di Nicolò Atzori
Ritorno al futuro: crisi dei modelli
Un valido esercizio per (ri)pensare i fatti culturali mi sembra quello di rintracciarne i segni e l’eco nel corso della propria vita, tentando a posteriori – anche da specialisti – di situare una personale condizione esistenziale come dato nell’alveo del cambiamento, positivo o negativo si dica, per apprezzare quel che resta. Quanto segue, infatti, è una storia di rimanenze e resistenze, dove anche gli affetti sono una valida unità di misura. Nei miei ricordi, dire industria è un suono lontano, atavico, che, bambino di neanche dieci anni, registravo nelle poche ma misurate parole di mio nonno, classe 1937, fino alla metà degli anni Ottanta operaio metalmeccanico presso la sede di Macchiareddu di quella che chiamava spesso Rumianca [1], come la memoria collettiva dei lavoratori più anziani ricordava quella che divenne EniChem Synthesis S.p.A., risultante da anni di lotte operaie e dislocazioni nel Sud Italia.
Preoccupato di fornirmi quegli ancestrali appigli di metodo per orientarmi nel mondo, seduto sul modesto divano a due posti acquistato con le fatiche della fabbrica, rafforzava o sminuiva le ricostruzioni sul destino industriale dell’Isola propinate dal tiggì di turno, come mio nonno più interessato all’efficacia del messaggio che non alla ricostruzione giornalistica. Come la Rumianca a Macchiareddu, che l’ha anticipato nel 1962, il senso di un imponente polo industriale nella piana di Ottana, delle cui vicende qui ragioniamo, si inserisce nel quadro “morale” della rivitalizzazione della Sardegna in senso socioeconomico e di essenziale “allineamento” al grado di sviluppo nazionale da avviarsi, per il comune nuorese, alla fine del 1970, quando venne attivato un primo reclutamento per l’addestramento professionale dei giovani che sarebbero partiti a Ravenna, Pisticci e Porto Marghera a frequentare i corsi di formazione per diventare operai di EniChem e Metallurgica del Tirso, prime grandi industrie insediatesi ad Ottana nel 1973 [2].
Seguiranno decenni sanguinosi. Con un dossier formulato nell’ambito dell’attuazione del denso decreto ministeriale Misure urgenti per la crescita del Paese, infatti, la Regione Autonoma della Sardegna definisce la base parametrica per il «riconoscimento del Polo Industriale di Ottana quale area di crisi industriale complessa» [3], sancendo nero su bianco la sua definitiva chiusura e il sostanziale fallimento del suo progetto, varato all’interno del Piano di Rinascita dell’isola (l. n° 588 dell’11 giugno 1962) e finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Nato sotto aurei auspici, quelli dichiarati della lotta a spopolamento e banditismo [4] e dei circa 18.700 posti di lavoro previsti per la provincia di Nuoro, il sogno industriale naufragava definitivamente, nell’aprile del 2018, con le ultime lettere di licenziamento, che concludono l’era della chimica in Sardegna; nel caso ottanese nota per la produzione di pet (oltre a fibre tessili e acriliche e polimeri). Per l’isola è nuovamente tempo di ripensamenti; nuovamente, ai sardi si ingiunge di sedere al tavolo dei bilanci impietosi, non di rado affidati a figuri che, il volto contratto in smorfie solidali, simulano un greve ottimismo in grado di attingere visionarie soluzioni da una perenne fonte di ottimismo.
Due quesiti su tutti sembrerebbero doversi imprimere nelle carte degli addetti ai lavori: cosa significa, oggi, dire industria in Sardegna e chi, soprattutto, è rimasto a pagare il conto del fallimento del suo modello particolarmente nell’area di nostro interesse? Per l’ennesima volta, è alla fonte dialettica del rapporto credito-debito che il dibattito pubblico (in questo frangente ancora più sensibile al suddetto schema) attinge per spiegarsi un’isola mai a suo agio nella storia, ora vittima di prevaricazione e di “colonialismo” e ora – sul versante opposto – colpevole di ritardo nel protagonismo sviluppista dei tempi recenti.
D’altra parte, se gli intenti di una prima valutazione del fenomeno possano muovere – per lo specialista che agisca in contesti ovviamente avulsi dal riduzionismo della vulgata – dal precedente eclatante, in certo modo misura o parametro del problema, è altrettanto vero che nel caso sardo si rischia di rimanere impantanati in un vero e proprio groviglio di descrizioni, valutazioni e auspici o promesse disattese e mai effettivamente chiarite.
Possibilità, illusione o abbaglio, comunque si qualifichi la vicenda sembra onestamente riconoscibile come soltanto abbastanza di recente siano montate la lucidità e l’asprezza della critica verso le formazioni industriali interne alle geografie che, come in Sardegna, oggi ci appaiono a forte esigenza tutelativa in chiave patrimoniale e specificamente ambientale. Sebbene, va da sè, fin dapprincipio non siano mancati, a sentire i protagonisti di quella stagione, scetticismi e refrattarietà culturale [5], tanto più se riguardanti la promessa di un mondo migliore de su connottu, delle cose “così come sono” o “come le ha volute Dio”; del mondo, insomma, che si è capaci di abitare senza sforzo adattativo. Ancora più drastiche furono certe posizioni, ad esempio quelle espresse nell’Ortobene [6] del 28 novembre 1977:
«Ottana è già di per sé un errore geografico e sociale. Il grande centro industriale è stato costruito per tagliare le gambe al banditismo, ma la crisi scoppiata si ripercuote in termini di umanità sulla popolazione. Quelle migliaia di operai licenziati o posti in cassa integrazione sono per la maggior parte ex piccoli contadini o ex pastori che attirati da un salario sicuro, hanno abbandonato le loro povere terre o venduto le greggi».
Oggi, è chiaro che la soluzione industriale non rispetta i crismi del beneficio né è accompagnata, nelle comunità o fra i decisori pubblici, da aprioristici entusiasmi; perlomeno non manifestamente, visto che è noto che la dialettica della convenienza è un familiare giaciglio della procedura politica. Il mantra della decostruzione, oggi declinato in più gradi di consapevolezza e applicato a più livelli di organizzazione antropica (tesi ad abbracciare l’intero spettro delle possibilità umane di erosione delle risorse), ha introdotto alla retorica della crisi dei classici modelli di crescita, che se è intrinsecamente crisi culturale nella pervasività delle sue applicazioni, ha per questo visto squarciarsi il velo di quel diritto allo sviluppo che ha fatto irruzione nel Novecento e che è stato a mio avviso puntualmente affrontato – per la Sardegna interna – da Fabio Parascandolo e Irene Meloni nel contributo a cui rimando [7].
Quanto appare dopo decenni di flussi demografici unidirezionali lungo la direttrice paese – fabbrica, invece, è nel caso ottanese una emorragia anche simbolicamente di ritorno, dal complesso industriale al centro urbano e comunitario, in cui ri-scoprire occasioni di permanenza e lavoro, come si avrà modo di vedere più avanti; quanto rimane è un palinsesto territoriale estremamente articolato e delicato, in cui scenari etologici, insediativi e produttivi richiedono competenze specialistiche di ogni tipo da destinarsi all’analisi approfondita di dinamiche dalle ricadute sociali sempre più articolate.
Come posizionare, allora, l’antropologia socio-culturale davanti alla portata di simili fatti culturali? In primo luogo, invitandola a volgersi indietro e, sulla scorta delle sue più efficaci e pertinenti formulazioni, cercare di ancorare una fenomenologia alla duplice direttrice storico-etnografica.
Note antropologiche fra tradizione scientifica e attualità
La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo? [8].
Il senso della lacerazione scopre un’alcova familiare nelle parole di De Martino, qui intervistato da Cesare Cases nel 1963 [9], col quale dialoga sui punti cardinali della sua ricerca, robustamente imperniata sulle figure della fine del mondo, della crisi della presenza – su cui tornerò – e dell’ethos del trascendimento, manifesti del creare valore nelle decostruzioni culturali o, per meglio dire, nelle crisi strutturali dei quadri di vita umani e profondamente simbolici; nonostante, dunque, accadimenti capaci di minare le fondamenta di visioni del (proprio) mondo consolidate e orientative nel corso delle generazioni.
L’organicità delle fratture descritte, quindi l’aderenza plastica di meccanismi di smobilitazione dei caratteri strutturali contingenti di un contesto al suo corso socioeconomico, sembrano aggrapparsi prepotentemente al concetto di apocalisse culturale, introdotto proprio da De Martino e attraverso il quale è più facile acclimatarsi antropologicamente al tema del divario tra modernità postindustriale e quella ruralità meridionale così bene decantata e acclamata da Pasolini, sebbene troppo spesso idealisticamente assurta a modello di Eden perduto; riguardo al rapporto tra apocalissi culturali, crisi della presenza ed economie postmoderne, rimando alla bella riflessione di Annalisa Di Nuzzo comparsa proprio su Dialoghi Mediterranei, dove l’antropologa – dispiegantesi la fenomenologia pandemica – nota come la «società occidentale ha interiorizzato un cattivo ritorno del passato e un prepotente paradigma del progresso come incondizionato sviluppo verso il bene» [10]. Com’è stato riconosciuto, anche in Sardegna la rarefazione delle strutture rurali ha sgombrato il campo alle possibilità del capitale e alla feroce emigrazione che ne è conseguita, nel caso ottanese interrotta verso lo Stivale e risoltasi verso le nuove fabbriche, in stretta osservanza di quello «scivolamento a valle» notato da Rossano Pazzagli [11]. Il dato, infatti, è che l’industria strappò alla terra centinaia se non migliaia di lavoratori maschi, catalizzando una crisi del mondo contadino minato nelle sue fondamenta operazionali in un sistema in cui ancora tenacemente una
«cultura è [...] definita dagli strumenti del comunicare e del produrre (assunti come omologhi); dai rapporti esistenti tra le sue fonti normative (produttive e educative) e perciò dal modo in cui gli strumenti sono distribuiti; dai codici, ovvero dalle regole con cui gli strumenti vengono usati; e infine dai messaggi più frequenti e cioè dall’uso concreto che le fonti normative fanno sia degli strumenti sia dei codici (del potere di cui dispongono)»,
come già osservato da Michelangelo Pira nell’apertura di La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, fra le opere fondamentali e quasi iconiche in materia, se vogliamo, di critica dell’incontro fra modelli culturali nell’isola.
Appare quindi necessario spingersi Dopo il futuro (2021), dopo quel tipo di futuro, come insegna il bellissimo documentario [12] del regista Antonio Sanna che, attraverso le preziose testimonianze dei protagonisti di questo delicato frangente, rimette insieme i cocci sociali di quel che resta, per riprendere Vito Teti [13], per restituire un quadro etnografico di assoluto valore documentario soprattutto per la sua attenzione verso le implicazioni sanitarie e ambientali. Espressioni come «oggi si vive male perché non c’è prospettiva», condivise all’interno dell’opera, che fa seguito a Senza passare dal VIA (2016) [14], si giocano sul lacerante dualismo rassegnazione-cambiamento, accompagnando il riscatto dei comuni della Media Valle del Tirso, orfani di un ingombrante bacino d’impiego. Nelle loro esitazioni e nei silenzi pensati dal regista, arricchiti dai suoni sordi del quotidiano, sembra costituirsi un paese nuovamente embrionale; un organismo che, schiusosi il guscio dell’ubriacatura dei Settanta, deve adesso fare i conti con le aspettative del cambiamento profondo, con la costruzione di un nuovo futuro, non necessariamente inedito. Così la lezione di Pietro Clemente sul valore dell’antropologia culturale:
«È utile ripensare anche alla storia dello sviluppo, che in genere abbiamo visto in modo deterministico, come l’inevitabile prevalere della modernità, dell’edilizia moderna, della socialità urbana. Oggi si può immaginare quante occasioni di nuovo radicamento e di lavoro ci sarebbero state se non fossero tutti fuggiti da montagne e colline impervie. E quanto meno sarebbe stato squilibrato il territorio. Comunque, almeno da 30 anni c’è una nuova attenzione verso le zone interne. La cultura passata è una risorsa per riabitare l’Italia, ma va reinventata e adeguata alle esigenze di oggi» [15].
Non mi sembra un abbaglio scorgere, nell’insegnamento di Clemente, lo sfondo attitudinale di quell’ethos del trascendimento che nei contesti di mutilazione culturale già precedentemente evocati manifesta la sua disposizione silente non già, semplicemente, verso l’accettazione del rischio dell’ignoto, ma nei riguardi di un’etica della serendipità e della resilienza, condizioni per perseguire quella rivolta auspicata da Michelangelo Pira.
Sostiamo ancora sul piano dell’antropologia culturale. Se l’assiduità del dibattito intorno ai rapporti tra culture egemoniche e culture subalterne nella tradizione disciplinare non è in discussione, non sarà banale ribadire il carico di ambiguità che, per gli stessi antropologi, hanno per lungo tempo rappresentato i contesti operai, come già notato a più riprese – fra gli altri – da Fabio Dei:
«Le condizioni di lavoro e di vita degli operai sembrano molto meno adatte a confluire in un concetto antropologico di cultura. Si tratta di condizioni di vita disperse, con l’assenza di una vera e propria comunità, nello stesso senso in cui si può parlare di comunità o di mondo contadino. Per gli operai, non si danno di solito tradizioni tramandate nel tempo, di generazione in generazione; i tratti culturali che li caratterizzano non hanno alcuna nobiltà legata ai tempi antichi, alle profondità della storia, ed hanno semmai il carattere effimero e inautentico delle cose moderne […] Ma soprattutto, il problema è questo: se si possono riscontrare caratteristiche ricorrenti e distintive della cultura operaia, queste sono quasi sempre parte della cultura di massa» [16].
Secondo Dei, l’aleatorietà di simili esperienze esistenziali – e primariamente professionali – in rapporto all’attenzione antropologica e, come vediamo, politica, può in parte ricondursi al fatto che la «coscienza di classe» operaia sia a tratti «un riferimento ideale (quasi mistico, talvolta), un punto di riferimento per le critiche alla società industriale e capitalistica» e che, soprattutto, «i gruppi sociali che concretamente si trovano a rivestire il ruolo operaio sono troppo vicini e compromessi con la modernità industriale per risultare interessanti», ovvero manifestazioni «di una cultura popolare o di una forma di vita peculiare e distintiva, e comunque degna di essere documentata etnograficamente» (ibid.: 133 e ss.), nota l’antropologo rimarcando la mancanza di forme di “arcaicità” e “separatezza” rispetto al mondo moderno che definivano, ad esempio, la cultura contadina e, più diffusamente nel centro della Sardegna, quella agricolo-pastorale.
Si può notare come le vicende che hanno coinvolto il comune nuorese – come altri ad esso limitrofi – a partire dal 1973 condensino, in certo modo, tanti dei caratteri essenziali del dibattito intorno alle questioni sarde, la cui problematica storicità ha riconosciuto uno schema interpretativo privilegiato nel divario tra centro dell’isola, dove sorge Ottana [17], e il resto di una regione che nella vulgata si fa ora vittima ed ora colpevole di minore adesione ai precetti di una “vera sardità” generalmente individuata in più articolate grammatiche di scambio e costruzione rituale e più dense simbologie riconosciute ai territori barbaricini [18]; aspetti forse deterministicamente corroborati, nell’inclinazione prefigurativa sarda, dall’arroccamento delle Barbagie nel cuore della Sardegna montuosa, nell’immaginario collettivo avulsa da tempo immemore dalle dinamiche socioeconomiche “mainstream”.
D’altra parte, il ripensamento e la rigenerazione degli spazi industriali dismessi [19] immettono prepotentemente nel dibattito in materia ecologica e nella più ampia cornice scientifica degli studi e delle riflessioni intorno al destino dell’antropocene e quindi verso una rinnovata sensibilità socio-ecologica. Sintetizzando, potremmo dire che
«l’Antropocene rappresenta una nuova periodizzazione caratterizzata dalla trasformazione del sistema terrestre nella sua complessità a causa dell’insieme delle attività umane connesse al decollo dell’industrializzazione, all’uso di fonti di energia fossile, alla crescita accelerata della popolazione, ecc. Non si parla, insomma, dell’influenza che la specie umana ha portato in vari ecosistemi, in diverse epoche storiche e secondo forme di organizzazione economica e tecnologica della produzione a partire dal Neolitico» [20],
scrive Franco Lai. L’antropologo cagliaritano, autore del bel volume Antropocene. Per un’antropologia dei mutamenti socioambientali (2020) [21], si sofferma sull’importanza del concetto come chiave interpretativa in forza alle scienze sociali e, in particolar modo, all’antropologia socio-culturale, esplorando – alla luce di un imponente apparato teorico e di una ricerca condotta presso la zona umida a sud-ovest di Cagliari – gli articolati legami moderni tra crescita e sostenibilità. A detta di chi scrive, nelle pagine di Lai emerge come la mutata statura della specie umana, ora decodificata in quanto forza geologica da semplice agente biologico che rappresentava (vi: 13 e ss.) [22], guadagni all’antropologia un ruolo – ancorché oneroso – indubbiamente più efficace nello studio dei territori, a patto che la stessa si dimostri in grado di coordinare quello sforzo di armonizzazione dei dati della ricerca nel campo delle scienze naturali con quelli delle scienze sociali, così dando conto del delicato equilibrio tra fattori che configura sempre più complesse ermeneutiche territoriali.
Nell’ambito di un “processo” alle rimanenze industriali e in linea con le esigenze analitico-descrittive che qui si manifestano, non sarà banale segnalare l’appello di chi, specialista in tal caso, già si impegna per far valere le ragioni della più spinosa delle cause, quella sanitaria già affrontata a suo tempo per l’inquinamento degli stabilimenti di Ottana [23] e recentemente ribadita dall’Associazione dei Medici per l’Ambiente ISDE Sardegna riunita a Nuoro nello scorso gennaio [24].
Le trame della riqualificazione che si rende necessaria, insomma, giocano le loro partite su più campi, nei quali le comunità sono nuovamente al centro del territorio in tutte le possibilità di intervento sociale e tutela spaziale ch’esso offre, a patto che non si abbandoni quella tensione all’investimento sostenibilmente locale [25] che potrebbe oggi orientare gli sforzi collettivi di tante micro-realtà chiamate a riancorare sé stesse al corso della storia.
Solo a partire da solide basi conoscitive e olistiche, all’incrocio efficace di più inquadramenti disciplinari, è possibile qualsiasi discorso orientato verso la lettura e soprattutto la sollecitazione di nuovi processi di ri-produzione simbolica nella direzione di tendenze che vanno consolidandosi – soprattutto in senso ecologico – nella storia recente dei sardi.
La Sardegna ai sardi: il patto della presenza
«Gigi Riva era sardo. E di quel pubblico divenne il vendicatore» [26], titola un noto quotidiano italiano all’indomani della scomparsa di Rombo di Tuono, come il grande Gianni Brera volle soprannominare, per via dei suoi formidabili colpi calcistici, un autentico mito vivente, ormai cristallizzato nel senso comune dei sardi. Così, a 79 anni terreni diventa ricordo anche Gigirriva, come gli isolani, tutto d’un fiato, acclamavano e nominano – nella pratica brevità del suo nome – chi campione lo è stato e adesso, appesi gli scarpini, lo era nell’esempio dell’esser-ci, nella volontà di ribadire il bisogno di appartenere ad una terra. Lo era perché, scegliendo per sempre la Sardegna, a cui con la bellezza del suo calcio consegnò l’agognato scudetto del 1970 “contro le grandi”, diveniva l’incarnazione di quel senso del riscatto che informa le pagine del Pira, manifesto della rivalsa verso quelle culture altre, aggressive e massificanti di cui l’antropologo di Bitti cercò di favorire l’intelligibilità.
Investito dai sardi della dignità del Sardus Pater, Gigi Riva è soprattutto un marcatore temporale, terminus post quem di una nuova trama cosmogonica nella quale una Sardegna ormai moderna, vittoriosa, del possibile e del disponibile grazie al suo impegno di vita, competizione e massimizzazione idealistica, ri-simbolizza sé stessa nell’appartenenza a quel mondo in evidenza storica dal quale sembrava soltanto lambita per essere relegata ad una pittoresca subalternità. La migliore lezione di Riva, mito vivente nell’immaginario comune (ma chi decreta la morte dei miti?), nella dedizione e in quell’ethos del trascendimento caro a De Martino, sembra allora il senso della presenza, l’esser-ci senza condizioni, credendoci e basta, a patto del coraggio di voler appartenere ad uno spazio culturalmente intercondiviso in cui collettivamente e reciprocamente tracciare i confini del fare e del dire possibili, per attivare quella costante sintesi di significato implicato solo dall’abitare nel più totalizzante senso del termine.
La dismissione-cancellazione delle funzioni numericamente vitali di un territorio obbliga, come nel caso di Ottana, ad un ripensamento della sua agency, in cui scovare nuovi modi di produzione, uso sostenibile dei suoli e associazione contro quella paura del vuoto che ho scoperto a mio vantaggio significhi anche inventare qualcosa, avendo il coraggio di proporla con insistenza per farsi ascoltare, soprattutto in giovane età. All’indomani della definitiva scomparsa dell’industria, insomma, urge riattivare le doti localmente particolari di quel radicamento organico che è la presenza, giustificando la fuga dal contesto industriale nell’innesco di nuove filiere produttive anche micro-artigianali e di decise scelte di futuro; ciò che Giorgio, caro amico di Bolotana intervistato per l’occasione, mi racconta con lucido entusiasmo stiano facendo tanti suoi compaesani, pure fiaccati dal venir meno della soluzione operaia, e verso cui la stessa Ottana sembra tendere [27]. Impossibile, poi, non pensare alle occasioni della riqualificazione del sito (da compiersi), dove le ragioni sanitarie prima espresse possano contestualmente affiancarsi a quelle della valorizzazione nell’ambito dell’archeologia industriale, la cui progettualità – nel concerto tra associazioni locali e istituzioni scientifiche – possa prevedere percorsi di educazione ambientale e fruizione escursionistica del territorio, momenti didattici e quant’altro di carattere formativo o ricreativo possa generare un indotto.
Sempre più frequentemente, infatti, è possibile rendersi conto, soprattutto in Sardegna, dell’entità del patrimonio culturale in quanto dimensione umana di costruzione tecnico-rituale ed essenzialmente simbolica – ancorché “istituzionalmente” formalizzata – già decisa e fruita in chiave implicita e orientativa dalle comunità che continuano a rivolgersi ai momenti divenuti patrimonio per reinserirsi sui binari della propria storicità identitaria [28]; come accadde, ad esempio, durante la gestione pandemica, quando tanti paesi della Sardegna come il mio, Sardara, attinsero alla potenza semantica della tradizione – inesauribile fonte di saperi, pratiche e attitudini efficaci – per produrre nuove forme di riaffezione collettiva a un senso del mondo [29]. A tal proposito, la tradizione carnevalesca ottanese, con le sue specificità, è un piano di confronto, rivitalizzazione e costruzione di inedite forme della vita comunitaria da valutare attentamente per produrre nuova socialità positiva.
Nel dibattito pubblico, la Sardegna è una terra dannata, condannata a sperare fino alla fine dei suoi giorni; condannata ad inventarsi la grandezza irripetibile dei suoi riferimenti culturali perché una mitologia potesse forgiarne un’identità [30], finalmente proiettata nel cielo da un Rombo di Tuono; eppure, qualcosa si muove incessantemente laddove si riscopre il senso di essere presenti, come lo fu Gigi Riva. Si spera, pertanto, che un coraggioso trasformismo purificatore di Ottana possa un giorno assumere un valore simbolico di pari rilievo.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Sulla breve storia della “Rumianca” ed il perché del suo nome: https://www.museotorino.it/ view/s/ 5c464d6b9a5f43d09dc174bae56b51 4e
[2] Qui le tappe essenziali dell’insediamento industriale ad Ottana: https://www.dire.it/15-05- 2018/202412-ottana- dallillusione-industriale- allincubo-desertificazione/
[3] https://www.regione.sardegna.it/documenti/1_73_20180426172604.pdf
[4]https://www.dire.it/15-05-2018/202412-ottana-dallillusione-industriale-allincubo-desertificazione/. Riguardo al tema del banditismo, si consiglia la lettura di A. Pigliaru, Fondamenti etici e motivi storici del banditismo sardo al 1968, in I problemi di Ulisse. Il banditismo in Italia, XXII, 4/1969; E. J. Hobsbawm, I banditi, il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1972.
[5] https://www.youtube.com/watch?v=QXA0_auKhoY
[6] L’Ortobene è il settimanale della diocesi di Nuoro fondato nel 1926. Oggi in versione digitale, si trova qui: https://www.ortobene.net/
[7] Parascandolo F., Meloni I., Dalla terra alla fabbrica e ritorno. Esperimenti di attivazione delle risorse ambientali della Sardegna interna, tra irruzione della modernità e pratiche collaborative in Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali, n°13/2017: 59-83
[8] De Martino E., Massenzio M. (a cura di), La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 2019: IX-X.
[9] L’intervista risale esattamente al marzo del 1963, quando Cesare Cases andrò a trovare Ernesto De Martino appena due mesi prima della sua morte per cancro, avvenuta a maggio in una clinica romana.
[10] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/ripensare-alle-apocalissi-culturali-tra-crisi-della-presenza-ed-egemonie-post-globali/
[11] Cfr. Pazzagli R., Un Paese scivolato a valle. Il patrimonio territoriale delle aree interne italiane tra deriva e rinascita, in Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, a cura di M. Marchetti, S. Panunzi, R. Pazzagli, Rubettino, Soveria Mannelli, 2017: 17-25
[12]https://www.dopoilfuturo.net/progetto
[13] Cfr. Teti V., Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni, Roma, Donzelli, 2017
[14] Il film è stato anche adottato come strumento didattico dal Dipartimento di Studi Sociali della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari
[15]http://www.rivista-abruzzese.it/pietro-clemente-il-valore-dellantropologia-culturale/
[16] Dei F., Antropologia e culture operaie: un incontro mancato in Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali. Il Novecento italiano, a cura di P. Causarano, Luigi Falossi e Paolo Giovannini, Roma, EdiEsse, 2008: 136
[17] https://maps.app.goo.gl/NfpRF8HUkr4BWvNa9
[18] Bisogna precisare come Ottana non si trovi esattamente nel cuore della Sardegna barbaricina, ma anzi sul versante occidentale delle alture facenti parte della Barbagia di Ollolai, già in un’ampia piana della valle del fiume Tirso dalle particolari caratteristiche fisiche e climatiche.
[19] Si consiglia la lettura di Sposito C., Sul recupero delle aree industriali dismesse. Tecnologie, materiali, impianti ecosostenibili e innovativi, Maggioli Editore, Segrate, 2012, disponibile al download gratuito qui: file:///C:/Users/nicol/Downloads/SPOSITO+C_aree+industriali+dismesse+2012.pdf
[20]Lai F., L’Antropocene e il problema dei mutamenti socio-ambientali nelle scienze sociali contemporanee in Palaver 9 (2020), n. 1: 8
[21] Lai F., Antropocene. Per un’antropologia dei mutamenti socioambientali, Firenze, Editpress, 2020
[22] Riguardo alle problematiche sulla periodizzazione dell’Antropocene si rimanda nuovamente al testo di Lai, e particolarmente al capitolo L’Antropocene e i mutamenti sociali e ambientali (ivi: 11-35)
[23]https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2017/06/09/amianto-ottana-riconosciuta-malattia_14e87e13-64e9-4322-be20-e331de986172.html
[24]https://www.isdenews.it/ottana-incontro-dibattito-a-nuoro-venerdi-12-gennaio/
[25]https://www.ilsole24ore.com/art/il-rilancio-polo-ottana-passa-l-energia-AE3gQS8B?refresh_ce=1
[26]https://www.ultimouomo.com/mitologia-sarda-gigi-riva-storia-rapporto-sardegna/
[27] https://www.lanuovasardegna.it/nuoro/cronaca/2018/05/15/news/ottana-dopo-le-fabbriche-la-nuova-speranza-e-l-olio-1.16841226
[28] Cfr. Bravo G., La complessità della tradizione. Festa, museo e ricerca antropologica, Franco Angeli Ed., Milano, 2005.
[29] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/etnologia-del-vino-fra-rito-e-materialita-sguardi-sul-campidano/
[30] Cfr. Cirese A. M., All’isola dei sardi, Nuoro, Il Maestrale, 2006: 35 e ss.
______________________________________________________________
Nicolò Atzori, è un dottorando di ricerca in antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Sassari e una guida museale e didattica (CoopCulture) attiva a Sardara, paese del Campidano centrale. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’antropologia del patrimonio – con particolare riferimento all’antropologia museale – all’antropologia digitale, ma non manca di una prospettiva d’indagine incentrata sul paesaggio e sulle tradizioni popolari. Formatosi, fra le altre cose, nell’ambito delle digital humanities, tenta di coniugarne l’approccio a quello della ricerca etnografica ed etnologica in senso classico, secondo l’orientamento dell’antropologica storica.primo caso, gli aspetti museografici. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.
______________________________________________________________