di Giovanni Columbu
Dopo circa mezzo secolo le ragioni che giustificarono la creazione di una industria petrolchimica al centro della Sardegna appaiono ai miei occhi ancora imperniate su un’idea di evoluzione e progresso che solo un evento concepito altrove e con un carattere fortemente traumatico avrebbe potuto rendere possibile. Eppure prima ancora di scaturire da visioni, propositi e possibili interessi esterni quell’idea trovava riscontro in un convincimento presente e credo diffuso nella stessa classe intellettuale e politica locale.
Ogni fattore proprio e peculiare della Sardegna secondo quel sentire avrebbe costituito un ostacolo all’integrazione col mondo esterno e quindi ad uno sviluppo che si immaginava dovesse tendenzialmente attuarsi conformandosi a modelli esistenti altrove.
La Sardegna e in particolare le zone interne dell’Isola non sarebbero state in grado di evolversi e approdare a condizioni di benessere se non rimuovendo o mettendo definitivamente in sordina tutto ciò che da sempre le connotava e le costringeva nel confine di un’economia prevalentemente rurale, di una cultura, di una lingua e di tradizioni proprie. Ecco dunque la forte disposizione ad accogliere e sperimentare l’evasione da sé stessi e da quel che era stato fino a quel momento il proprio mondo. Affrontare una transizione che comportava un abbandono e in un certo senso una fine per potersi riconoscere nell’orizzonte di una più vasta società umana della quale poter finalmente condividerne il bene e perfino il male.
Il mondo di cui si parla era davvero povero e per diversi tratti ancora arcaico, certamente bisognoso di essenziali riforme e forse non così facile da amare. Basti dire che la gran parte delle aziende pastorali erano prive d’acqua e di luce, che il fuoco si faceva ancora per terra al centro di ambienti di lavoro con le pareti sia pure molto suggestivamente rese del tutto nere dal fumo. E diverse lavorazioni primarie come quelle del pane e del formaggio seguivano procedure simili a quelle di mille anni prima. In quel contesto i pastori dovevano anche fare i conti con l’abigeato che li obbligava a uno speciale impegno di vigilanza. Era normale infatti che fossero armati. Infine vi erano i sequestri di persona, un fenomeno oltremodo deprecabile che aveva assunto un giustificato clamore nella stampa nazionale.
Proprio questo crimine, il sequestro di persona, aveva dato luogo all’istituzione nel Parlamento Italiano di una specifica commissione d’inchiesta da cui era scaturita la Relazione Medici che ne esponeva gli esiti e riconosceva che per quanto ingiustificabili quei fenomeni erano in parte dovuti a una diffusa e grave condizione di povertà. Ma neppure a seguito di questa conclusione si ritenne di adottare come primario obiettivo la creazione dei servizi essenziali di cui le aziende avevano bisogno. Si ritenne piuttosto di promuovere il drastico ridimensionamento di quelle aziende per favorire il più rapido sopravvenire di quella che si riteneva fosse la vera soluzione in grado di condurre le zone interne della Sardegna alla nuova economia e cultura industriale.
Lo slogan del governo regionale che accompagnò la preliminare azione comunicativa volta a sensibilizzare i cittadini all’imminente lotta contro la duplice emergenza, della povertà e del crimine, era “Spezzare il cerchio del ballo tondo”. Si trattava dello stesso ballo circolare descritto nell’Odissea nel capitolo in cui Omero racconta di Ulisse ospite alla corte di Alcino nel corso del suo avventuroso e sofferto viaggio di ritorno a Itaca. Evidentemente si riteneva che in quel rito che affondava le radici nella notte dei tempi e che in Sardegna era ancora vivo così da permettere alle comunità di ritrovarsi e sentirsi accomunate senza dover ricorrere alle parole, solo tenendosi per mano e idealmente elevandosi verso una dimensione trascendente, vi fosse qualcosa che riportava al passato, che induceva ad un’ulteriore chiusura quelle comunità che avrebbero invece dovuto distaccarsi dai propri valori e dalle proprie tradizioni per aprirsi alla modernità. Ecco perché spezzare quel cerchio.
Già dagli esordi l’ombra della responsabilità del mancato sviluppo si proiettava inquietante sulle comunità locali quasi che di quello stato di povertà e sofferenza fossero colpevoli. Quell’ombra fu presto tradotta in rigorose formule scientifiche grazie all’apporto dei sociologhi e dei criminologi che indagarono con i loro strumenti disciplinari nel campo del sostrato genetico dell’individuo e dei fattori comportamentali. Gli indici di criminalità furono correlati all’isolamento demografico e geografico dei sardi, con particolare riferimento all’endogamia e alla psicopatologia. Risultò che in generale in Sardegna la geografia delle attività agro-pastorali coincideva con quella della criminalità e che proprio le popolazioni delle zone interne erano le più vocate alla criminalità. Ma la relazione tra questi fattori non sarebbe dipesa propriamente da una coincidenza quanto da una sequenza di fattori inesorabilmente concatenati.
L’isolamento favoriva l’endogamia. L’endogamia dava luogo alla psicopatia. E la psicopatia induceva la criminalità. Ecco dipanato il problema. Non si trattava di fenomeni che si potessero ascrivere alla devianza. Non erano eccezioni a una norma comparabili a quanto fuori dalla norma accade in ogni altro tipo di società e di cultura. Quei fenomeni così diagnosticati e concatenati risultavano purtroppo essere strutturali, organici e conseguenti alla diffusa condizione di isolamento che connotava in modo esteso quel mondo, quella specifica società, economia e organizzazione del lavoro.
Stando a questa rappresentazione è evidente che non si sarebbe trattato di produrre episodici miglioramenti e né più o meno sovrastrutturali riforme dato che era quella società, nel suo insieme e per via del suo proprio grado di isolamento, il primario soggetto da cui discendevano i delitti. Ecco perché per recuperare quel territorio al benessere e al consorzio civile occorreva una drastica discontinuità che permettesse di cambiare quel mondo alle fondamenta.
Due società specializzate in indagini demoscopiche, l’Isvet e la Tecneco, facenti capo all’Eni, furono incaricate di svolgere una serie di censimenti “socio-culturali” volti a esplorare le possibili resistenze delle popolazioni all’insediamento dell’industria. In particolare fu sondata la disponibilità dei giovani e dei “leaders” locali a svolgere un ruolo trainante in quello che sarebbe dovuto essere il cammino verso la nuova cultura, non più umanistica, storica o letteraria, ma “tecnica”, su cui si fondava l’industria.
Questi giovani e leaders avrebbero dovuto farsi “mediatori”, “controllori” e “manipolatori” dei processi di cambiamento. Una via forse ancora sperimentale di quella ormai risaputa e collaudata modalità di intervento in contesti sociali critici idonea a favorire i processi di consenso ai cambiamenti radicali, non solo operando dall’alto, tramite le figure istituzionali, ma anche dal basso, tramite la mobilitazione di tutti i soggetti in grado di influenzare le opinioni dei cittadini.
L’indagine diede luogo a esiti che avevano l’aria di essere largamente precostituiti o tali da produrre solo la conferma di un paradigma generale che declinava i disvalori attribuiti alla “società tradizionale” in contrapposizione a quelli attribuiti alla “società moderna”. Il contrasto fra tradizione e modernità era al contempo tra sviluppo e arretratezza, ma anche e soprattutto tra due civiltà, tra due culture e due modi di vivere.
Su contrapposte colonne figuravano i valori facenti capo ai due universi, quelli palesemente negativi attribuiti alla tradizione e quelli altrettanto palesemente positivi attribuiti all’industria. Da una parte la staticità, la chiusura, l’irrazionalità, la ripetitività, la resistenza al cambiamento, l’esposizione al pregiudizio e alla superstizione. Dall’altra, dalla parte della modernità e della nuova “cultura tecnica” che l’industria avrebbe infuso, il dinamismo, l’apertura, la propensione all’innovazione, la ricerca, la razionalità, il benessere, la libertà di scelta, l’efficacia e l’efficienza.
Con ulteriori argomentazioni tra le ragioni del carattere oppressivo della società tradizionale veniva poi indicata la famiglia responsabile e colpevole di sostituirsi allo Stato svolgendo compiti “nutritivi, educativi, difensivi e punitivi”. Proprio come nelle favole di Esopo anche in quel frangente la ragione soccombeva e poco importava se quella primaria e naturale cellula di coesione sociale preesisteva allo Stato e trovava ulteriori ragioni per sussistere con quelle funzioni anche a causa della latitanza dello Stato. Il culto che veniva riconosciuto alla famiglia secondo l’Isvet avrebbe legittimato il suo potere disciplinatorio in ogni attività produttiva, individuale e affettiva. Ogni comportamento dei singoli avrebbe trovato in quella istanza il censore. I rapporti tra i membri che la componevano si sarebbero definiti in termini di sovra-ordinazione e sub-ordinazione. Condizioni a volte sfruttabili con qualche vantaggio ma in genere subite e mai rifiutabili.
Per contro nella società che sarebbe sopravvenuta l’individuo avrebbe “recitato” il gioco delle parti «cambiando volta a volta il teatro in cui rappresentarsi: in fabbrica facendo l’operaio, nel circolo bocciofilo lo sportivo, nell’associazione di partito l’homo politicus». I nuovi rapporti sarebbero stati «impersonali e di tipo contrattuale», poiché «il bisogno di ricchezza e il bisogno connesso al consumo, sospinge verso il rischio calcolato, verso l’imprenditorialità. E la valutazione del rischio richiede freddezza, razionalità e talvolta spregiudicatezza».
Le due relazioni Isvet e Tecneco, nonostante le categoriche premesse, avanzavano nelle loro conclusioni dei dubbi circa le probabilità di successo del piano considerate le forzate e rilevanti diseconomie di locazione dovute a una scelta che subordinava eccessivamente le ragioni economiche a quelle sociali e culturali. Ma era tardi ormai per i dubbi.
Il momento in cui dare il via operativo all’impianto degli stabilimenti giunse inesorabile adottando come sito il centro della piana di Ottana. In questa scelta nessuno forse si rese conto che proprio in quel punto si trovavano grandi circoli funerari nuragici delimitati da pietre infisse nel terreno in cui i pastori non pascolavano perché consideravano sacri quei circoli.
Dopo circa tre anni quegli stabilimenti erano già in crisi. Seguirono diversi rifinanziamenti degli impianti e contemporaneamente progressive riduzioni del personale, sia interno che esterno, sebbene fossero state fatte previsioni grandiose di crescita nel cosiddetto indotto occupazionale. Tra il personale esterno persero il lavoro anche gli ex pastori che, smentendo i pregiudizi attribuiti alla società tradizionale da cui provenivano, si erano rimessi con fiducia a quel progetto, avevano venduto il proprio gregge e si erano comprati un camion per intraprendere una nuova vita al servizio dell’industria.
L’industria fallì ma lascio tracce considerevoli e piuttosto durature. La dismissione delle attività rurali proseguì riflettendosi sulle tipologie abitative che non avevano più ragione di contemplare le funzioni domestiche che in precedenza supportavano l’attività delle campagne. In generale le case divennero più grandi, forse più comode, ma brutte. E più che una diversità o una distanza, perdendo le connotazioni dell’appartenenza a un villaggio, attestavano il loro essere estrema periferia dei centri urbani. La continuità dei materiali costruttivi e delle tipologie abitative che in passato avevano comportato un effetto di coerenza del paesaggio abitativo, lasciarono il campo a un’azione edificatoria improntata a criteri dedotti da un devastante fraintendimento della modernità. Distinguersi, innovare, fare ognuno qualcosa di vistoso e diverso concorrendo involontariamente al degrado generale.
Negli interni, anche quelli delle abitazioni più modeste, come un simbolico omaggio alla modernità c’era sempre una stanza riservata al salotto buono. Una stanza generalmente fredda e poco ospitale, con arredi permanentemente avvolti nel cellofan. I paesi si trasformarono rapidamente lasciando solo isolate testimonianze di quello che erano. Ma soprattutto cessarono di costituire un sistema urbanistico funzionale di presidi aderenti alle attività agro-pastorali prima diffuse su quasi tutto il territorio e ora prevalentemente dismesse.
Fu attorno alla metà degli anni Ottanta che in modo difficilmente prevedibile i valori anti-identitari furono in un breve lasso investiti da un impetuoso e diffuso ripensamento. Improvvisamente quei valori apparvero da attribuire a un grave errore a cui occorreva porre rimedio cedendo il passo a un sistema di valori opposti. L’identità tornò in voga. Ogni nuovo progetto si qualificava per il suo far rivivere le cose di un tempo, “su connottu”, quello che era già stato conosciuto in un certo modo. Valorizzare le tradizioni e i costumi, ripristinare la smarrita relazione col territorio o altri aspetti del mondo trascorso.
Ma si trattò di un cambiamento che non fu mai storicizzato né rilevato troppo chiaramente. Non si è mai saputo bene neppure quando abbia cominciato a verificarsi. Credo che oggi si possa certamente ritenere che fu un bene fare pace con sé stessi e scoprire che ritrovando le proprie radici si aprivano le porte a una minore perifericità e a nuove possibili relazioni col mondo esterno. Sebbene debba essere rilevato che nel perseguire il nuovo indirizzo subentrò anche un nuovo fenomeno tutt’altro che positivo. Il fenomeno dello snaturamento.
Al posto dell’asfalto subentrarono finti acciottolati. Sui muri si diffuse la moda delle finte sbrecciature. I lampioni industriali furono sostituiti da lampioncini di tipo viennese. Ogni tratto identitario veniva rivisitato, rimesso a nuovo e promosso per essere trasformato in qualcosa da esibire con orgoglio. Generalmente in funzione turistica. Con la conseguenza che oggi è raro che qualcuno canti o balli per se stesso, che prenda parte a un rito religioso per soddisfare una propria esigenza e che le feste o altre ricorrenze siano celebrate per soddisfare il bisogno e il piacere di chi vi prende parte. Un piacere sussiste ma è generalmente indiretto. È quello di suscitare curiosità in coloro che assistono. Tutto è volto all’esibizione. Anche i riti il più delle volte si recitano in funzione del pubblico. In definitiva persino il nostro essere abitanti di quest’Isola nota da sempre per la propria irriducibile ruvidità e autenticità rischia oggi di trasformarsi in una recita.
Concludo richiamando un episodio che in Sardegna continua a suscitare una certa ilarità. Si tratta di fatti forse realmente accaduti ai nostri non lontani antenati che vendettero le coste dell’Isola di cui erano proprietari e che a loro sembravano prive di valore in quanto inservibili per il pascolo del bestiame che allora costituiva l’economia corrente. Di loro si dice che ebbero perfino il timore di avere compiuto un imbroglio, perché respinsero i miliardi che in cambio di quelle strisce di territorio lungo il mare venivano loro offerti pretendendo invece nientemeno che milioni. Tutti ridacchiano e li commiserano perché non sapevano cosa fossero i miliardi e non erano in grado di capire quanto fossero preziose quelle coste. Non sempre però ci rendiamo conto di persistere a nostra volta nello stesso errore. Anche noi infatti soffriamo di un grave deficit immaginativo. Basti dire che di quest’isola sofferente eppure meravigliosa continuiamo a considerare per lo più come una distanza, un ostacolo e un fardello il vasto e spopolato territorio dell’entroterra. Lasciandolo così per lo più inutilizzato e fatalmente esposto ad ogni disavventura.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Giovanni Columbu, regista e sceneggiatore originario di Nuoro. Laureatosi in architettura a Milano, dal 1979 al 1999 ha lavorato presso la Rai di Cagliari come programmista regista, realizzando tra l’altro i documentari Visos. Sogni, segnali, avvisi (1985), Dialoghi trasversali (1989) e Villages and villages (1991, vincitore Prix Europa). Fondata nel 1999 la Luches Film, la sua attività di regista è culminata nel suo primo lungometraggio, Arcipelaghi (2001), storia di una vendetta in cui i temi dell’onore, del rispetto e della famiglia si intrecciano sullo sfondo di una Sardegna muta e drammatica. Ambientato in Sardegna è anche Su re (2012), recitato in sardo e sottotitolato in italiano come Arcipelaghi; la pellicola è una dotta rilettura della Passione di Cristo che assume la forma di un racconto povero, dove – sullo sfondo corale di una terra petrosa e dei volti comuni di attori non protagonisti – al Redentore viene restituita la verità ineludibile del corpo e del dolore.
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