Nel libro di Giovanni Antonio Tabasso, Don Pietrino vicario Parrocchiale (edizioni Il Maestrale, 2023), la figura immaginaria del protagonista, vicario parrocchiale in un piccolo centro, vicino al capoluogo Nuoro, è, a ben vedere, vicinissima alla realtà per la cura minuziosa, i discorsi sentiti negli anni passati, l’attenta documentazione, l’attenzione posta dall’autore nell’inventare questa figura e quella di tanti altri personaggi. Negli anni 1936-1940, la Parrocchia di Nùrico (nome imaginario di un villaggio reale) come tutta l’Italia, vive quel clima particolare creato dall’accordo tra il Fascismo e la Chiesa Cattolica dopo la firma dei Patti Lateranensi. Riserve mentali enormi in ciascuno dei contraenti; una formale e, spesso sostanziale, solidarietà nel tentativo di governare la società italiana, uscita frastornata e convulsa, almeno in certe regioni, dalla Prima Guerra. Il terrore provocato dalla Rivoluzione russa, da alcune proteste dei movimenti operai, l’inadeguatezza delle sinistre, la volontà del Re, hanno fatto il resto.
Il paese pullula di spie e delatori. Un esempio di questi personaggi è Michelli Sale, ex combattente, bidello, che, indossata l’uniforme fascista pesa, a modo suo – temuto e deriso – sul paese e rappresenta uno di quei personaggi, tipici dei governi autoritari: temibili – come delatori o segnalatori – e grotteschi per l’inadeguatezza tra la sua persona e il ruolo che immagina di ricoprire. Egli si ritiene ingiustamente escluso dalla carica di podestà. In questa storia sarà una specie di messo degli dèi. Nel corso del racconto emergerà la sua pericolosità reale, in parte tratteggiata dal Parroco, Canonico Fera: «a volte è preferibile avere a che fare con un farabutto conclamato che con un invasato …È dei personaggi come lui che bisogna avere paura, l’invasato agisce senza una volontà propria, quindi è agito, come uno strumento docile, a quel punto è capace di ogni nefandezza in nome dei principi superiori».
Il libro è frutto di quasi cinque anni di studi e ricerche per definire un personaggio, un’epoca, un luogo e tanti comprimari. Con ciò non è un romanzo storico in senso stretto, è piuttosto un saggio di scrittura civile, chi vorrà, a lettura fatta, cercherà di trovare la giusta definizione. Dal testo emerge una profonda e onesta volontà di capire e quindi di raccontare un momento di un’epoca, diversi drammi personali e la singolare figura del prete Don Pietrino, molto vicina al vero, che ne emerge, nello sfondo di una storia collettiva, anche essa fortemente attualizzata. Di qui i dettagli e le descrizioni minuziose. Questa immagine penetrante è possibile grazie a una scrittura meditata, minuziosa, precisa nei dettagli, mai noiosa o pedante, marcata da una grande continuità, che rivela la lunga meditazione del testo. Una scrittura coinvolgente, per cui non ci si stanca di leggere e si è sempre di più immedesimati e coinvolti.
Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, Bernanos e altri autori di storie di preti, non devono essere considerati che come un lontano modello ispiratore; nel caso di Bernanos il romanzo Grandi cimiteri sotto la luna è preziosa fonte di informazione. “Don Pietrino” è del tutto autonomo, per lo stile, per il contesto, per la conclusione. È un libro che potrebbe segnare un momento interessante nella letteratura oggi prodotta in Sardegna, un esempio di impegno civico notevole per lo stile, per le suggestioni suggerite, a lettura fatta: le guerre successive a quella di Spagna, i profondi cambiamenti nella gestione della Chiesa, il ruolo che ciascuno può giocare nella sua Nùrico, da vedere in prospettive di insieme e non, come spesso accade, frammenti scomposti di una realtà inafferrabile, che giustifica il disimpegno. Sicuramente l’esperienza di giudice nel settore penale ha fatto maturare queste doti naturali, nell’impegno di ascoltare testimoni, quantomeno dubbi, lusinghe di avvocati, leggere migliaia di pagine di verbali da valutare attentamente, poi in coscienza, scrivere delle sentenze chiare capaci di resistere a tutte le critiche. Mi sembra che “il rispondere alla propria coscienza” sia il vero qualificante tema del romanzo.
L’autore, Giovanni Antonio Tabasso, ha avuto i primi incarichi in magistratura prima a Bitti, poi a Nuoro, infine a Sassari, concludendo la carriera in Corte d’Assise. È sempre stato attivo sul piano dell’impegno civile, una testimonianza che lo ha spinto a scrivere questo libro.
Don Pietrino Nurra
Il nome non potrebbe essere più banale. Non Pietro, ma Pietrino. Nurra un cognome qualsiasi. Con quel ‘Pietrino’, spontaneo e familiare nel suo parroco, diminutivo in bocca dei suoi superiori, si cerca di vincere un complesso di inferiorità che involontariamente il giovane prete provoca, nonostante i suoi sforzi di apparire quantomeno neutro nei colloqui, sin dai tempi del seminario. Nato in una famiglia di pastori, in un luogo vicino a Nuoro, con notevole impegno economico, la famiglia lo fa arrivare alla quinta ginnasiale. Tutto sembra correre su binari normali, i genitori fanno progetti per il futuro. Non tengono conto di una volontà più grande della loro: quella di chi ’sceglie’ uno dei suoi servitori. È il problema della vocazione al sacerdozio in chi non fa questa scelta con fini più terreni (specie nel passato quando chi proveniva da classi umili poteva riscattarsi socialmente diventando prete, anzi curato con prebenda).
Questo tema sarà il fulcro del racconto, la giustificazione delle scelte di Pietrino il suo scudo. Il suo professore di religione al ginnasio era stato esplicito, con chiari riferimenti a testi sacri, padri della Chiesa. Quella che chiamiamo vocazione è appunto una chiamata che viene direttamente da Dio, che ha scelto te e non un altro. Nel libro è tutto accuratamente spiegato e argomentato. Dice don Pietrino: «…a certe verità si deve credere per fede, e alla fede si arriva con il cuore, non con la logica, come ci ha insegnato Pascal». Altrimenti come spiegare quell’inquietudine, quell’angoscia, quel bisogno impellente di entrare in un’istituzione che dopo anni di scuola ti renderà ‘sacerdote’, prete nel senso pieno del termine; destinato a servire Dio attraverso il bene e grazie al servizio che renderà, specie ai più umili. Aveva ricevuto ammonimenti che avrebbero dovuto farlo riflettere. Il Direttore del Seminario tuonava “In aeterno”, senza possibilità di regresso. Il parroco del suo paese, don Grussu aveva avuto un’espressione perplessa all’annunzio della sua scelta, con un occhio sulle vicende terrene, aveva osservato che le tombe dei preti sono le meno curate e «Ci vuole molta fede per accettare una vita ricca solo di doni e ricompense che verranno dopo, se verranno, e intanto priva degli affetti che tutti gli altri hanno». Più esplicitamente si riferiva alla vita solitaria, priva di affetti veri, che lui aveva sperimentato. Quindi l’essenza di Pietrino: una fede che riteneva gli fosse stata donata, e insieme imposta come compito della sua vita, una buona cultura religiosa, una visione della vita e del mondo realistica, onesto nel fondo del suo essere. Con questi strumenti si accingeva ad iniziare la sua nuova vita di vicario parrocchiale.
Al suo arrivo in quello “strano paese”, era stata Zenobia, la donna che curava gli aspetti materiali della casa parrocchiale, ad accoglierlo e accompagnarlo, nella stanzetta, «odorosa di chiuso e di muffa» che gli era stata destinata. A notte avrebbe aperto la finestra: «La valle era buia e avvolta da un silenzio solenne interrotto ogni tanto solo da qualche latrato lontano; don Pietrino ebbe quasi ritegno a violare quella quiete ed evitando di accendere la lampadina si spogliò». All’arrivo scendendo dalla corriera «l’aria calda del pomeriggio si riempì subito di richiami striduli e confusi, e degli odori della nafta, dei fumi dello svogliato motore diesel, del vomito dei passeggeri rappreso in strani arabeschi nella polvere sotto i finestrini».
Pochi tratti disegnano un paesaggio e un ambiente. In un testo per certi versi austero si presentano gli odori, la nafta, il vomito, la muffa. In seguito sarà l’odore acido del povero locale, con il pavimento in terra battuta, dove giace un moribondo, poi gli odori della campagna e quel leggero odore di benzina che si percepiva all’arresto di una vettura ai piedi di una montagna – oggi non accade più. Poi ci sarà il paesaggio, la montagna di calcare che incombe, quella che da lontano sembra una massa uniforme azzurrina e cambia di colore, e da vicino mostra i suoi picchi, le grotte e gli scoscendimenti. Ancora il paesaggio incredibile che si mostra a chi arrampicato in cima, sfidando le rocce taglienti, vede la distesa di calcare che scende verso il mare: «Alle loro spalle, verso oriente, il gran rocciaio bianco digradava verso un vallata verde…, con chiazze più chiare nelle parti coltivate e punteggiate da macchie scure di bosco; più in là si ergevano altri lontani rilievi bianchi fra i quali, perso in un lieve caligine azzurra, luccicava il mare». Infine: «notte di pioggia; le stradicciole di Nùrico diventano rigagnoli fangosi nei quali all’alba zampetterà il piccolo gregge che il bambino capraio condurrà verso il monte color cenere velato di vapori perlacei».
Con notazioni simili, poetiche, liriche, drammatiche e veriste, l’autore ci fa scoprire il mondo fisico nel quale Pietrino dovrà trovare il modo di guidare il suo gregge, un grumo di umanità povera nell’insieme, spesso anche nello spirito, che si ingegna a sopravvivere, chi con malizia e arroganza chi con realismo e rassegnazione (si deus cheret, se dio vuole) quasi ignara dei problemi che agitano i tre principali protagonisti: Pietrino, il Parroco e l’Avvocato. Viene da pensare al Podestà, tronfio, ignorante, che sarà duramente colpito negli affetti proprio dalla guerra che propugna. Questo Podestà è un poco l’incarnazione della classe dirigente locale che il Fascismo si troverà in Sardegna, dopo l’accordo che ha visto il Partito Sardo d’Azione, fatto di ex combattenti, ricchi di speranze per i meriti acquisiti in guerra, passare in gran parte al fascismo. La vecchia classe dirigente resterà al potere, con una nuova uniforme, più arrogante di prima. Il fascismo avrà un aspetto meno violento, più casareccio anche grazie al clientelismo che già informava il mondo precedente, ma sempre incombente. Rapporti familiari, prudenza nel non provocare importanti personaggi che non avevano aderito alla nuova gestione, faranno sì che alcuni, soprattutto avvocati, potranno farsi riconoscere come non fascisti, ma innocui, perché attentamente sorvegliati e all’occorrenza ammoniti.
Uno di questi avvocati sarà l’interlocutore dei due preti nelle loro passeggiate pomeridiane: l’avv. Bracco. Anche lui ex combattente, mazziniano ma non credente, buon conoscitore della storia e di tutti gli argomenti di polemica con la Chiesa, ma anche lui, alla fine, perfettamente innocuo in un sistema totalitario e totalizzante. Altri si sarebbero impegnati, costretti all’esilio o trovandosi in un contesto diverso da Nuoro, anche in azioni di guerra, come Lussu e Giacobbe, o in attività di politica attiva clandestina: Chironi, Fancello. Chi restava doveva sopravvivere al ‘Fascismo di tutti i giorni’ opprimente e vessatorio, come il romanzo mette bene in evidenza.
Riportare in dettaglio i dialoghi, accuratamente costruiti da Tabasso diventa impossibile, come lo sarà per alcuni altri, tra don Pietrino e il giovane Massimo, figlio del Podestà o tra i due preti. Si può dare una credibile ricostruzione dei temi. Innanzi tutto, le istruzioni fornite dal Parroco, uomo ormai di esperienza, conosciuto in Vescovado come “spirito indipendente”. Era stato lui, impugnando la sbarra della porta, a volgere in fuga un gruppo di arroganti giovani fascisti che avevano la pretesa di entrare nel seminario. Nel corso del loro primo incontro il canonico fa delle raccomandazioni: «Ma tu…tu non manifestare a nessuno le tue opinioni, se sono come le mie, poi ti saprò dire se devi diffidare di qualcuno in particolare». Le opinioni riguardavano il Regime.
Trascrivo alcuni brani di un dialogo tra i due preti:
«Ma ammetterà che la distanza tra l’insegnamento del Vangelo e certi atteggiamenti della Chiesa è tale che per formarsi un’opinione su quello che fanno e decidono le nostre gerarchie non occorre attendere il giudizio finale .Provi ad immaginare piuttosto cosa sarebbe la Chiesa e la stessa società se si avesse il coraggio di romperla con le furbizie della diplomazia, si vivesse secondo i principi di carità che predichiamo, si avesse il coraggio di denunciare la barbarie anticristiana di quelli con i quali andiamo a braccetto, badassimo più alla sostanza di quello che ci è stato comandato che non alla ritualità formale (…). Stai buono, don Pietrì, anzi…aspetta…non credere che certe domande te le faccia soltanto tu, o che certe aspirazioni siano soltanto tue, (…) anche a causa della vigilanza su sé medesimi, davvero non si riesce, non riesco, a credere che senza il sostegno di quell’impalcatura gerarchica e curiale alla quale la Chiesa si è appoggiata nei secoli il messaggio cristiano autentico, quello del Vangelo e di San Paolo continuerebbe a trasmettersi integro al mondo futuro. (…) Ma questo non basta a trasmettere la parola di Cristo, che non si può ridurre a un atteggiamento generico di bontà sentimentale. La fede cristiana è anche altro, lo sai tu quanto me, è anche impegno, e obbedienza, è fiducia nei pastori e nella loro capacità di guardare lontano, anche oltre le momentanee esigenze politiche, è, guarda un poco, anche la capacità di obbedire, non dimenticare. Ma tu, tu non puoi fare a meno di farti domande e di tormentarti: è normale, se si dispone di un cervello che pensa, ed è bene che questo succeda: alla fine ti sentirai più sicuro, perché ti sarai dato delle risposte… almeno così spero, bè’, andiamo».
I temi delle conversazioni saranno i più vari. Sarà spesso l’avvocato a iniziare con tono bonariamente provocatorio. I tre concordano nel deprecare la guerra, tutte le guerre l’inutile distruzione di capacità e di intelligenze. Poi la polemica riguarda la Chiesa, le sue furberie nei secoli, l’ostilità verso gli ebrei, i soliti argomenti, pro e contro la fede, il giovane più disposto ad ascoltare l’avvocato, il vecchio prete, abbiamo visto prudente e responsabile. Sarà la morte di Massimo in Spagna, dove il figlio del Podestà entusiasta e pieno di certezze morirà di una morte quasi cercata, gettando in crisi la famiglia, sconvolgendo don Pietrino che invano aveva portato argomenti, in un loro ultimo incontro, contro la partenza. Maturerà la convinzione che il padre, il Podestà, abbia contato su quella partenza vedendoci un motivo di avanzamento della sua carriera. La notizia della morte sarà portata da Michelli Sale assieme al Federale, giunto espressamente da Nuoro. In questo senso Michelli diventa messaggero degli dèi, anche perché da questa vicenda avranno origine i problemi di don Pietrino.
Onori al caduto. Il Vescovo
In occasione del prossimo 28 ottobre si sarebbe dovuto celebrare, questa volta a Nùrico, l’anniversario della marcia su Roma. Don Pietrino, essendo morto improvvisamente il Parroco, avrebbe dovuto celebrare la Messa e tenere un’omelia adeguata alle circostanze. Ciò lo turbava profondamente, perché avrebbe anche dovuto commemorare Massimo, morto valorosamente in Spagna. C’era anche una sorta di promessa fatta alla madre del caduto. La Signora aveva detto: «Altro che volontà di vittoria, Massimo era disgustato, don Pietrino, doveva essere pentito delle scelte che aveva fatto, chissà forse non sapeva come uscire dalle scelte che aveva fatto». «E la prego, don Pietrino, fra qualche giorno, quando dirà la Messa per Massimo e quei poveretti, almeno lei, non si metta a tessere le lodi del nostro Duce e dei suoi meriti verso la Chiesa. Invece, dica come era mio figlio, e perché è morto. Canonico Fera lo avrebbe fatto questo». Perché dalla motivazione della medaglia, dal racconto di un suo compagno di battaglia scampato al massacro emergeva che Massimo non aveva fatto nulla per sfuggire alla morte, l’aveva quasi cercata. Su questo proposito chi scrive potrebbe aggiungere di avere visto le lettere di un caduto – medaglia d’oro – che quasi annunciava lo stesso proposito ai familiari.
Tutte le Autorità si aspettavano giusto il contrario: la certificazione che Massimo era morto per la giusta causa, per opporsi ai nemici di Dio, contro i quali era schierata la Chiesa. In un colloquio con l’Avvocato Pietrino dice: «Quanto a sapere come la penso, o come la pensiamo, o come la pensava Antioco Fera, a Nuoro lo sanno benissimo, e non è certo una novità: lo sa il vescovo e lo sa chi lo circonda, lo sanno in prefettura, in questura, alla Federazione del Fascio, dovunque ci si preoccupi di saper come la pensa il prossimo». Con queste attese si chiude quella che, a mio parere, è la prima parte del racconto. Nelle pagine seguenti si esplicita ciò che stava maturando e che in un certo senso era ormai prevedibile. Pietrino è fermo nei suoi convincimenti e nella sua fede, per la quale ha anche accantonato la possibilità di lasciare la Chiesa per essere più libero e anche, forse, quella di una vita con l’antica fidanzata dei tempi del Ginnasio: Eleonora, che in qualche modo si era spesa per ritrovarlo, a Nùrico.
In vista della cerimonia del 28 ottobre si logora comunque per trovare una formula per ricordare Massimo nella sua omelia. Un intero capitolo è dedicato ai suoi turbamenti, quando improvvisa arriva la convocazione a Nuoro, davanti al Vescovo, il quale si impegnerà in un lungo giro di parole: «Certo, certo che non potrai dimenticare come e perché quel povero Massimo è morto, e neppure a che cosa si opponevano, lui e quelli che combattevano con lui: stai ben certo che se non li avessero fermati, quei rossi avrebbero cancellato dalla Spagna ogni traccia di cristianità, come hanno fatto in Russia. Vedi un poco, perché ne avrai l’opportunità, se vorrai spendere qualche parola a questo proposito, di questa vittoria noi cattolici non possiamo che rendere grazia a Dio, lo capisci da solo (…) Non dobbiamo dare occasione di incidenti con le autorità, alle quali, in fondo la Chiesa deve essere molto grata, lo capisci? E più avanti avremo occasione di vederci, per parlare; per parlare anche della parrocchia di Nùrico, eh? Vai con Dio, Pietrino, ci vedremo presto».
All’uscita don Pietrino incontra il segretario del Vescovo Narciso Pisanu e gli confida: «Ora, lo saprai, il Vescovo te ne avrà parlato, sono in grave imbarazzo per la messa del 28 ottobre, non so se riuscirò a tacere quello che penso davvero, però non so se riuscirò a dire cose diverse da quelle che penso, e quanto potrò essere credibile in questo caso. Temo proprio che alla fine mi possano sfuggire parole che dispiaceranno a molti presenti (…). Ma per quanto ho capito, il vescovo non mi ha impartito nessun ordine su quello che devo dire, ha espresso delle preferenze, è vero, ma non in termini cogenti». Nel corso del colloquio Narciso farà molte allusioni e tenterà di convincere il viceparroco a seguire i consigli del vescovo, sempre con il tono mellifluo che lo contraddistingue. Nello stesso modo cercherà di indurlo ad abbandonare l’amicizia del framassone avv. Bracco. Sulla corriera per Nùrico un vecchio sacerdote ormai in esilio, lo metterà in guardia nei confronti del segretario, «una spia di sacrestia». Sulla stessa corriera un parente della vecchia fiamma del ginnasio, gli comunicherà che Eleonora si è sposata con un vecchio fidanzato, dal racconto non sembra molto felice; ha avuto un figlio che ha chiamato Pietro, come il suocero facoltoso.
Si arriva alla cerimonia del 28 ottobre raccontata con puntuale ironia, sino a che tra le auto delle autorità compare quella del vescovo, che inatteso, celebrerà la messa e terrà l’omelia.
«…tra coloro che raccomandiamo al signore, tutti presenti al nostro cuore di pastore, ci è caro ricordare il giovane Massimo Serri, giustamente insignito della medaglia d’argento al valor militare: in questa chiesa egli apprese i fondamenti della vita cristiana, temprò alla fiamma della fede la sua vocazione al sacrificio per i destini della Patria e in difesa della nostra religione, qui egli pregò prima di partire per la Spagna, e qui oggi lo ricordiamo: ne ricordiamo il coraggio, la volontà di opporsi ai nemici di Dio, celebriamo insieme al suo olocausto, la gloriosa vittoria alla quale ha generosamente contribuito, e per la quale il nostro papa ha levato all’Altissimo fervido ringraziamento».
Reprimenda
Don Pietrino riconvocato in vescovado subisce una lunga reprimenda da parte del vescovo, descritta dall’autore nei suoi termini allusivi e talvolta più espliciti. Gli si lascia capire che non riceverà un incarico per Nùrico, che ha deluso il vescovo perché non avrebbe seguito, se impegnato nell’omelia, i suoi suggerimenti, gli si spiega ancora: «Credo di capire che ti saresti astenuto dal prendere posizione anche su quello che è accaduto in Spagna, non è così? Cioè, in altri termini non avresti tenuto conto dei miei consigli» «Non posso negarlo, Monsignore, non sarei sincero se dicessi qualcosa di diverso…avrei insistito sul sangue versato in Spagna da entrambe le parti» «E purtroppo vedo che avevano ragione quei signori che mi hanno mandato a dire che stessi attento a quello che avresti potuto combinare». Il vescovo accenna a decisioni che dovrà prendere sul suo conto in futuro, benché sia stata evidente la sua incapacità a fare fronte a situazioni difficili; di conseguenza non riceverà la nomina a parroco di Nùrico.
Lo spazio disponibile non consente di seguire il dettagliato racconto di ciò che seguirà. Intanto a Nùrico arriva il nuovo Parroco: Canonico Selis. Uomo pacato, di non grande levatura culturale che ammonisce Pietrino circa l’inutilità di profonde ricerche teologiche. Anzi gli cita don Marco – Pietrino ricorderà con affetto – che a causa della sua passione per le grandi discussioni fu trasferito a Meriscàlas dove contrasse la tbc, per andare morire al sanatorio di Sondalo. Nel contempo il segretario del vescovo Narciso Pisanu era giunto a Nùrico per mostrare a Pierino una segnalazione a tutte le autorità a firma di Michele Sale, segretario del Fascio locale. Si segnalava che nella notte era stato orchestrato un concerto di bucine – nei fatti riguardava un matrimonio – contro il nuovo parroco, organizzato dal suo vice, deluso dalla mancata promozione. Il concerto, in realtà, secondo una tradizione locale, era stato promosso per commentare il matrimonio intervenuto tra due persone anziane.
Ancora una volta il vescovo, inaspettato, era giunto a Nùrico per celebrare personalmente le cresime, funzione che abitualmente delegava. All’uscita il cav. Serri e Michelli salutarono con imbarazzo don Pietrino. Alla fine della cerimonia il vescovo volle attardarsi un momento con il parroco e il suo vice. Con molte perifrasi notificava che, anche a causa della presa di posizione del segretario del Fascio, egli era costretto ad allontanare don Pietrino, e che il canonico Selis avrebbe avuto come vice Narciso Pisanu, il suo attuale segretario, la spia di sacrestia.
La fine
Don Pietrino si preparò a partire in silenzio, ospite non salutato. Chiese all’ex combattente dell’Etiopia, Rodolfo, di dargli un passaggio, con il suo camion sgangherato verso Meriscàlas, sua nuova e povera destinazione. Dalla nuova sede scriverà una lunga lettera all’avv. Bracco: «Lei sa bene quali siano le critiche che muovo al regime che impera nel nostro Paese, e quali problemi mi ponga la vicinanza agli esponenti del potentato nelle tante occasioni in cui la Chiesa e il Fascio si riveriscono e puntellano a vicenda: il fatto è che nell’incontro fra queste due entità a rimetterci è proprio la Chiesa». Invocherà la fede che don Marco gli aveva trasmessa. L’avvocato gli risponderà ribadendo la sua laicità ma esprimendo l’auspico che ‘Qualcuno’ che non sa definire lo incoraggi e lo spinga ad operare per il prossimo.
Non riusciamo a riferire tutti passaggi lirici o stimolanti del libro, che induce a ripensare storie e momenti che ci possono aiutare a capire meglio dove oggi ci troviamo: penso alla fuga da Roma del Re e dei generali che lasciarono allo sbando un intero esercito. Un libro che costringe a pensare, a ritrovare passaggi che la pigrizia spesso ci fa rimuovere. Viene da pensare al ruolo delle Religioni – Ebraismo, Islamismo, Ortodossia – che spesso si puntellano con i poteri locali. Un libro che vale la pena leggere, perché – a pensarci bene – è quanto mai attuale l’insegnamento che viene dalla vicenda di Don Pietrino.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Riferimenti bibliografici
Giangiacomo Orrù, Le elites politiche in Sardegna nel ventennio fascista, Cuec. Edizioni, Cagliari 2010
Andrea Vacca, La tela del ragno. L’Ovra in Sardegna (1937-1943), Condaghes Edizioni, Cagliari 2011
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Giancarlo Bruschi, nato a Nuoro nel 1937, pensionato della P. I. Diverse esperienze lavorative nella scuola, con impegno nella linguistica applicata e nella formazione professionale degli insegnanti, e nell’ambito giudiziario. Assieme alla moglie ha dato vita, a Nuoro, a una vivace libreria, ancora attiva come ‘Novecento’. Gli attuali gestori sono anche gli animatori delle Edizioni ‘Il Maestrale’. Vive prevalentemente a Bologna.
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