debole e quando, dopo parecchie settimane, cominciai a riprendere le forze non mi riusciva stabilire il contatto con il suolo, le mie gambe mi si piegavano e la vista si offuscava […] [20]. 

Sono solo alcune tracce di giovani uomini partiti da quattro paesi della cintura etnea, Linguaglossa, Adrano, Biancavilla, Castiglione di Sicilia, arrivati nei lager in modo diverso eppure tutti legati dallo stesso vissuto disumanizzante. Le loro tragedie, singolari per scelta personale e dinamiche di sviluppo, emergono da un tessuto plurale di opposizione al fascismo e alla guerra, presente nell’isola già dopo la marcia su Roma, che oggi le microstorie offrono alla conoscenza storica. Con loro centinaia di siciliani, partigiani, prigionieri militari e politici, per lo più lontani da casa, furono trascinati nella tragedia delle denunce, delle fucilazioni, delle deportazioni e dell’annientamento, se non sempre fisico certamente psicologico e morale, nei campi di concentramento.

Alle famiglie giungevano nel migliore dei casi rare lettere, spesso con frasi cancellate ed espressioni di circostanza imposte dai superiori. Separati dalle famiglie e fuori dall’isola i siciliani antifascisti non ebbero sorte diversa dagli altri italiani. Carmelo Salanitro morirà a Mauthausen, non avrà tempo né modo di parlare delle immani sofferenze subite. Sarà Nunzio Di Francesco a raccontare di quell’incontro e del campo di concentramento nelle memorie scritte a guerra conclusa e dopo il rientro in Sicilia, “Il costo della libertà”. Documenterà così due storie di resistenza in una sola, unico il dramma di vite sospese e sottratte con violenza alla dignità d’esistenza.

Sofferto e lento sarà il rientro di Gerardo Sangiorgio, che poco prima della liberazione del lager aveva superato di appena 800 grammi i 40 chili, rischiando ogni giorno di essere dichiarato inabile al lavoro, premessa di una morte certa. Per quegli ottocento grammi – ricorderà sempre ai figli – gli fu risparmiata la vita. Sotto il cannoneggiamento alleato i tedeschi avevano provato ad incolonnarlo con gli altri prigionieri per l’evacuazione, ma poi quei corpi sfiniti furono abbandonati sotto l’artiglieria americana, che in un primo tempo scambiò addirittura i fuggiaschi per soldati tedeschi e li costrinse ad altro riparo di fortuna fino alla conquista definitiva della libertà. Gli internati marciarono faticosamente a tappe per cento chilometri da Duisdorf da Aquisgrana, dove era stato allestito un campo di raccolta per ex prigionieri. Infine, era il 9 agosto del 1945, Gerardo Sangiorgio poté fare ritorno a casa.  In Sicilia si affiderà alla scrittura con pudore. Il peso dell’offesa subita rischiava di ferire le persone care, di incrinare la fiducia nell’agire umano, nell’operare cristiano.

Alfio Russo ritornerà a casa nel maggio del 1945, quando il lager era stato finalmente liberato, e racconterà alla famiglia la forte emozione di quei momenti: 

«Ho viva l’immagine di quando siamo arrivati alla frontiera italiana: siamo scesi dai vagoni, vestiti malamente, ma ci siamo abbracciati tra noi, piangevamo di gioia anche inginocchiati toccando la nostra terra con le mani. Eravamo tornati in Italia dopo anni di prigionia, il nostro calvario era finito» [21]. 
Pietra d'inciampo al Liceo Cutelli di Catania in memoria del prof. Carmelo Salanitro

Pietra d’inciampo al Liceo Cutelli di Catania in memoria del prof. Carmelo Salanitro

Eppure non furono giorni facili né giusti, quelli del rientro dopo l’internamento. Ancora in preda a incubi e lunghe sofferenze, ciascuno avvertì anche l’isolamento dettato dal silenzio delle istituzioni, e tutti furono costretti a fare i conti con chi accusava gli IMI ora di tradimento nei confronti del fascismo ora di assenza di coraggio perché lontani dalla lotta partigiana. Anche su questo “disconoscimento” bisogna tornare con l’indagine storica che riconduce alle fonti, per capire non solo ciò che è accaduto ma soprattutto a chi e in che modo, perché sono gli uomini che fanno la storia e da loro bisogna sempre partire per capire il tempo spesso difficile in cui siamo chiamati a pensare e ad agire.

Le memorie dei tanti “resistenti silenziosi”, a lungo ignorate dalla storia collettiva, oggi sono il nostro patrimonio civile. Lentamente, ma con grande rigore, le associazioni e le fondazioni che dal dopoguerra sono nate per sostenere il comune vissuto dei tanti giovani trascinati nei lager hanno infatti raccolto, filtrato, controllato centinaia di testimonianze, ricavandone un tessuto civile per rivestire un paese che voleva rinascere con abiti nuovi, riscrivendo, con documenti privati che racchiudevano però un dramma comune, la Resistenza di tutti gli italiani che hanno lottato per la liberazione del Paese [22].

Anche la Sicilia con la sua gente ha dunque fatto la Resistenza: una lotta diversa forse per luoghi, numeri, modalità e condizioni di sviluppo, tuttavia sempre illuminata dallo stesso faro che indicava agli altri italiani la strada verso la libertà.

Con testimonianze, diari, ricordi raccontati e riportati, e tanto altro materiale ritrovato in archivi e cassetti di famiglia, è possibile documentare in tutto il Paese, da nord a sud, una scrittura corale della Resistenza nazionale e per questo popolare. A tutti i suoi protagonisti va pertanto riconosciuto il giusto contributo, perché possa essere consegnato alle nuove generazioni come eredità morale e civile da custodire e portare avanti. Compito ancora più urgente, visti i tempi certo difficili e confusi in cui siamo chiamati a decidere sul presente per un dignitoso e democratico respiro futuro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Fernand Braudel, Storia, misura del mondo, Il Mulino, Bologna 1998.
[2] Renzo De Felice, Rosso e nero, Baldini e Castoldi, Milano 1995.
[3] Nicola Tranfaglia, Mussolini al capolinea della tragedia, in «La Repubblica», 24 maggio 1997.
[4] Jacques Le Goff, Prefazione, in Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 2009.
[5] Società giarrese di Storia Patria e Cultura (a cura di), Ionia, 11 Agosto 1943, Giarre 1994.
[6] Cfr. Silvana Vinci (a cura di), Comitato di liberazione nazionale in Sicilia 1943-1946, Archivio di Stato di Palermo, 2015: 3-10.
[7] Mariano Vasta in Società giarrese di Storia Patria e Cultura (a cura di), Ionia, 11 Agosto 1943, op. cit.: 113-114.
[8] Va ricordato che, per i diversi motivi che studiosi e storici hanno indicato in molte analisi sull’argomento, nel sud e in Sicilia le scelte e le azioni sia di Mussolini che del re non generarono immediatamente una condanna unanime. Oltre ad alcuni intellettuali che, com’è noto, mostrarono aperta o implicita condivisione ideologica del fascismo, va considerata una fetta popolare che si trovò a giustificare l’operato e lo spirito delle istituzioni che rappresentavano l’Italia fascista, sostegno in parte confermato anche nel voto del 2 giugno 1946. Per buona parte tale risposta attestava l’accurata propaganda del duce con la garanzia di un ordine sociale (“si poteva dormire con le porte aperte”, a lungo hanno ripetuto alcuni anziani) su coloro che, tra ignoranza degli eventi reali e timori quotidiani per una criminalità quasi endemica in alcune zone, pensarono che il fascismo comportasse un guadagno superiore a qualsiasi privazione.
[9] Mariano Vasta, in Società giarrese di Storia Patria e Cultura (a cura di), Ionia, 11 Agosto 1943, op. cit: 114.
[10] Vincenzo Di Maggio in Ionia, 11 Agosto 1943, op. cit.: 66, e, nello stesso testo, Leonardo Patanè: 91-114, riportano episodi di arroganza da parte di alcuni soldati inglesi nell’area ionico-etnea, non tollerati generalmente dai vertici militari che cercarono di contenere le intemperanze e gli eccessi dei loro uomini anche con severe misure punitive. Alle testimonianze relative a Ionia (che all’epoca comprendeva gli attuali comuni di Giarre e Riposto) vanno altresì accostate anche quelle che hanno permesso di risalire a violenze, uccisioni e stragi perpetrate dall’esercito americano dopo lo sbarco e il più delle volte addirittura pianificate da generali e comandanti di battaglioni, come precisato da Rosario Mangiameli, Le stragi americane e tedesche in Sicilia nel 1943, in «Polo Sud», n.2-2012: 141-178. Significative, anche per comprendere una spontanea ostilità delle popolazioni locali nei confronti degli americani che avanzavano in Sicilia, sono poi le testimonianze sulle «marocchinate», ovvero stupri, violenze soprattutto sulle donne, furti e ruberie dalla statale Licata-Gela fino a Capizzi, tra Nicosia e Troina, da parte dei goumiers marocchini che si trovavano con algerini, tunisini e senegalesi nel Cef, Corps expéditionnaire francais en Italie, come supporto alla III Divisione americana diretta a Palermo. Di esse si è di recente occupata Marinella Fiume, Le ciociare di Capizzi, Iacobelli editore, 2020. Tanto ricco materiale raccolto nel tempo attraverso le testimonianze dei protagonisti, civili e militari, si aggiunge alla documentazione delle numerose stragi attuate dai tedeschi dopo lo sbarco alleato e aiuta a comprendere meglio lo stato di profonda e diffusa incertezza, con reazioni talvolta differenti, che si manifestò in vario modo nelle diverse aree dell’isola fino al 17 agosto.
[11] Per un quadro generale dell’isola nell’estate del 1943 rimando al mio L’isola nell’estate del 1943. La rappresaglia nazista a Castiglione di Sicilia, in «Studi Storici Siciliani», giugno 2022: 13-24.
[12] Cfr. M. Avagliano, M. Palmieri, Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania. Dati, fatti e considerazioni, in «Le porte della memoria», ANRP, n. 1, Roma 2008. Gli autori precisano che per quanto riguarda «gli uomini sotto le armi al momento dell’armistizio, non esiste un dato certo: degli oltre 5.000.000 di italiani complessivamente mobilitati all’8 settembre 1943 ne risultano in armi approssimativamente 3.500.000, dai quali vanno però sottratti i prigionieri degli anglo-americani, i dispersi dell’ARMIR, i feriti e gli invalidi».
[13] La terza Convenzione di Ginevra, approvata il 27 luglio 1929 e sottoscritta anche dalla Germania, protegge i combattenti legittimi che, nel corso di un conflitto armato internazionale, cadano in potere del nemico. Tra gli articoli sistematicamente violati nei lager vanno ricordati sia quelli che vietavano l’uso dei prigionieri per lavoro coatto non retribuito e di misure penalizzanti nei loro confronti che quelli che prevedevano il rispetto di precise razioni alimentari quotidiane (art. 2, art.11, art. 30, art.32, art. 34) e un possibile aiuto esterno con l’ art. 78: “Le associazioni di soccorso per prigionieri di guerra riceveranno dai belligeranti ogni facilitazione entro i limiti segnati dalle esigenze militari per assolvere efficacemente la loro missione umanitaria”. Questo articolo fu aggirato con la configurazione dei prigionieri come internati, con la conseguenza che nessun soccorso fu prestato ai soldati nei lager e il loro lavoro fu in tutti i casi reso obbligatorio, gravoso e gratuito.
[14] La presenza di molti siciliani tra deportati e internati è legata alla mobilità obbligata del servizio militare soprattutto con la guerra in corso. Molti di loro furono letteralmente bloccati dopo l’8 settembre nelle aree geografiche in cui si trovavano le loro caserme e, data la distanza notevole dal luogo di origine e quindi l’impossibilità di fare ritorno a casa nello sbandamento generale, furono più facilmente catturati dai tedeschi. Anche se Giovanna D’Amico, in I siciliani deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti 1943-1945, Sellerio, Palermo 2006, dichiara che «I nati in Sicilia che finiscono nella rete concentrazionaria dipendente da Heinrich Himmler e dal suo apparato SS sono 761», le ricerche successive e ancora in corso condotte negli archivi di ospedali, lager, caserme, nonché la pubblicazione delle memorie private di deportati e internati, conducono oggi a ipotizzare numeri più rilevanti.
[15] Nunzio Di Francesco, Il costo della libertà, seconda edizione, Linguaglossa 2001: 131.
[16] Carmelo Salanitro, dopo la denuncia del suo preside, era stato prima arrestato e deferito al Tribunale speciale, poi condannato a 18 anni di reclusione, infine deportato dai tedeschi. L’accusa era quella, come lui stesso scrisse nei suoi appunti, che con la sua opera «si faceva istigazione a non combattere, a uccidere il Duce e il Fuhrer, si offendevano i medesimi, si vilipendiava il fascismo». Sulla figura di Carmelo Salanitro si rimanda a Salvatore Distefano, Nicola Torre (a cura di), Memoria e libertà. In ricordo di Carmelo Salanitro, CUECM, Catania 2001 e a Rosario Mangiameli (a cura di), Carmelo Salanitro. Pagine dal diario, CUECM, Catania 2005.
[17] Nunzio Di Francesco, Il costo della libertà, op. cit.: 123-125.
[18] Gianni Oliva, Appunti per una storia di tutti, prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Consiglio Regionale del Piemonte, Istituto storico della resistenza in Piemonte ed., Torino 1982: 2-3.
[19] Gerardo Sangiorgio, Quando l’algente verno…, Biancavilla 2000: 208.
[20] Carmela Russo, Lui era mio padre, Bracchi, Giarre 2020: 106- 107.
[21] Ivi: 178.
[22] Vanno i ricordati i principali Enti associativi e museali che del fenomeno si sono occupati e sono ancora impegnati in una sempre più ricca ricostruzione storica della deportazione e dell’internamento: l’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari), l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), l’ANED (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti), l’ANEI (Associazione nazionale ex internati), la Fondazione Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza – Luoghi della Memoria Toscana, il Museo Vite di IMI –ANRP a Roma. Interessante anche il LeBI, Lessico Biografico degli IMI-Internati Militari Italiani, una banca dati on-line degli Internati Militari Italiani sempre aggiornata con nuovi inserimenti.

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Grazia Messina, direttrice della ricerca scientifica nel Museo Etneo delle Migrazioni di Giarre per la Rete dei Musei siciliani dell’Emigrazione. Laureata in Filosofia, Master in “Economia della Cultura” (Università Roma Tor Vergata), ha insegnato Storia e Filosofia nei licei statali. Promuove laboratori didattici e piattaforme digitali, con workshop nel territorio per la tutela della memoria storica. E’ autrice di articoli e saggi editi su riviste e volumi anche collettanei. Ha scritto con Antonio Cortese La Sicilia Migrante, Tau Editrice (2022). Nel 2023 ha curato la sezione “Sicilia” nel Rapporto Italiani nel Mondo (RIM 2023), edito dalla Fondazione Migrantes.
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