Stampa Articolo

«… in ferarum habitu transformantur», ovvero diventare animali

Centauro, cattedrale, Modena

Centauro, cattedrale di San Gimignano, Modena, sec. XI

di Eugenio Imbriani [*]

Per lungo tempo le mascherate e tutto quello che, in generale, rientra nella categoria del carnevalesco sono state fortemente osteggiate dall’autorità religiosa in Europa; ciò è valso in particolare per i mascheramenti da animali, presi di mira, e con particolare veemenza, nel corso del Medioevo. Traggo il titolo di questo contributo da un testo di san Teodoro, arcivescovo di Canterbury alla fine del VII secolo, in cui il prelato condanna a tre anni di penitenza chi in occasione delle calende di gennaio si traveste da cervo o da vitello, perché compie un’opera diabolica.

È solo una delle testimonianze di condanna di comportamenti del genere, risalenti già al IV secolo, all’epoca di sant’Ambrogio e di san Gerolamo, ricorrenti nei secoli successivi, a riprova della difficoltà di porre un freno a pratiche giudicate decisamente peccaminose che hanno caratterizzato, in varie parti d’Europa, quel periodo dell’anno [1]. I motivi di preoccupazione delle autorità religiose, stando al commento dello storico Jean Claude Schmitt, risiedono nella rottura della similitudo tra uomo e dio, di cui parla la Genesi biblica [2]. Ciò è senz’altro vero, ma conviene ricordare tuttavia che le fonti esprimono una altrettanto forte riprovazione anche verso i travestimenti nell’altro sesso e in figure mostruose e spaventose; quindi, forse il discorso andrebbe allargato alla compromissione delle forme stabilite dal creatore e soprattutto della norma socialmente acquisita, anche se non in modo stabile e definitivo, visto che periodicamente subisce degli sbandamenti.

In realtà, fin dalle prime narrazioni bibliche, gli uomini si mostrano piuttosto riottosi nel rispettare le regole che vengono loro imposte. Una seduzione animale la registriamo molto presto nei due progenitori, tanto che vengono cacciati dal giardino; ed è esemplare la vicenda di Caino: Dio non lo può vedere, non accetta le sue offerte, il giovane ci resta male, lo fa notare con il suo atteggiamento ombroso e si prende il seguente rimprovero: «Perché è irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta, verso di te è il suo istinto, dominalo» (Genesi 4, 6-7). L’istinto del peccato si traduce in furia fratricida appena un rigo dopo, come sappiamo. Il testo biblico prosegue con la enumerazione della stirpe di Caino e di quella di Adamo che ebbe molti figli e figlie. Sia in una discendenza che nell’altra, tuttavia, un residuo, e anche più, di disordine, di ambivalenza, di irragionevolezza, di ferinità rimane: è un’eredità che, come è noto, il cristianesimo raccoglie e conserva nella sua storia, cercando di ridimensionarla e ridurla al silenzio; il mascheramento, quindi, non nasconde, piuttosto svela la bestia accovacciata e ne mostra le fattezze sregolate.

12Insomma, gli uomini conservano in sé una alterità ferina e diabolica, che la ragione e la continenza possono essere in grado di contenere, sebbene non ci riescano facilmente. Una vicenda esemplare, non legata ai mascheramenti, avvenuta in pieno Medioevo, nel XII secolo, può aiutare a comprendere questa condizione. Si tratta della storia di Abelardo e di Eloisa, che molti conoscono. L’uomo, chierico e canonico, insegna filosofia e teologia, è il più seguito filosofo del tempo, domina in tutte le scuole di Parigi, ha folle di studenti paganti, è bello, così definisce se stesso, orgoglioso; Eloisa è giovanissima, ma dotata di straordinario talento nello studio. L’uomo si lascia prendere dal demone dell’incontinenza, la seduce, nasce un bimbo; per evitare la vendetta dello zio di Eloisa, Fulberto, Abelardo propone di sposarla, a condizione che la notizia del matrimonio resti segreta; Fulberto accetta, ma si vendicherà lo stesso, in modo crudele, mentre a opporsi è proprio la giovane: perché non vuole che Abelardo, l’uomo che ama intensamente, il brillante pensatore e maestro, si trasformi per vie sacramentali in asino domestico. Un filosofo non deve badare ad altro che alla filosofia, non può lasciarsi condizionare dalla gestione della famiglia, né cedere a una moglie diritti sul proprio corpo.

Riprendeva la lezione dello stesso Abelardo, in particolare il tema della servitù corporale degli sposi, il quale insegnava un’etica dell’assoluta dedizione allo studio, sulla scia dei pensatori cristiani, come san Paolo o san Gerolamo, e dei pagani, come Seneca, Cicerone, Teofrasto; per questo motivo, per mantenere una coerenza di facciata, egli stesso voleva tenere nascosto il suo matrimonio. A dispetto dei suoi principi, la sua ferinità, peraltro, si era manifestata, purtroppo, e in modo molto violento; egli stesso lo confessa, rivolgendosi a Eloisa: «Tu sai a quali turpitudini la mia smisurata passione aveva condotto i nostri corpi; né il rispetto della decenza, né di Dio mi tratteneva dal rotolarmi in questo fango […]. Quando tu non volevi tu resistevi con tutte le tue forze e tentavi di dissuadermi; ma eri naturalmente la più debole e io ho spesso strappato il tuo consenso con minacce e percosse» [3].

71yoyzgf8l-_ac_ul600_sr600600_Ma torniamo al tema dell’asino domestico: l’animale, sebbene abbia avuto, in tempi remoti, qualche patente di nobiltà (si pensi alle primitive vicende della sacra famiglia, al fatto che portò Cristo trionfante a Gerusalemme, o all’asina dello strambo profeta Balaam, che vide un angelo e parlò al suo padrone), non era per questo evocato dal filosofo, ma per il suo carattere di bestia paziente, d’accordo, capace di sopportare fatiche e stenti, e nel contempo ottusa e ostinata; esso è, inoltre, dotato di un apparato genitale molto sviluppato, per cui il riferimento alle funzioni asinine dello sposo suona come una battuta grottesca evocatrice dell’appetito sessuale. D’altronde, in questo campo, il famoso Lucio, il personaggio di Luciano e di Apuleio trasformato in asino, si era preso delle soddisfazioni. Ricordo che lo stesso Francesco d’Assisi, tentato dal demone della lussuria, si frustò chiamando il suo corpo frate asino [4].

L’asino è un modello da evitare, quindi, per il filosofo. In realtà, il compagno elettivo della bestia era il villano, con cui veniva a costituire una coppia inseparabile, uno appendice dell’altro, molto simili nel carattere e nelle abitudini. Il vescovo Cesario di Arles (VI secolo) informava il suo uditorio che tutti coloro che sono lebbrosi nascono dagli sposi incontinenti, che non rispettano, cioè, l’astinenza nei giorni indicati, e dai rustici che la continenza non sanno cosa sia [5]. In una poesia comica risalente al XIII secolo tal Matazone o Mattaccione da Caligano spiega che i due devono essere trattati allo stesso modo, lasciati al freddo, bastonati, quasi a digiuno, altrimenti diventano indocili e reticenti al lavoro; d’altro canto, conducono una vita in comune, e, aggiunge, non s’è mai visto un asino che vada da solo, in coppia camminano, ragionano e si confortano tra loro, perché sono parenti, nati dalla stessa gente: «Como fo l’istoria / de soa natività / voyo che mi intendà. / La zoxo, in un hostero, / sì era un somero: / de dre si fe un sono / sì grande como un tono; /de quel malvaxio vento / nascé el vilan puzolento»; istruisce quindi il signore sulle attività che, mese per mese deve far svolgere al villano, ovviamente senza mai dargli tregua [6]. Ma qui ci interessa soprattutto fermarci sulla strana parentela che lega strettamente il villano all’asino e sul malvagio vento che gli ha dato i natali.

da Bestiario medioevale

da Bestiario medioevale

Nelle redazioni del Testamentum asini d’epoca medioevale che conosciamo [7] questi temi ritornano; innanzitutto registriamo la disperazione del contadino davanti all’asino morto o morente, «ululavit rusticus / magnis cum clamoribus, /trahens crinem manibus», urla e si strappa i capelli, gli chiede di fare testamento, e a quella richiesta esso si risveglia e assegna le parti del suo corpo: la voce ai cantori, la lingua ai predicatori, ecc., e ancora «priapum quoque viduis, / simul cum testiculis» [8]. In una redazione presente in un manoscritto londinese tra componimenti Tempore Natalis Christi troviamo poi il verso «culum do sufflantibus» [9] che è stato messo in relazione con le danses des sufflaculs ricostruite da Claude Gaignebet [10]; Questi soffiatori sono intenti con i loro soffietti a inserire aria nelle viscere dell’asino, per ricostituire la riserva delle anime che espelle con i peti, e, stando uno dietro l’altro, a liberare con lo stesso attrezzo le anime dei morti che portano dentro di loro.

Si tratta di uno strano rituale ancora osservabile in Périgord, dove i soffiatori, il mercoledì delle ceneri, hanno il compito di impedire la fuoriuscita dei peti soffiando aria tra le natiche di chi li precede. Daniel Fabre lo spiega in questo modo: l’intasamento alimentare del ventre avviene nel periodo di carnevale, si effettua con l’ingerimento di carni grasse e alimenti flatulenti come fagioli e fave; ciò produce una sorta di eccedenza di soffi che conviene aspirare nei soffietti e in qualche modo controllare; anche perché febbraio, aggiunge, è il mese dei venti e il primo ad alimentarli è l’orso che, uscendo dal letargo, o dal mondo infero in cui è nascosto, fa esplodere un peto con cui libera l’ano dal groviglio di peli che lo tengono chiuso e le anime che ha dentro di sé. Ora, questo andirivieni di soffi, venti, anime viene controllato, in modo burlesco o rituale, dai soffiatori che le recuperano nei soffietti, o le riconducono nei ventri, o ne impediscono l’uscita, per evitare fughe inopportune, quel che accadde alla mitica vecchia Bareto che, essendosi distratta, si lasciò andare mentre era in chiesa. Non casualmente, Gargantua nacque il 3 febbraio da un orecchio della madre che sotto era tappata [11].

Miniatura XIV secolo da “Roman de Fauvel”

Miniatura XIV secolo da “Roman de Fauvel”

Una delle rappresentazioni più note di un corteo di maschere animali è quella contenuta in un manoscritto del Roman de Fauvel [12]. L’opera, composta tra la fine del XIII e i primi del XIV secolo, è una formidabile allegoria della bestialità. Fauvel, il protagonista, è un uomo cavallo, un personaggio maligno e peccaminoso che soggioga l’intera società dei nobili e dei religiosi, sovvertendone i valori e i costumi. Per mantenere saldo il suo potere, decide di sposare la dea Fortuna che però non lo vuole e gli propone il matrimonio con la sua damigella Vanagloria. In una nota illustrazione presente nel manoscritto conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi (Ms. Fr. 146), mentre Fauvel si accinge ad andare a letto dove lo attende la moglie, di sotto, per strada, si scatena lo charivari di personaggi mascherati, alcuni da animali. Fauvel sarà molto prolifico, e infatti la sua discendenza di farabutti si è ampiamente diffusa nel mondo; la lezione che se ne può ricavare è piuttosto amara: per quanto le virtù possano contrastare i vizi, liberarsi dalla bestialità è davvero un’impresa ardua. Fauvel potrebbe sembrare un personaggio carnevalesco, ma il Roman è un’opera colta moraleggiante, rivolta ai dignitari della corte reale, di cui lumeggia i giochi di potere; vi sono, poi, interpolazioni musicali, ragion per cui alcune parti venivano cantate, presumibilmente nel corso di qualche intrattenimento festoso; la satira, in questo caso, è un dispetto tra rivali potenti.

Il tratto realistico sta nello charivari e nel corteo delle maschere che deborda, evidentemente, dal tempo elettivo delle mascherate e si compone quando si offre l’occasione. Inoltre, lo charivari si presenta come una rumorosa denuncia di una trasgressione, ed è quantomeno curioso che a farlo siano le vituperate maschere tra le quali, per giunta, vi è chi non lesina movimenti sconci. Fauvel genera corruzione, instabilità, e ciò è segnalato da figure che a loro volta vanno oltre i confini della norma. Insomma tra l’uomo cavallo che sposa una damigella (non proprio specchiata, bisogna segnalarlo) e il corteo mascherato che disturba la notte di nozze il caos è assicurato. Il colto e il popolare si agglutinano nella rappresentazione di comportamenti che, su due piani diversi, si mostrano immorali e negativi.

Miniatura XIV secolo da “Roman de Fauvel”

Miniatura XIV secolo da “Roman de Fauvel”

Ci muoviamo in un arco temporale, il Basso Medioevo, grosso modo, in cui le forme esplodono, le mescolanze vengono rappresentate dappertutto, sono segni del mostruoso incombente, sempre presente, del diabolico e dell’assurdo che invadono le mura degli edifici sacri, i capitelli, i codici, l’immaginario e le anime stesse delle persone, figure costruite con parti di corpi umani e di bestie, satiri, sirene, centauri, cinocefali, fauni, fate, melusine, esseri diabolici assemblati con pezzi di uomini, piante, dei più diversi animali; e ancora uomini dai piedi retroversi, blemmi, sciapodi, ciclopi, ermafroditi e tanto altro. Le fonti sono abbondanti, notizie derivanti da repertori antichi, scritti naturalistici, geografici, letterari, centoni enciclopedici trovano spazio nelle opere degli autori cristiani e negli ambienti consacrati. Il Medioevo europeo sembra voler raccogliere le stranezze di tutto il mondo: «Un Medioevo più tormentato» scrive Baltrušaitis, «popolato di mostri, di prodigi, si ripristina e si sviluppa all’interno di un Medioevo evangelico e umanista […]. Questo fondamento sovrannaturale si consolida sopra un terreno complesso. Vi si rintracciano la teratologia dei secoli anteriori, vari elementi di differenti civiltà, ossessioni, fantasmagorie elaborate dall’immaginazione, in un sistema di riferimenti storici e geografici a dir poco confusi» [13]. Veramente, visti con gli occhi di oggi, spesso i testi enciclopedici medioevali, almeno quelli consistenti in enumerazioni di nozioni e auctoritates [14], hanno molto dei criteri classificatori di Borges, sembrano rispondere a una logica dell’accatastamento, a sua volta governata dal principio di eterotopia [15], disorganico e inquietante.

Sebastian Munster, Illustrazioni da Cosmographia, 1544

Sebastian Munster, Illustrazioni da Cosmographia, 1544

Agli albori del nuovo millennio, Bernardo di Chiaravalle tuonava contro le immagini che si trovavano nei luoghi di preghiera e di meditazione dei monaci: «in claustris coram legentibus fratribus quid facit illa ridicula mostruositas, mira quaedam deformis formositas ac formosa deformitas? Quid ibi immundae simiae? Quid feri leones? Quid monstruosi centauri? Quid semihomines? Quid maculosae tigrides?…»; qui si vede un quadrupede con la testa di serpente, lì un pesce con la testa di quadrupede, un corpo con molte teste, una testa con molti corpi, e i monaci passano il tempo a guardarsi questo spettacolo invece di riflettere sulla legge di Dio [16]; è anche vero, tuttavia, che i grandi scrittori cristiani del passato, da Agostino a Gerolamo a Isidoro vedevano nella diversità delle cose mondane la mano di Dio, con buona pace della similitudo. Per esempio, poiché i cinocefali (san Cristoforo era un cinocefalo) sono, a quanto si racconta, persone perbene, operose, razionali, sarebbe corretto negare ad esse l’umanità? Lo stesso si può dire dei nerissimi etiopi dalla pelle bruciata dal sole e di altre genti.

Sirena, chiesa di S. Stefano, Bologna,

Sirena, chiesa di S. Stefano, Bologna,

Partendo dalle proibizioni dei travestimenti, ci siamo affacciati su un panorama disomogeneo, mobile, e immersi in una visione in cui le vite e le anime degli uomini e dei loro cari defunti dipendono dai comportamenti degli animali, anche quelli meno commendevoli. Gli uni e gli altri partecipano in qualche misura della stessa natura, in un gioco di influenze che per noi è difficile comprendere appieno. I comportamenti virtuosi sono dettati dalla religione e dalla saggezza dei filosofi, ma il mondo è molto più vasto e complicato dei precetti che vorrebbero ricondurlo a un modello più schematico che distingua e separi con maggiore precisione. E, se è vero che i villani hanno comunanza di vita con le bestie, gli stessi chierici, i monaci, i filosofi, non sono immuni dalla bestialità. Se le maschere con le loro turpitudini e i loro giochi sconvenienti mettono in mostra apertamente quel che i corpi disciplinati tengono nascosto – l’animalità, i demoni, la femmina, la voglia, la violenza, la parentela con gli elementi anche meno nobili della natura –, sono i chierici ad aver composto e messo per iscritto le raffinate parodie delle messe, sono stati loro a introdurre l’asino in chiesa e a ragliare al momento dell’ite missa est, e sono stati loro a fornire ai maestri le indicazione dei soggetti bizzarri da scolpire per ornare monasteri e luoghi di culto.

Mascherarsi da animali evoca, insomma, in un groviglio di saperi, immagini, timori, la possibilità di diventare animali, abilità che, per antonomasia, verrà attribuita alle streghe e agli stregoni, opera diabolica, o diventare spirito, o esserne posseduto. Mi riferisco, anche, non tanto alla pista sciamanica evocata da Ginzburg, che ha le sue ragioni [17], quanto a fenomeni che ricalcano lo schema dei culti di possessione, dalle epidemie coreutiche all’argia al tarantismo…Le autorità ecclesiastiche intervengono per ridurre a un canone ristretto i comportamenti leciti, ma hanno a che fare con uno spettro estremamente ampio di pratiche, simboli, conoscenze, che si estende da un lato fino a comprendere esercizi triviali e volgari, dall’altro ai sottili dibattiti dei filosofi e dei teologi e ai pericolosi peccati dell’intelligenza. Abelardo fu curato per gli effetti della sua incontinenza animale con il mezzo più drastico dal feroce abate Fulberto, e dall’incontinenza della sua logica con la scomunica. Sullo sfondo monta minacciosamente la lotta all’eresia. In questo quadro le maschere, con la loro densità simbolica, non possono protestare nessuna innocenza. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
[*] Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nel convegno Mascheramenti animaleschi nelle tradizioni satiriche e carnevalesche europee, svoltisi a Palermo l’8 e il 9 febbraio 2024. 
Note
[1] Per una ricognizione delle fonti in questione cfr. Alessandro Testa, Mascheramenti zoomorfi. Comparazioni e interpretazioni a partire da fonti tardo-antiche e alto-medievali, in «Studi medioevali», n. 1, 2013: 63-130; in una ricca bibliografia, sul versante più strettamente folklorico cfr. Piercarlo Grimaldi, a cura di, Bestie, santi, divinità. Maschere animali dell’Europa tradizionale, Torino, Museo nazionale della montagna, 2003.
[2] J. C. Schmitt, Religione, folklore e società nell’Occidente medioevale, Roma-Bari, Laterza, 1988.
[3] Cfr. Etienne Gilson, Eloisa e Abelardo, Torino, Einaudi, 1950: 63. Lo stesso filosofo raccontò la sua vicenda: Abelardo, Historia calamitatum, Milano, Garzanti, 1971.
[4] Roberto Finzi, Asino caro o della denigrazione della fatica, Milano, Bompiani, 2017.
[5] Jacques Le Goff, L’immaginario medievale, Roma-Bari, Laterza, 1988: 135.
[6] Matazone da Caligano, Detto dei villani, in Ernesto Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, Roma-Napoli-Città di Castello, Società editrice Dante Alighieri, 1955: 498-501: 499.
[7] Lo stesso san Gerolamo recitava il Testamentum porcelli, il testamento di Grunnio Corocotta, ai suoi allievi.
[8] Giuseppe Scalia, Il “Testamentum asini” e il lamento della lepre. Redazioni nuove, in «Studi medievali», n. 1, 1962: 129-151: 135.
[9] Ivi: 137.
[10] Claude Gaignebet, Marie-Claude Florentin, Le carnaval, Paris, Payot, 1974.
[11] Daniel Fabre, Le monde du carnaval (note critique), in «Annales. Economies, sociétés, civilisations», n. 2, 1976: 389-406.
[12] Gervais Du Bus, Chaillou De Pestain, Roman de Fauvel, Milano, Luni, 1998
[13] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico, Milano, Adelphi, 1988: 293.
[14] Cfr. Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Le enciclopedie dell’occidente medievale, Torino, Loescher 1981; Luca Morini, a cura di, Bestiari medievali, Torino, Einaudi 1996.
[15] Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967.
[16] Il brano è tratto dalla Apologia ad Guillelmum, cfr. Franco Porsia, a cura di, Liber monstruorum (secolo IX), Napoli, Liguori, 2012: 27, n. 65.
[17] «In questi travestimenti animaleschi proponiamo di vedere un correlativo rituale delle metamorfosi in animali vissute in estasi, o delle cavalcate estatiche in groppa ad animali che ne costituivano una variante»: Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989: 165.
 ___________________________________________________________________________
Eugenio Imbriani, è professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento (Lecce) e afferisce al Dipartimento di Scienze umane e sociali. I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; ha promosso e diretto progetti di ricerca in Italia e all’estero; è direttore della rivista “Palaver”. Ha conseguito l’abilitazione nazionale alla prima fascia della docenza. Tra i suoi lavori più recenti: La strega falsa. Distinzioni e distorsioni in antropologia (2017); A come antropologia (2019, nuova ed. 2023); Poco prima del futuro. La cultura tra ibridi e attese (2021); F come folklore (2022).

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>