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In memoria di Elaje

Dalla torre di san nicolò

Dalla torre di San Nicolò, all’Albergheria di Palermo (foto Salvo Gravano)

 di Daria Settineri

In questo contributo racconto la storia di Elaje, un ragazzo per il quale l’istituzione del reato di clandestinità ha avuto conseguenze estreme. Questo reato, disciplinato dall’art. 10-bis inserito dalla legge n. 94/2009 (il cosiddetto “pacchetto sicurezza”) nel “Testo Unico delle leggi sull’immigrazione”, è stato fortemente voluto da Maroni, allora Ministro dell’Interno, per eludere l’applicazione della Direttiva 2008/115/CE (Direttiva rimpatri) che imponeva alcune garanzie nelle procedure espulsive, clausole destinate a decadere qualora l’espulsione fosse conseguenza di un illecito penale. In sostanza, unico scopo dell’istituzione di questo reato era quello di poter aggirare la Direttiva europea e continuare le espulsioni seguendo le indicazioni dell’accordo (e ancor prima del protocollo del 2007) Italia-Libia del 2008. Infatti, la legge prevede la seguente struttura: colui che entra o soggiorna illegalmente in Italia è punibile con un’ammenda; la pena pecuniaria può essere sostituita con l’espulsione; l’espulsione diventa, dunque, una pena.

Questa legge veicola un messaggio ben chiaro: la clandestinità è un reato e, quindi, il clandestino è un delinquente. Una facile equiparazione, frutto di precise strategie politiche ed economiche che tendono a rendere “eccedenti” alcuni esseri umani che, così, per la loro stessa condizione di eccedenza, si trovano a vivere i luoghi dell’esclusione o, ancor di più, come dice Sassen, dell’espulsione. Etimologicamente “clandestino” è una parola di origine latina, formata dall’avverbio “clam” che vuol dire “nascosto” e il sostantivo “dies”, che significa “giorno”. È implicita, dunque, nell’accezione semantica l’idea della tenebra, della segretezza, dell’ombra. Ma fino a qualche anno fa il vocabolo era utilizzato come aggettivo, accompagnato a termini quali movimento, partito, associazione e richiamava la storia delle organizzazioni di resistenza durante i regimi oppressivi, oppure si trovava in letteratura quando si parlava di amori osteggiati e nascosti. In nessun caso veniva utilizzato con funzione di sostantivo, cosa che, invece, accade oggi.

Soprattutto, oggi, le retoriche mediatiche che hanno accompagnato l’istituzione del reato sono riuscite a far divenire un fenomeno storico, prodotto di strategie politiche e di una legiferazione nazionale, un concetto ontologico, rendendo la clandestinità una condizione dell’esistenza. Fa riflettere, alla luce di tutto questo, la scelta difesa dall’attuale Ministro dell’Interno di rinviare l’abolizione del reato. Anche perché le conseguenze dei macroprocessi hanno effetti, anche devastanti, sulle storie individuali. E se questo sembra il motivo per cui adesso si rinvia (più volte, a difesa, di questa scelta di frenare, ci si è richiamati ai risvolti psicologici in termini di percezione della sicurezza da parte dei cittadini), tale considerazione raramente viene fatta.

L’istituzione del reato di clandestinità, invece, ha avuto conseguenze letali per Elaje, un ragazzo senegalese residente a Palermo e che ho conosciuto nel 2008. Gli amici lo chiamavano“Petit”, ma aveva dichiarato trent’anni al suo arrivo in Italia, nel 2007, e sosteneva di averne, in realtà, trentacinque. Quando lo conobbi, viveva a casa del nipote, di cui, però, Elaje era più giovane, oltre a essere più fragile e meno capace di creare reti. Mi ricordava qualcuno, Elaje, ma non riuscivo a ricordare chi finché non vidi, pubblicata sul profilo del social network Facebook, una fotografia che lo ritraeva in primo piano. Elaje assomigliava in modo impressionante a uno struzzo e dell’animale, capii frequentandolo, aveva anche l’attitudine a nascondersi coprendo il capo: se, per esempio, voleva riposare sul divano, e aveva una giacca sulle spalle, la tirava su per la testa dal lato dei capelli abbassandola sino alla bocca, al mento o, se la giacca lo permetteva, al collo. Ricordo che, una mattina, ero a casa dello zio che lo ospitava perché dovevo incontrare amici del padrone dell’abitazione; entrando inavvertitamente nella stanza in cui dormiva –  l’unica camera da letto della casa e dalla quale si accedeva al bagno – lo trovai, nel letto matrimoniale, che condivideva con il suo anfitrione, avvolto nel lenzuolo come una mummia. Forse cercava riparo da un mondo da cui si sentiva respinto.

FOTO 1Quando, nel settembre del 2009, grazie all’aiuto di un’attivista, riuscì a compilare la domanda per l’emersione dal lavoro irregolare (legge 3 agosto 2009 n.102, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° luglio 2009, n.78), Elaje iniziò la sua angosciante attesa. Probabilmente, nella concretizzazione della possibilità di ottenere un riconoscimento, si scoprì la drammaticità della sua condizione di clandestino, accentuatasi proprio dal dibattito pubblico successivo al pacchetto sicurezza. Fino ad allora Elaje, poiché in Senegal aveva imparato a usare la macchina da cucire, si guadagnava da vivere cucendo etichette false sugli abiti che sarebbero stati venduti nei mercatini. Aveva impiantato il suo laboratorio prima presso il fratello, con cui condivideva la casa, e poi dal nipote cui chiese ospitalità quando il fratello si sposò. Gli attrezzi di lavoro consistevano in una macchina da cucire (portatile), forbici, aghi, fili e, dunque, non occupavano molto spazio. Quando non aveva da lavorare e il nipote voleva che la casa stesse in ordine, sistemava tutto dietro il divano che aveva uno schienale inclinato per cui si creava uno spazio tra la seduta e il muro su cui poggiava la spalliera. Abitualmente l’attrezzatura, però, stava sul tavolo del piccolo soggiorno della casa, proprio di fronte alla porta di ingresso. A terra, sulle sedie e sul divano erano ammonticchiati abiti cui cucire le etichette che, invece, erano sul tavolo divise per categoria.

Il nipote curava molto la propria casa, che aveva arredato in stile country mese dopo mese, acquistando i mobili al mercato di Ballarò la domenica all’alba, dove tra il sabato notte e la domenica mattina, nella zona della chiesa di San Saverio, viene allestito un vero e proprio mercato in cui vengono venduti mobili e elettrodomestici, di seconda mano e nuovi, spesso rubati. Il suo guardaroba, inoltre, contava capi pregiati, regali dell’ex moglie italiana o acquisti fatti da lui stesso, e il fatto che ai suoi abiti si assommassero in modo confusionario quelli dello zio, che indossava indifferentemente quelli di entrambi, gli provocava un certo fastidio.

Non pensò neanche una volta, però, di chiedere a Elaje di abbandonare la casa né mostrò mai un atteggiamento di insofferenza nei confronti dello zio. Manifestò, invece, la preoccupazione per alcune stranezze che, di giorno in giorno, aumentavano. Tuttavia, ci volle del tempo prima che la preoccupazione divenisse tale da decidere di passare all’azione, così come altro tempo trascorse tra le varie decisioni che vennero prese successivamente. D’altronde, per quanto gli affanni per la sorte di Elaje maturassero, non vi fu mai la coscienza preventiva che potesse accadere quel che accadde. Il dato di fatto era che, da quando aveva fatto la domanda di emersione, l’atteggiamento di Elaje andava mutando. Inizialmente, in particolare, temette che potesse essere scoperta la sua attività e che questo fatto avrebbe inficiato il buon esito della sua pratica; per tale motivo andò progressivamente diminuendo il suo lavoro fino a non accettarne più. Cominciò poi ad aver paura a uscire poiché pensava che, se lo avessero fermato, trovandolo senza documenti, avrebbero potuto espellerlo proprio quando era a un passo dall’ottenerli. Questo passo, però, non era ancora stato compiuto e Elaje continuava a essere senza documenti.

A fine novembre 2010 sosteneva che alcuni dei suoi contatti di Facebook fossero poliziotti sotto copertura che volevano scoprire dove vivesse e che alcune persone che conosceva fossero degli informatori della polizia. Poco prima della fine dell’anno il nipote partì per il Senegal dove si sarebbe fermato per circa un mese. Durante quel periodo di solitudine, pur essendo circondato da cari amici, le paranoie di Elaje crescevano. Si era convinto di essere controllato da un palazzo accanto e che qualsiasi accesso da lui fatto su internet sarebbe stato individuato come prova della sua presenza clandestina.

FOTO2A metà gennaio ormai non usciva più, mangiava pochissimo e fumava molto hascisc. Verso la fine di gennaio mi telefonò per chiedermi di andarlo a trovare. In quell’occasione mi disse che la parola “razzismo” non esisteva più: ormai gli uomini avevano capito che avrebbero dovuto essere tutti fratelli e che non avrebbero tenuto nessuno in schiavitù; il razzismo era finito e anche la parola era stata cancellata. Da allora Elaje iniziò a criticare tutti quelli che si prodigavano in azioni antirazziste perché combattevano il nulla. Questa convinzione lo accompagnò sino alla fine, talvolta anche con toni ossessivi. Gli amici più cari, Omar e Malik, inoltre, convinti che l’eziologia del disturbo era da rintracciare nell’abuso di hascisc a causa del quale il suo cervello si era intossicato, gli proibirono di farne uso. Della stessa opinione era il nipote che, sebbene fosse in Senegal, veniva puntualmente informato di quanto stesse accadendo. Egli rientrò uno degli ultimi giorni di gennaio e subito dopo mi telefonò chiedendomi di andare a casa sua dove trovai Elaje senza capelli: ci spiegò che la notte precedente si era manifestata la voce della sua guida spirituale che gli aveva rivelato di essere stato fatturato e di essere perseguitato. L’unico modo per liberarsi dal maleficio, voluto da un ragazzo senegalese che abita a Ballarò e amico del nipote, era quello di tagliarsi a zero i capelli. La guida, inoltre, gli aveva rivelato che lui aveva in corpo un guerriero pacifista e che suo compito era rintracciare una donna italiana, anch’essa custode di uno spirito pacifista, con cui decidere un piano d’azione mirato contro gli antirazzisti poiché combattevano un fenomeno che non esisteva.

A quel punto il nostro timore più grande consisteva nella possibilità che questo spirito guida potesse suggerirgli, per esempio, di buttarsi dal balcone per liberare il guerriero pacifista che era in lui. Il nipote, reputando che non ci fosse tempo da perdere, gli disse che si sarebbe dovuto far curare immediatamente e io stessa lo accompagnai al Pronto Soccorso di un ospedale di Palermo. Elaje era sempre stato un ragazzo buono e accomodante per cui non si sarebbe mai ribellato alla volontà del nipote cui lui riconosceva, peraltro, grandi doti e a cui era molto legato. Presumibilmente non è stato casuale il fatto che il peggioramento delle condizioni psichiche di Elaje si sia manifestato proprio durante la lontananza del nipote poiché in quell’occasione lui si è sentito abbandonato dal suo punto di riferimento. Tale percezione potrebbe aver suscitato in lui la paura di rimanere a casa da solo e la sensazione di essere prigioniero a Palermo poiché per lui non era possibile recarsi in Senegal con il nipote.

Al Pronto Soccorso di quest’ospedale Elaje fu visitato da uno psichiatra secondo il quale era necessario un ricovero. Poiché nella struttura non vi era posto, fummo dirottati in un altro ospedale dove ci raggiunse il nipote, che gli portò qualche effetto personale, il computer e dei film. Il giorno successivo fu affidato a una dottoressa che, dopo essersi trattenuta a parlare un po’ con lui nell’italiano approssimativo di Elaje, gli prescrisse una terapia con antipsicotici, nella convinzione che il manifestarsi del disturbo, altrimenti rimasto probabilmente latente, era da ricondurre certamente allo “sradicamento dalla sua cultura”. Io provai a farle notare che, probabilmente, il dialogo fra lei, che non parlava francese, e il nuovo paziente, che non aveva molte competenze di italiano, non aveva potuto dare grandi esiti e che, pertanto, la sua diagnosi poteva essere inficiata da un pregiudizio. Le chiesi di interpellare un mediatore linguistico che la aiutasse a comprendere quanto il ragazzo aveva da dire: Elaje poteva contare a Ballarò su una fitta rete di affetti e di soggetti che provenivano dal suo stesso villaggio, alcuni dalla sua stessa casa. Persone che avrebbero potuto collaborare ma nessuno fu chiamato.

Senegalesi all'oratorio di Santa Chiara, a Palermo

Senegalesi all’oratorio di Santa Chiara, a Palermo

Elaje rimase ricoverato per due settimane durante le quali la dottoressa non modificò mai l’opinione formatasi durante la prima visita. Tra l’altro, essendo un ragazzo estremamente conciliante e avendo compreso che il suo comportamento generava preoccupazione in chi lo circondava, cominciò a dire che le voci erano cessate allo scopo di tranquillizzare il nipote e gli amici che sapevano quanto stesse accadendo. Temendo le reazioni delle persone, infatti, la cerchia più intima degli amici aveva evitato di divulgare la notizia del ricovero e giustificò l’allontanamento da casa con un viaggio a Brescia, da un fratello.

All’atto della dimissione il disturbo di Elaje pareva regredito. Nella lettera che gli fu consegnata, oltre alla terapia farmacologica, era indicato di seguire una terapia di sostegno presso l’Asl di riferimento. Io stessa lo accompagnai ai primi due appuntamenti. Fu in quelle occasioni che scoprii che lui udiva ancora le voci che gli dicevano cosa fare e che gli avevano indicato di continuare nella lotta contro gli antirazzisti. Il medico che incontrò all’Asl era particolarmente interessato ai pazienti che sentono le voci e mi sembrò che avesse un approccio più olistico di quello della dottoressa che lo aveva in cura durante il ricovero. Gli appuntamenti erano settimanali. Dopo il secondo appuntamento, però, Elaje, consigliato dal nipote che sentiva il peso della responsabilità e che era convinto che il cambio di contesto gli avrebbe giovato, si trasferì veramente a Brescia dal fratello.

Era quasi primavera quando salì sul treno che lo avrebbe condotto al nord. Continuava a essere in contatto con il nipote e gli amici che vivevano a Palermo cui diceva di star bene e che si stava organizzando per iniziare una nuova vita. Salutava dicendo che sarebbe ritornato non appena la questura lo avesse chiamato. Un sabato pomeriggio, però, la voce decise diversamente. Gli disse che la sua anima doveva purificarsi. Elaje uscì, comprò una bottiglia di candeggina, tornò a casa, ne versò una certa quantità in un bicchiere, scrisse una lettera, bevve il liquido. Probabilmente, se non fosse stata la paura per la sua condizione di clandestino, sarebbe stata un’altra la causa scatenante della sua malattia, oppure, chissà, sarebbe potuta rimanere latente, o manifestarsi in piccoli episodi isolati. Chissà. Elaje, di certo, dopo 24 ore di dolori atroci, è morto.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Riferimenti bibliografici
Bei F., 2016 «Alfano: clandestinità, una norma sbagliata, ma ora deve restare», in La Repubblica, 10 gennaio 2016.
Ciriaco T., 2016, «Immigrati clandestini, retromarcia del governo sull’abolizione del reato», in La Repubblica, 9 gennaio 2016.
Legge 15 luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, in Gazzetta Ufficiale, n. 170, 24 luglio 2009, Supplemento ordinario n. 128.
Sasses S., 2015, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, il Mulino Bologna.
Vassallo Paleologo F., 2012, Diritti sotto sequestro. Dall’emergenza umanitaria allo stato di eccezione, edizioni Aracne Roma.

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Daria Settineri, dopo aver conseguito la laurea in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Palermo, nel 2013, ha acquisito un Ph.D in Antropologia della Contemporaneità all’Università Milano-Bicocca, con una tesi riguardante il rapporto tra migrazione, gestione di spazi urbani, criminalità organizzata e istituzioni a Palermo nel quartiere di Ballarò. Ha vissuto alcuni anni in Tunisia dove ha lavorato, tra l’altro, sull’impatto dell’esperienza migratoria sui riti matrimoniali in un sobborgo urbano di Tunisi e sulla migrazione dei siciliani durante il XX secolo. Ha pubblicato saggi e studi su dinamiche migratorie, storie di vita e metodologia della ricerca etnografica.

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