Forse non prestiamo troppa attenzione al mondo che ci circonda eppure questo è un’incredibile esplosione di sfumature di colori. Si potrebbe pensare che tutti percepiscano i colori in maniera “universale” ma non è così, dal momento che a livello diatopico e diacronico le varie genti hanno percepito e continuano a percepire i colori in maniera differente, sia concettualmente che a livello simbolico e culturale e, non di meno, certi animali come api e farfalle nonché alcuni uccelli sono sensibili alle frequenze ultraviolette, mentre i serpenti rilevano gli infrarossi. Oltre alle patologie [1] legate alla percezione dei colori e particolari condizioni ormonali, come la gravidanza, che possono alterare il discernimento cromatico, quello che differisce nelle diverse popolazioni è la cultura e come riporta Fabietti (1991: 291) a proposito delle critiche mosse da alcuni studiosi al celebre e controverso studio [2] sui colori di Brent Berlin e Paul Key:
«Il sistema percettivo di una popolazione è profondamente influenzato dalle determinanti culturali in quanto i colori possiedono dei significati contestuali che variano a seconda della situazione […] e possono avere ulteriori connotazioni che talvolta precedono la definizione cromatica in senso stretto: ad esempio quando i colori sono percepiti innanzitutto come “caldi” o “freddi” o, presso alcune popolazioni, come “secchi” o “umidi”».
A conferma di ciò Busatta (2014: 251) sottolinea che:
«la maggior parte delle lingue non scritte non ha una parola astratta per ‘colore’ e uno non chiede normalmente ‘che colore è?’ […] Invece uno normalmente chiede: ‘Il suo corpo, com’è?’ oppure ‘Il suo corpo, come appare?’, il che si può riferire a qualsiasi qualità percepibile come le dimensioni o il gusto e la struttura della frase fa supporre che l’interlocutore risponda facendo una comparazione».
I colori comunicano intrinsecamente delle sensazioni e non è un caso che i messaggi legati a essi siano radicati nella nostra specie, perché il fatto di discernerli determina la sopravvivenza, ancora oggi, per esempio fra le società di raccoglitori, con l’individuazione delle bacche commestibili e mature, di colore diverso rispetto a quelle non edibili o acerbe. Inoltre presso molti popoli allevatori dell’Africa persistono decine di sfumature di colore, che denotano il manto dei capi di bestiame ma ignorano per esempio il blu e il verde. Parimenti le società che basano l’allevamento sul cavallo o sul dromedario danno priorità alla distinzione delle sfumature del pelame degli animali allevati, a differenza degli altri colori. Moltissime popolazioni continuano a colorare il proprio corpo con vari scopi, specialmente per indicare un particolare status sociale ma anche la nostra società prevede il trucco del viso (generalmente femminile ma in aumento presso gli uomini), le tinte per capelli, lo smalto, i tatuaggi e l’arte del body painting.
Inoltre il colore stesso della pelle viene considerato attraente ma anche in questo caso i canoni di bellezza vengono dettati dalla cultura. Infatti, oggi in Occidente, la pelle abbronzata è indicativa di un colorito sano mentre il pallore molto accentuato è un canone di bellezza diffuso tra le donne estremo-orientali, che non esitano a sbiancare la propria pelle e a preservarla candida anche con parasoli e maschere “da mare” anche in aggiunta a tute integrali.
A dispetto dell’odierna abbronzatura naturale o artificiale, le donne del periodo vittoriano utilizzavano cappelli e ombrellini per evitare i raggi del sole, si incipriavano con il chiarissimo ossido di zinco (noto anche come “bianco di zinco”) e si dipingevano sottili linee bluastre che riproducevano le vene, visibili al di sotto di una pelle diafana. Infine costoro applicavano gocce di succo di barbabietola sulle guance e sulle labbra per enfatizzare il pallore della carnagione, dal momento che il belletto e il rossetto si addicevano soltanto alle attrici e alle prostitute e la pelle abbronzata era relegata alle donne che lavoravano all’aria aperta. Al contrario necessariamente all’aperto si celebra annualmente la popolare e antichissima festa induista dell’Holi, dove una folla numerosa si riunisce all’indomani di un grande falò notturno, chiamato Holika Dahan, durante il plenilunio più vicino all’equinozio di primavera e si lancia manciate di sgargianti polveri policrome. Questa tempesta di colori rievoca simbolicamente e gioiosamente la rinascita della Natura dopo l’inverno, inneggiando alla vita e all’amore.
Indagando sull’etimologia del termine, risulta degno di nota che la parola latina color, derivando da una radice indoeuropea indicava primariamente un qualsiasi rivestimento esterno, l’aspetto esteriore, l’incarnato e in ultima analisi il colore. La stessa sorte si ha in greco con il termine chrôma, che denominava primariamente la pelle, quindi la carnagione e infine il colore. La sua radice risale all’indoeuropeo ghrêu- (Byrne & Hilbert 2003: 38) ed è connessa con ghren/grendh-, che significa “macinare, strofinare”, evoluto per esempio in inglese come to grind, propriamente con questi significati. Similmente in arabo, sebbene sia una lingua di ceppo semitico, la radice bašara rende esattamente il concetto indoeuropeo di “pelle, carnagione, colorito della pelle (e similari)”, contemporaneamente a quelli di “grattugiare, pelare e sbucciare”(Traini 1966: 75).
Alcuni nomi dei colori, che usiamo quotidianamente, designavano tonalità diverse da quelle che intendiamo oggi oppure sono stati “importati” nel corso dei secoli da altre lingue, sebbene in genere fossero già presenti degli aggettivi, che indicassero quelle particolari sfumature cromatiche. Un esempio interessante è fornito dal bianco. In latino tale attributo era qualificato con albus (se bianco opaco), che ha forgiato l’idea di chiarezza, per esempio nelle parole albume, alba, album, albo, albino e indicativamente anche in certi toponimi, quali gli appenninici Sassalbo e Fiumalbo e il sardo Terralba (Nocentini, 2015: 63), nonché candĭdus (bianco lucente), che ha originato numerosi termini, fra i quali candore, candeggina, candidato, candida e candela. Per quanto riguarda il colore dei capelli delle persone mature si usa ancora oggi l’aggettivo canuto (biancheggiante), sebbene lo si incontri di rado. L’origine dell’attuale “bianco” deriva dal germanismo *blank, che ha soppiantato l’antico candĭdus latino, anche nella maggioranza delle lingue neolatine [3]. Durante il Medioevo cristiano invece «il rosso e il verde erano considerati intercambiabili, di eguale valore e come componenti duali della luce naturale o mistica» (Busatta, 2014: 250). Inoltre nella letteratura araba, Alessandro Magno viene ritratto con un occhio verde e uno rosso (colore curioso che comunque indica la nota eterocromia del Macedone, riferita all’occhio castano).
Un altro esempio degno di nota è l’azzurro, dalle origini lontane, perché proviene dal persiano e indica il lapislazzuli (la “pietra azzurra” per eccellenza), di cui il moderno Afghanistan ha sfruttato i giacimenti, per millenni, essendo quelli più ricchi al mondo. In arabo gli aggettivi lāzuwardī/lāzawardī e azraq indicano l’azzurro intenso. Quest’ultimo, attraverso la penisola iberica, ha fornito la parola zarco (Varvaro, 2001: 163) e, in particolare, il castigliano ha prodotto azul (azzurro) da cui derivano le caratteristiche piastrelle chiamate azulejos, nonché l’azulene. Per gli Egizi, i Babilonesi e gli Ebrei la sacralità si esprimeva con l’azzurro carico/blu e l’oro e non a caso molte divinità venivano forgiate proprio utilizzando l’azzurro cupo. I popoli indoeuropei, fra cui i Greci e i Romani, prediligevano invece con tale funzione il porpora, mentre i Cinesi preferivano il giallo per rappresentare la regalità. In India molte divinità induiste o i loro avatar hanno la pelle blu, nera o colore della polvere. In aggiunta a ciò gli aggettivi turchino/turchese si riferiscono alla Turchia, dove era molto popolare tale pietra, mentre dalla pianta indiana dell’indaco (indigofera) proviene l’omonimo colore.
Il giallo esisteva presso i Romani con il nome di galbĭnus (che ha prodotto galben in rumeno ma amarillo/amarelo e similari nella maggior parte delle attuali lingue iberiche) sebbene indicasse una varietà tra il verde e il giallo. Tale attributo simboleggiava anche un uomo effeminato. Oggi in ucraino «holubyj [blu] designa comunemente i maschi omosessuali e quindi è evitato per paura di equivoci» (Busatta 2014: 252). Inoltre A. M. Kristol (1978:226), riportato dalla stessa studiosa, aggiunge che altre lingue indoeuropee designano il blu/giallo [4] con un unico termine, mentre, ancora oggi, il serbo-croato indica con plavi (blu) i capelli biondi. Falbo/falvo, dall’origine germanica *falwa, che resiste in francese come “fauve” [5], designa un’altra tonalità di giallo, più scura, generalmente riferita al manto equino (noto come baio falbo) e a quello dei bovini, nonché più raramente anche alla pelliccia di diversi animali (castori, volpi e altro). Inoltre Busatta (2014: 250) integra:
«N. B. McNeill (1972:30-31) ricorda che un termine che significa sia blu che giallo appare in varie lingue slave contemporanee: abbiamo già visto il serbo-croato plavi, che significa blu, ma significa “biondo” detto di capigliatura umana. In russo polovyi si riferisce sia al blu che al giallo, e così il polacco plowi e il ceco plavyi, tutti vocaboli che deriverebbero dal proto-slavo polvu. […] In latino, ricorda lo studioso, flavus significa sia giallo che biondo e corrisponde a blao dell’Alto Antico tedesco, al bla del tedesco medievale e al blau del tedesco moderno».
Pertanto appare chiaro come il bicromatico blu/biondo risulta di sicura (seppur fuorviante) origine germanica e infine dallo stesso ceppo linguistico provengono anche i nomi dei toni bruno e grigio. Interessante appare il colore glauco, di origine greca, che non indicava presso i Romani una tinta particolare, perché significava approssimativamente “brillante, lucente”, determinando una tonalità tra il celeste e il verde, oppure designava il celeste chiaro, altrimenti indicava un colore tra il verde e il grigio nonché infine anche il ceruleo (celeste scuro). Tale gamma cromatica, dalle sfumature incerte, ha fornito i termini quali glaucoma, glauconite, glaucofane e Glauco come nome proprio. Oltre a ciò il glauco è stato specificatamente utilizzato in poesia proprio per la sua intrinseca vaghezza e, in particolare, era impiegato per qualificare il colore degli occhi, come quelli della dea Atena, spesso definita nell’epica glaucopide (dagli occhi azzurri o lucenti). Presso i Greci il chiarore degli occhi era però considerato innaturale ed evocava la malattia (come il glaucoma, la cataratta o la cecità). Per i Romani, chi aveva gli occhi chiari era disprezzato e, in generale, il blu non risultava uno dei colori prediletti, probabilmente perché le sfumature di questa tinta ricordavano le caratteristiche iridi dei “barbari” Germani, Celti e Pitti e il corpo dipinto o tatuato di blu di alcune di queste genti. Per concludere la piccola parentesi sulle iridi poco pigmentate, si ricorda l’antico credenza folklorica indo-mediterranea per cui la persona straniera (specificatamente se donna e con gli occhi chiari) è ritenuta capace di lanciare il malocchio nei territori islamici, in particolare rivolto contro le donne incinte, i bambini e gli animali.
A guardar bene, i nomi dei colori che utilizziamo derivano dalla Natura, che offre: rosa, marrone, fucsia, salmone, viola, pervinca, corallo, lavanda, cannella, ocra, prugna, malva, lilla e molti altri. Certe popolazioni, secondo gradi differenti, non discernono le tonalità del verde e del blu in due categorie distinte ma in un unico colore “grue” (dall’unione di verde e blu in inglese, rispettivamente green e blue). A tal proposito, in berbero (amazigh) la parola azegzaw indica il blu/verde. Per gli arabi il cielo è sicuramente azzurro, perché il ceruleo, samā’ ī/samāwī, prende il nome proprio dal cielo, sebbene nella poesia classica la volta celeste venga designata parimenti come verde ([al-qubba] al-haḍràʾ) (Traini, 1966: 296). Inoltre l’arabista riporta che al-haḍir o al-hiḍr è «[il] personaggio leggendario a cui, secondo i commentatori musulmani, si riferisce [il] Cor[ano], XVIII, 59-81».
Va ricordato che il verde (evocante la scarsa vegetazione) rappresenta il colore sacro per l’Islam e non a caso campeggia sullo sfondo della bandiera della Arabia Saudita, terra desertica di origine e luogo più santo per questa religione. La poesia persiana abbonda di immagini poetiche sul cielo di diverse tonalità di azzurro e soprattutto di verde. Nella poesia epica i Greci non descrivevano il cielo azzurro o verde ma ferreo o ramato oppure bronzeo, perché veniva concepito e rappresentato come una scodella metallica rovesciata. Di conseguenza alcuni linguisti ritengono che le parole significanti “cielo” e “cesello” siano connesse al termine indoeuropeo *haekmon, in senso metaforico, a causa del martellamento e del rumore che produceva l’arnese, accostato al boato dei tuoni. Da tale radice provengono infatti “martello”, “incudine”, “acutezza”, “pietra”, “fulmine”, “tuono” e “cielo”. Il sanscrito àsman indica sporadicamente l’arma del dio Indra, definita “pietra furente” o semplicemente “cielo” e la stessa lingua utilizza il termine vajra, che designa contemporaneamente il fulmine e il diamante. Parimenti il tibetano (lingua sino-tibetana ma influenzata dal sanscrito per via del Buddhismo) impiega dorje, che esprime i medesimi significati.
Sorprende invece che gli oggetti duri e acuminati, come le teste di asce, le punte di frecce (e i fossili), siano stati a lungo considerati residui solidi di saette, chiamati, ancora decine di secoli dopo, ceraunie o “pietre del fulmine” dagli studiosi, fino al XVIII secolo. Inoltre il greco Akmon [6] è in mitologia il padre-cielo di Urano (a sua volta dio del Cielo) e la stessa parola greca, akmon, designa l’incudine e il meteorite, mentre in lituano akmuo è la pietra, nonché akmens in lettone. Infine dal plurisemantico *haekmon, attraverso il protogermanico *hemina- risulta l’origine della parola inglese heaven. Per gli antichi dunque il cielo era una volta di pietra o di metallo, attestata storicamente in questo modo anche presso gli Ebrei. Infatti, è possibile rilevare che in ebraico un modo per intendere il paradiso è “Giardino dell’Eden”, mentre in arabo la radice simile a Eden è cadn, che annovera tra i suoi significati sia il Paradiso Terrestre che il giacimento minerario e metallifero.
Tornando più propriamente ai colori un’interessante analogia con il glauco viene fornita dal celtico gallese (e nelle lingue affini) che individua nel colore glas (in latino guado, chiamato vitrum o glastum) generalmente il blu (vetro), ma può indicare inoltre le sfumature del verde erba e dell’argento. Il verde viene reso di norma con la parola gwyrdd (dal latino viridis). In tedesco e nederlandese verde si dice rispettivamente grün e groen e in modi molto simili anche nel resto delle lingue germaniche, come anche l’inglese, che rende il già citato green (connesso ai concetti indoeuropei di crescere, to grow, ed erba, grass). A tal proposito viene svelata l’oscura origine etimologica danese della Grønland (Groenlandia), la quale in inglese si chiama Greenland, risultando pertanto in entrambe le lingue “Terra verde”.
Sia il pashto che il vietnamita non distinguono il verde dal blu, di conseguenza in caso di ambiguità si chiede se il colore in questione sia il “grue” simile al cielo o simile alle foglie delle piante. Prima dell’introduzione delle arance accadeva che in Italia l’arancione (colore proprio della buccia di questi agrumi) fosse concepito come una sfumatura del rosso. Ecco perché in italiano sono rimasti dei modi di dire quali “pesci rossi”, “gatti rossi” e “capelli rossi” che di fatto sono arancioni. Nella Turchia rurale il verde e il blu confluiscono nella parola turcica preislamica gök (cielo), che indica anche il colore blu-verdastro della muffa. In lingua persiana come in Sudan le persone con la pelle scura possono essere descritte come “verdi”, sebbene Busatta (2014: 251) sottolinei che riguardo al Paese africano «[per] (Bender 1983) deve essere considerata una metafora». Dai “pellirossa” i coloni del Nuovo Mondo venivano definiti “visi pallidi” e in arabo esistono termini specifici per designare l’uomo di pelle chiara come azhar e parimenti una donna di pelle chiara, ovvero rucbūba, inoltre una particolare attenzione viene data da questa lingua al bianco. Infatti sono annoverati diversi termini che indicano tale tinta, a sua volta designante esseri viventi e inanimati con nomi identificativi. Le sfumature vengono ricordate da M. Abdul Haq Vidyarthi (per la prima volta in urdu, nel 1946) e sono:
«abyad, yaqaq, lahq, wadih, nasi’, hijan, khalis. These seven grades of white start from “discernable white” and go to the extreme of “pure white”. Besides these degrees of white, as regards things which can be white such as man, woman, horse, camel, ox, cow, ass, sheep, goat, deer, cloth, silver, bread, grapes, honey etc., there are separate words for each one of these when it is white. […] The rose in Arabic is called ward, but if it is white it is not, as in other languages, called a white rose but is known as watbir. A white mountain is khaugh while a white stone is yarma’».
Bisogna notare che i colori non esprimono sempre concetti universali ma culturali, pertanto se in Occidente il colore del lutto viene associato al nero, in Asia al contrario viene identificato con il bianco [7], che invece è il colore dell’abito della sposa occidentale [8] sin dalla fine del XVIII secolo e in generale risulta collegabile con tutto ciò che è puro. Infine, il valore culturale che si associa ai colori si ritrova in maniera evidente nelle bandiere dei diversi Stati, dove la carica simbolica della stessa tonalità cromatica può essere molto differente rispetto a quella assegnata ad altri vessilli.
I colori hanno influenzato fortemente il modo di parlare e nelle lingue si possono riscontrare frasi idiomatiche che hanno i medesimi corrispettivi in italiano o possono indicare espressioni simili oppure risultano prive di significato se le si volesse tradurre letteralmente. Ecco qualche esempio, tratto da alcune lingue, catalogato per macroaree di colore:
Bianco: (ingl.) whiter than white: immacolato, puro; passare la notte in bianco; fare qualcosa di punto in bianco; bandiera bianca; dare carta bianca; mosca bianca o gallina bianca; mangiare in bianco; (colloquiale) andare in bianco; notte bianca; dama bianca; (arcaico) biado (biondeggiante, chiaro come le messi), dal latino bladum (frumento), da cui derivano biada e blé (grano/frumento, in francese) e “sbiadire” (Vocabolario Treccani) v. intr. e tr. [der. dell’agg. biado, forma ant. di biavo «azzurro chiaro», col pref. s-].
Giallo: libro (o romanzo)/film giallo; (fr.) rire jaune: ridere a denti stretti; in arabo essere giallo equivale all’italiano “essere pallido”.
Arancione: pel di carota.
Rosso: (ingl.) a red letter day: giorno molto significativo o importante; film a luci rosse; (fr.) être dans le rouge: essere al verde; essere rosso dalla vergogna; essere rubicondo; vedere rosso; rosso di sera buon tempo si spera.
Rosa: (fr.) voir la vie en rose: vedere tutto positivo, essere ottimisti; cronaca rosa; romanzo rosa; (fr. colloquiale) voir les éléphants roses: essere ubriaco; quote rosa; scandalo rosa.
Viola: essere paonazzo; la sacra porpora; aspirare alla porpora, essere insignito della porpora.
Blu/azzurro/celeste/turchino: (ingl.) blue-eyed boy: persona preferita (per es. di un capo, di un insegnante) all’interno di un gruppo; i film o le barzellette blue in inglese indicano la pornografia; (ingl.) once in blue moon equivale all’italiano “raramente, una volta ogni morte di Papa”; (fr.) être fleur bleu: essere sentimentale; strisce blu; avere una fifa blu; sangue blu; auto blu; (ingl.) a blue day: una cattiva giornata; (ingl.) being blue: essere triste; principe azzurro; celestiale!; regno celeste; corpo celeste; coltre celeste; Gerusalemme celeste; Celeste Aida; Fata turchina.
Verde: (sp.) chiste verde: barzelletta a sfondo sessuale; spazio verde; (fr.) se mettre au vert: riposarsi in campagna; (fr.) être vert de rage: essere molto arrabbiato; anni verdi; (fr.) donner le feu vert à quelqu’un: dare il via libera a qualcuno; vedere i sorci verdi [9]; essere verde d’invidia; avere il pollice verde; numero verde; verde speranza; verdoni (dollari, in inglese, greenbacks); l’erba del vicino è sempre più verde; se l’alba verde a te apparirà da questo lato il vento arriverà.
Grigio: al buio tutti i gatti sono bigi; esistenza grigia; letteratura grigia; cellule grigie; giornata grigia.
Nero: oro nero; lavoro nero; cronaca nera; (fr.) broyer du noir: essere molto depresso, essere nero; vedere nero; uomo nero; essere una pecora nera; lista nera; anima nera.
Marrone: (fr.) faire marron quelqu’un: fregare qualcuno.
Colore/colori in generale: in arabo gli “occhi colorati” indicano gli occhi chiari e nella varietà mesopotamica (dall’Iraq alla Siria) nonché in Qatar “come stai?” si rende con “di che colore sei?”; persona di colore; vederne/passarne/dirne di tutti i colori; il “colore locale” sono tratti distintivi e pittoreschi di un luogo.
Quanto detto ha mostrato soltanto una parte dei numerosi aspetti culturali intrinsecamente legati ai colori. Indagando oltre ai ben noti campi come l’ottica, la chimica, la fisica e l’astronomia, altre discipline specialistiche analizzano i colori in maniera particolareggiata o trasversale e per la loro complessità necessitano di una trattazione specifica.
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] Il daltonismo si manifesta da un malfunzionamento dei “coni”. In Italia si stima che siano affette circa duemila persone. http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-f85c88df-7748-459c-bd49-126e3dc65255.html
[2] Il libro, Basic Color Terms del 1969, ipotizza una correlazione tra la “complessità culturale” dei gruppi umani e la varietà terminologica, compresa tra un minimo di due a un massimo di undici colori di base.
[3] L’aggettivo bianco si ritrova in francese e catalano come blanc, in castigliano come blanco, in portoghese e galiziano come branco, in Sardegna si ritrovano biancu, àlbigu, albu (alvu, arvu) e nibidu (nidu) (dal latino nĭtĭdus) in rumeno invece si è mantenuto il latinismo alb.
[4] «I termini latini e francesi glaucus, ceruleus e bloi potevano significare sia blu che giallo» (Gage 1993: 90). Inoltre il blu/biondo appare come caratteristica delle chiome degli eroi omerici (Busatta, 2014: 250).
[5] L’aggettivo indica il pelo fulvo (biondo-rossiccio) dei grossi felini come la criniera del leone e dà origine anche al nome proprio Fulvio e Fulvia.
6] Alcman, Fragment 61 (from Eustathius on Iliad) (trans. Campbell, Vol. Greek Lyric II) (Greek lyric C6th B.C.): «The father of Ouranos (Sky), […], is called Akmon because heavenly motion is untiring (akamatos); and the sons of Ouranos (Sky) are Akmonidai [the Titanes]: the ancients make these two points clear. Alkman, they say, tells that the heaven belongs to Akmon». [N.B. The word akmon also occurs in Hesiod’s Theogony in connection with the Titanes. Here akmon is an anvil of bronze, which is described falling from the apex of heaven down to earth and from earth to the bottom of the pit of Tartaros, prison of the Titanes, as a measure of distances in the cosmos] http://atlantisonline.smfforfree2.com/index.php?topic=9132.0;wap2
[7] Presso i Romani, i Greci, i Fenici, gli Etruschi e gli Egizi il defunto veniva ammantato di bianco.
[8] L’uso dell’abito nuziale bianco di stampo occidentale si sta diffondendo rapidamente anche in Oriente, dove si soppianta ai vestiti tradizionali o viene adattato secondo le esigenze, come nel caso del collo alto e delle cuffie munite di velo che nascondo i capelli della sposa musulmana.
[9] Per l’origine dell’aneddoto: http://www.successeoggi.it/mod_ti_faccio_vedere_i_sorci_verdi.php.
Riferimenti bibliografici
Busatta, S., (2014), La Percezione del Colore e il significato della Lucentezza presso popolazioni arcaiche antiche e i suoi riflessi linguistici, Antrocom Online Journal of Anthropology 2014, vol. 10. n. 2 – ISSN 1973 – 2880: 249-305.
Byrne A., & Hilbert, D., R., (2003, Color realism and color science. Behavioral and Brain Sciences, 26: 3-21 doi:10.1017/S0140525X03000013.
Dizionario enciclopedico Maximus, (1992), Novara: Istituto Geografico De Agostini.
Fabietti, U., (1991), Storia dell’antropologia, Bologna: Zanichelli.
Filangeri, L., (2002), L’ibrido come simbolo della trasformazione, Paleolithic Art Magazin, marzo 2002.
Goodrum, M., R., (2002), The meaning of ceraunia: archaeology, natural history and the interpretation of prehistoric stone artefacts in the eighteenth century, The British Journal for the History of Science, vol. 35, No. 3 (Sep., 2002); 255-269.
Lane, E.W., (1893), An Arab-English Lexicon, London: Willams & Norgate.
Luzzatto L., & Pompas, R., (2001), Il significato dei colori nelle civiltà antiche, Roma: Bompiani.
Nocentini, A., (2015, La vita segreta della lingua italiana, Milano: Ponte delle Grazie.
Pfohl, M., (2012), Color Vision during Pregnancy, Colorado State University.
Rubattu, A., (2000), Dizionario Universale della Lingua di Sardegna (DULS), Sassari: Edes
Traini, R. (a cura di), (1966), Vocabolario arabo-italiano, Roma: Istituto per l’Oriente.
Varvaro, A., (2001), Linguistica romanza, Napoli: Liguori Editore.
Vidyarthi, A., H., Maulana (1995), The philosophy of colours in the Holy Quran, The Light & Islamic Review: vol.71; Nos. 4-6; Jul-Dec 1995: 6-10, 4-6, 5-7.
Sitografia
http://atlantisonline.smfforfree2.com/index.php?topic=9132.0;wap2
https://en.wikipedia.org/wiki/Distinction_of_blue_and_green_in_various_languages
http://www.comeimpararelinglese.com/modi-di-dire-inglesi-e-colori-parte-1/
http://www.comeimpararelinglese.com/modi-di-dire-inglesi-e-colori-parte-2/
http://www.dizionario-latino.com/dizionario-latino-italiano.php
http://www.focus.it/ambiente/come-vedono-gli-animali
http://www.goticomania.it/eta-vittoriana/moda-vittoriana-cosmetici-e-bellezza.html
http://www.oikos-group.it/contenuti/colore/colore-e-societa/storia-archivio2
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-f85c88df-7748-459c-bd49-126e3dc65255.html
http://www.successeoggi.it/mod_ti_faccio_vedere_i_sorci_verdi.php
http://www.utexas.edu/cola/centers/lrc/ielex/PokornyMaster-X.html
__________________________________________________________________________________________
Francesca Morando, laureata alla Sapienza in Dialettologia araba (relatore O. Durand), insegna arabo presso varie strutture sia pubbliche che private; è traduttrice giurata di lingua araba presso il Tribunale di Palermo ed è specializzata in Didattica dell’Italiano L2/LS. È stata anche docente presso l’Università di Palermo e l’Università Gar Younis di Bengasi, oltre che in Egitto e nella Georgia caucasica.
________________________________________________________________