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Identità in rete: negoziazioni per costruire sé stessi

La reclame (ph. Leandro Salvia)

Identità in vetrina (ph. Leandro Salvia)

di Leandro Salvia

I social media rappresentano forme di vita collettiva al cui interno si situano processi di costruzione di senso identitari che valgono sia per il singolo individuo sia per la comunità a cui esso appartiene. Facebook, Twitter (X), Instagram, Tik Tok sono teatro di variabilità di fatti e comportamenti umani i cui meccanismi non possono più essere trascurati dagli studiosi. Le nuove tecnologie di comunicazione e relazione digitale hanno mutato, infatti, in maniera decisiva, le coordinate su cui si articola il rapporto tra l’uomo e il mondo, innovando i concetti di spazio e tempo e mutando le forme delle relazioni sociali.

Comunicando impariamo chi siamo 

I social sono piattaforme che consentono all’utente sia di gestire la propria rete sociale sia la propria identità sociale (Riva 2010: 15). Entrambi i momenti sono necessari al processo di formazione identitaria caratterizzato da due componenti: “l’identificazione” e “l’individuazione”. La prima è legata all’appartenenza a un “noi” costituito di figure, con cui ci si pone in un rapporto di similitudine o equivalenza, che vanno dalla famiglia alla comunità. La seconda componente, l’individuazione, si basa invece sulla differenza: su ciò che ci distingue dagli altri e per cui ci riteniamo diversi. Questa distinzione vale sia nei confronti dei gruppi a cui non si appartiene sia nei confronti del proprio gruppo. Si tratta di un processo identitario che necessita di relazioni: il continuo dare e ricevere della vita collettiva, ma anche di una biografia individuale che passa attraverso una strategia narrativa.

714mgfukf7l-_ac_uf10001000_ql80_Negli ultimi due decenni, l’uso sempre più diffuso di applicazioni Web, che permettono la creazione e lo scambio di contenuti generati dagli utenti, ha fornito ulteriori strumenti di costruzione identitaria. Il comunicare in rete ci fornisce, infatti, un ulteriore senso di identità perché è comunicando che impariamo chi siamo. Non si tratta solo di raccontarsi agli altri, costruendo una identità digitale e una Web reputation, ma anche a noi stessi.

In tal senso i social media sembrano assolvere sia alla funzione di specchio che di vetrina, in cui il nostro “io” si modella attraversando la dimensione del “me” e del “sé”. Secondo la teoria elaborata dallo psicologo pragmatista George Herbert Mead, l’individuo, attraverso un gioco di ruoli, prende infatti coscienza di sé nel rapporto con gli altri: l’Io come ci si vede; il Me come gli altri ci percepiscono e il Sé come sintesi di entrambe le condizioni che danno vita al soggetto sociale. Un’identità sociale che è frutto, dunque, di una negoziazione e di un’oggettivazione che necessitano del punto di vista degli altri. È quell’idea di “sé visto allo specchio” (looking-glass self), teorizzata agli inizi del Novecento dal sociologo statunitense Charles Horton Cooley, secondo cui la costruzione identitaria deriva anche dalla percezione che gli altri hanno di noi.

Anche nei social network, così come avviene nella comunicazione faccia a faccia, la coscienza di sé è mediata dalle opinioni degli altri in virtù di una «una relazione dialettica tra l’individuo e il gruppo» (Denicolai 2014: 175). Una consapevolezza di sé che, secondo il modello della “matrice di Johari”, elaborata degli psicologi americani Joseph Luft e Harry Ingham, è inevitabilmente soggetta a variazioni. Anche negli spazi virtuali inneschiamo dunque processi relazionali mediati dal rapporto con l’altro e dalla condivisione di una pluralità di codici che sono frutto di un processo negoziale. Il Sé finale, dunque, è costituito da un bilanciamento prodotto tra due diverse istanze: come veniamo percepiti dagli altri e come noi ci vediamo in reazione alle opinioni sociali su di noi. Perché, come ricorda Marc Augé, «L’individuo non è che l’intersezione, necessaria ma variabile, di un insieme di relazioni» (Augè 2019: 24).

la-vita-quotidiana-come-rappresentazioneIdentità in scena

Per il sociologo canadese Erving Goffman (1956) le interazioni sono gli atomi della società che necessitano di cooperazione tra chi interagisce alla stessa stregua di quanto avviene per gli attori su un palcoscenico. A regolamentare i ruoli sono le “cornici” (frames) che forniscono le istruzioni necessarie a dare un senso alle situazioni quotidiane. Attraverso la metafora drammaturgica Goffman spiega come il sia il prodotto di una scena che viene rappresentata e non qualcosa di organico. È un “effetto drammaturgico” dinanzi il quale il problema fondamentale è la credibilità dell’immagine sociale (face): l’idea che ciascuno di noi ha di sé e mostra agli altri, cioè un’identità che richiede un’attività d’immagine (face work) attraverso la messa in scena di un ruolo sociale che varia in base alle cornici.

La teoria del sociologo canadese, sviluppata tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, riguarda le interazioni “faccia a faccia”, ma fornisce chiavi di lettura anche per le relazioni mediate dalle tecnologie digitali, dove la costruzione del Sé è fortemente connessa al rapporto instaurato con gli altri. I social, infatti, fanno dell’interazione tra gli individui l’elemento essenziale: ciò che Goffman chiamerebbe primary framework e che necessita, anche nel Web, di una “messa in chiave” (keying) per la decodifica dei diversi ruoli sociali assunti dagli utenti. Questi meccanismi richiedono, però, anche una “burocratizzazione dello spirito” nella rappresentazione che forniamo di noi stessi. Questa è una metamorfosi descritta nel 1950 anche dal sociologo Robert Ezra Park della scuola di Chicago in Race and Culture: 

«Probabilmente non è un caso che la parola ‘persona’, nel suo significato originale, volesse dire maschera. Questo implica il riconoscimento del fatto che ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte. È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi» (Park 1950: 250). 

Anche la maschera social, indossata in questi ultimi decenni, è l’idea che ci siamo fatti di noi, la proiezione di un’aspettativa e come tale diventa una nostra “seconda natura” che entra a far parte della nostra personalità. Twitter, Facebook, Instagram e TikTok, così come avviene nel teatro, hanno natura performativa perché offrono agli utenti la possibilità di raccontare aspetti inediti di sé stessi e della propria personalità. Sono un palcoscenico ma anche una vetrina per mettersi in mostra.

Era biomediatica in vetrina

A descrivere la “celebrazione digitale dell’io” è stato, nel 2018, anche il 52° Rapporto del Censis: 

«Viviamo nel pieno dell’era biomediatica, in cui si è rovesciato il rapporto tra l’io e il sistema dei media: il soggetto ne è diventato il protagonista centrale, fino al punto che i suoi pensieri, le sue opinioni, le sue immagini, le sue esperienze, pezzi della sua biografia diventano il contenuto stesso della comunicazione. Con la conseguente rottura del meccanismo di proiezione sociale che in passato veniva attivato dalla fascinazione esercitata dal pantheon delle celebrità. Nell’era biomediatica, in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più. La metà della popolazione è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso. Un terzo ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente fondamentale per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio». 

Circa quindici anni fa, quando smartphone e selfie non erano ancora così diffusi, un amico fotografo mi raccontò che diverse giovani ragazze gli commissionavano book fotografici da rilanciare su Facebook. Le pose e gli sfondi richiamavano lo stile delle riviste patinate. Così come la scelta di mostrare, in alcuni casi, il proprio corpo senza veli. Sui social molte persone comuni, soprattutto giovani, sentivano già allora di poter diventare personaggi pubblici. Un fenomeno che il sociologo Vanni Codeluppi definisce “vetrinizzazione sociale”: 

«È frutto di quell’impellente necessità che oggi le persone sentono di dover soddisfare al fine di costruire e gestire la propria identità: mettersi adeguatamente “in scena” all’interno delle numerose vetrine in cui sono costrette a esporsi nella loro esistenza sociale e mediatica. Cercano pertanto di catturare l’attenzione degli altri e di valorizzare se stesse per ottenere un giusto riconoscimento. Si presentano al meglio e per farlo si adeguano a quegli standard di rappresentazione sociale che sono prevalenti nella società, a volte anche modificando le immagini con cui si mostrano agli altri» (Codeluppi 2015: 12).

9788857559261Nella vetrinizzazione l’individuo si relaziona con il suo pubblico e non con altre individualità. A certificarne l’esistenza sociale è il selfie, che ne rafforza le identità e trasforma il vivere quotidiano in performance. Nell’era biomediatica l’utente dei social è dunque il protagonista perché condivide la propria vita in rete. Ogni pubblicazione è come una prestazione che ha l’onere di dimostrare competenze, risultati e abilità.

L’utente dei social sembra così impegnato a mostrarci quello che Marc Augé definisce «lo spettacolo della sua incessante attività», come, per esempio, le foto che raccontano la pratica sportiva e la cura del proprio corpo. Il fitness e i trattamenti di bellezza assumono, infatti, valore performativo e sociale, non solo per il denaro speso, ma anche per il tempo e la fatica che richiedono. Sono uno status symbol da ostentare con orgoglio perché il benessere (well-being) mostrato sui social diventa l’habitus di cui parla Pierre Bourdieu: un’abitudine in grado di stabilire confini simbolici che strutturano l’identità e lo spazio sociale. 

La libertà di diventare qualcun altro e il rischio di non essere nessuno

Le diverse piattaforme social, oltre a essere uno degli ambiti esistenziali in cui si può sviluppare una diversa identità, diventano occasione anche per identità “multidimensionale”: una per Facebook, una per Instagram, Snapchat o TikTok e un’altra per X (Twitter). Si assiste a una moltiplicazione dell’“io biologico” in tanti “io digitali”. L’individuo, distribuendo dati e interagendo su più piattaforme social, diventa una “persona algoritmica”.

Secondo Sherry Turkle

«usiamo i social network per essere “noi stessi”, ma le nostre rappresentazioni online assumono una vita autonoma. I nostri sé online sviluppano personalità distinte. A volte ci sembrano sé migliori. E dato che investiamo in quei sé, vogliamo vederci riconoscere il merito» (Turkle 2019: 229). 

turkle-s-insieme-ma-soliLa sociologa statunitense, che studia le relazioni tra tecnologia e soggetti umani, parla di un nuovo stato del sé: «Un itself diviso tra lo schermo e la realtà fisica, generato dal cablaggio reso possibile dalla tecnologia» (Turkle 2019: 47), in base al quale si passa dal multitasking al multi-lifting: diversi account su piattaforme distinte offrirebbero così l’opportunità di molteplici narrazioni: «La rete permette di giocare più facilmente con l’identità (per esempio creando un avatar curiosamente diverso da noi)» (Turkle 2019: 240). 

Di qui l’ipotesi di un “miscuglio esistenziale” causato dalla comunicazione attraverso i dispositivi mobili. Nella realtà virtuale, in particolar modo attraverso una rappresentazione di noi stessi, si accresce dunque l’ambivalenza dell’essere e del poter essere che dà vita a un’identità fluida. Attraverso i profili social è possibile proiettare il sé che si vuole essere per ritagliarsi uno spazio desiderato nelle gerarchie sociali: quella che i massmediologi Jay David Bolter e Richard Grusin definiscono come «la libertà di diventare qualcun altro». A fornire alcuni esempi è sempre Turkle: 

 «Nel corso della vita non smettiamo mai di lavorare sulla nostra identità; semplicemente, la rielaboriamo con il materiale a disposizione. Fin dall’inizio i mondi sociali online ci hanno fornito nuovi materiali: chi era bruttino si rappresentava come fascinoso, il vecchio si toglieva degli anni e il giovane se li aggiungeva. Chi era di bassa estrazione economica indossava ricercati gioielli virtuali. Nel mondo virtuale lo storpio camminava senza stampelle e il timido migliorava le sue chance di seduttore» (Turkle 2019: 226). 

Nei social sembra imporsi pertanto il tentativo di essere diversi, di immaginarsi “completi”, per mitigare quella che il filosofo tedesco Günter Anders definì la “vergogna prometeica”: la consapevolezza, cioè, di non essere all’altezza dei nostri prodotti.

La negoziazione dell’identità sui social, assecondando pareri espressi in relazioni disincarnate e poco empatiche, rischia però la cosiddetta “Sindrome di Zelig”, che prende il nome dal camaleontico personaggio descritto nel 1983 da Woody Allen nel film Zelig. Il cui protagonista è affetto da una dipendenza ambientale estremamente rara che lo priva di qualsiasi autenticità e lo costringe a imitare chiunque incontri. Un uomo privo di personalità che, come uno specchio, restituisce agli altri la propria immagine. Lo stesso specchio in cui si frantuma l’identità individuale descritta da Luigi Pirandello nel romanzo Uno, nessuno e centomila: 

«Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data». (Pirandello 1925: 62)

 brunerSvolta narrativa nei social media 

«È soprattutto attraverso le nostre narrazioni che costruiamo una versione di noi stessi nel mondo, ed è attraverso la sua narrativa che una cultura fornisce ai suoi membri modelli di identità e di capacità d’azione» (Bruner 2002: 12): è la figura del “sé narratore” di cui parla Jerome Bruner, psicologo costruttivista, che analizza la funzione della narrazione autobiografica come cura di sé e come strumento identitario per situarci nel mondo.

È il presupposto teorico della cosiddetta “svolta narrativa” (narrative turn), che vede nel racconto uno strumento di pensiero con cui gli esseri umani organizzano la loro conoscenza del mondo e vi attribuiscono significati. L’idea di pensiero narrativo, che sottolinea il ruolo dei racconti nella vita degli individui, è applicabile alle narrazioni sviluppate nei social, dove è approdato da tempo lo storytelling delle persone. Post, foto, storie, reels sono utilizzati come strumenti che, oltre a dare forma alla nostra identità, danno via all’impulso di condividere con altri ciò che riteniamo importante.

Amori, delusioni, viaggi, traguardi professionali o di studio fanno ampiamente parte del racconto autobiografico social. Si tratta di narrazioni che somigliano alle “storie di redenzione” di cui parla la psicanalista Marie-Louise von Franz. Fiabe a lieto fine in cui proviamo a raccontarci felici. Le esperienze e gli accadimenti privati sembrano acquisire significato e scopo grazie a quell’intenzionalità insita nel raccontare.

I selfie, i video e le storie diventano, così, degli strumenti narrativi per costruire identità sociali. Consentono di costruire un’immagine da offrire agli altri per soddisfare l’esigenza del riconoscimento di sé. Ogni post o storia è dunque un’autopresentazione in divenire. Fanno parte di quella “illusione biografica” di cui parlava Pierre Bourdieu: 

«È lecito supporre che la narrazione autobiografica sia sempre, almeno in parte, motivata dall’intenzione di dare un senso e una ragione, di scoprire una logica retrospettiva e insieme prospettiva, una consistenza e una costanza, collegando con relazioni intelligibili, come quella fra effetto e causa efficiente, momenti successivi che così si pongono come tappe di uno sviluppo necessario» (Bourdieu 1995: 72). 

2570161917854_0_536_0_75Per il sociologo e antropologo francese la “storia di vita” è un artificio che porta a costruire il concetto di “traiettoria”: una serie di posizioni successive occupate da uno stesso agente in uno spazio in divenire, comprensibile solo all’interno di una “superficie sociale” fatta di stadi successivi. Le bacheche social diventano il luogo privilegiato per scrivere e raccontare la nostra vita organizzata come una storia – come una narrazione – per fornire senso all’esistenza.

Sulla timeline di Facebook o di Instagram si tracciano, pertanto, traiettorie su cui scorrono percorsi di vita che, nella realtà, sono inevitabilmente meno lineari perché post e storie condivisi sono autopresentazioni semplificate ed edulcorate: sono la proiezione di un’aspettativa, una nostra “seconda natura” che entra a far parte della nostra personalità. Così, attraverso le narrazioni, costruiamo una versione di noi stessi da presentare al mondo.

ochs_capps_livingnarrative_1Il condividere storie personali sembra inoltre rispondere a una logica competitiva alimentata dalle stesse piattaforme digitali. Fornire, per primi, informazioni ritenute utili è, infatti, un modo per accreditarsi all’interno di una comunità. Di qui la corsa alla condivisione della notizia last minute, “senza fine”, senza verifica e con il rischio di diffondere fake news. Una competizione spasmodica che spinge gli utenti di Facebook ad anticipare spesso al giorno prima la condivisione di post legati alle ricorrenze e agli anniversari di date simboliche. Pubblicare per primi e dimostrare capacità narrative può conferire, infatti, uno status sociale commisurato al numero di followers e di like. Come spiega l’antropologa Elinor Ochs, la narrazione, intesa come costruzione del significato e risorsa semiotica, è uno strumento universale di socializzazione. Non è solo un fenomeno puramente linguistico e sociale, ma è anche politico perché raccontare è uno strumento di potere. Dinanzi agli eventi di qualsiasi portata ci sono dunque telefoni cellulari sempre pronti a riprendere per riversare online i fatti. Ma gli autori, più che agli “storiografi dell’istante” di cui parlava Umberto Eco, sembrano somigliare a cronisti dell’effimero. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Riferimenti bibliografici 
Anders, G., L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino, 2017
Augé, M., Chi è dunque l’altro?, Raffaello Cortina, Milano 2019
Bauman, Z., Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2007
Bissaca E., Cerulo M., Scarcelli C. M., Giovani e social network. Emozioni, costruzione dell’identità, media digitali, Carocci, Roma, 2021
Bourdieu, P., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995
Bruner, J. S., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino,1992
Bruner, J. S. La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 2002
Codeluppi, V., Mi metto in vetrina, Mimesis, Milano, 2015
De Mauro, T., Introduzione alla semantica, Laterza, Bari, 1965
Denicolai, L., Riflessioni del sé. Esistenza, identità e sociale network, Media Educational, Edizioni Centro Studi Erickson, Roma, 2014
Goffman, E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 2009
Goffman, E., Relazioni in pubblico, Bompiani, Milano, 1981
Ingold, T., Antropologia – Ripensare il mondo, Meltemi, Milano, 2020
Maffesoli, M., L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno, Sossella Editore, Bologna, 2003
Miller, D., Come il mondo ha cambiato i social media, Ledizioni, Milano, 2018
Park, R.E., Race and Culture, Free Press, Glencoe, 1950
Riva, G., I social network, Il Mulino, Bologna, 2010
Rosa, H., Accelerazione e alienazione, Einaudi, Torino, 2015
Turkle, S., Insieme ma soli, Einaudi, Torino, 2019.

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Leandro Salvia, giornalista freelance, cura la comunicazione mediale di progetti del Terzo settore. Ricopre incarichi di docente di Comunicazione nell’ambito della Formazione professionale e del Lifelong Learning. Si interessa inoltre dell’impatto che la fruizione dei media ha sui processi di apprendimento e sulla costruzione identitaria. Dal 2019, con l’associazione Kaleidos Cultura e Natura, organizza laboratori di scrittura giornalistica e uso consapevole e critico dei social media nelle scuole del territorio palermitano. Ha studiato all’università di Palermo, dove ha conseguito la laurea magistrale in Studi storici, antropologici e geografici con una tesi su «Identità mediali, funzioni e narrazioni nell’era dei social media».

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