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La Piccola Sicilia di Tunisi nei racconti di Cesare Luccio

img_6796di Marinette Pendola

La pubblicazione del romanzo 5 hommes devant la montagne (1933) [1] liberò in qualche modo il suo autore, Cesare Luccio (Tunisi, 1906-Genova, 1980), dall’impellente necessità di ribaltare la visione negativa che i francesi esprimevano nei confronti degli italiani di Tunisia, visione ampiamente alimentata dalla letteratura coloniale e in special modo dal romanzo di Georges Duhamel, Le Prince Jaffar (1924). Tuttavia, pur non sentendosi più asservito a tale obbligo, Luccio continuò a manifestare nella sua scrittura l’esigenza di fare emergere un’ampia fetta della società coloniale, quella degli umili lavoratori siciliani colti nella loro quotidianità. E non lo fece con un’opera di ampio respiro bensì con una serie di racconti, alcuni dei quali pubblicati nel 1934 in una raccolta dal titolo Humbles figures de la cité blanche ou La Sicile à Tunis.

La raccolta comprende sei racconti di lunghezze diverse, che orbitano tutti intorno a un unico ambiente sociale, quello dei siciliani stabilitisi a Tunisi nel quartiere della Piccola Sicilia. Per mantenere uno sguardo imparziale che sembra essere una cifra indispensabile della sua scrittura, l’autore non sente il bisogno di creare un personaggio estraneo all’ambiente, come aveva fatto nel suo romanzo mettendo in campo un narratore dall’origine ambigua, Jean Ahmed. Lui stesso, di origine sarda, è, come scrive Yves Châtelain nella prefazione, «abbastanza lontano da loro per poterli osservare dall’esterno con totale imparzialità e abbastanza vicino da cogliere il loro animo dall’interno e dipingerlo con amore» [2].

La raccolta è congegnata in modo da costituire una struttura in cui si evidenziano due parti ognuna con tre racconti. I primi tre, pur nella diversità delle trame, ruotano tutti intorno ad alcuni eventi della Piccola Sicilia, piccoli fatti quotidiani che fanno emergere il carattere dei personaggi e le condizioni di vita difficili con cui devono far i conti. Eccone brevemente le trame: in Carruzzedda, una giovane coppia che vive in un patio non può sposarsi per mancanza di denaro. Tutti gli abitanti del piccolo patio decidono di unire le proprie forze per organizzare la fuitina degli innamorati. Ciò permetterà di celebrare il matrimonio religioso senza che la famiglia si senta in obbligo di organizzare una festa. In La dernière farce, due vecchietti credono di aver vinto alla lotteria, mentre l’organizzatore è fuggito con il denaro. Peppe u Fissa narra la storia di un orfano accolto in una famiglia di pastai, che diventa in pochi anni un artigiano eccellente e finisce per sposare la figlia del padrone. Interessante è rilevare che questi tre racconti mettono in campo gli stessi personaggi: Rosario Mangiaracina, Nunzio Meli e Peppino Giangrasso, protagonisti come capifamiglia del primo racconto appaiono in Peppe u Fissa come vicini dirimpettai. Il becchino Don Michele Ingamba, protagonista di La dernière farce, fa una breve apparizione in Carruzzedda come semplice cliente dell’osteria in cui gli uomini s’incontrano la sera. Questa circolarità dei personaggi crea nel lettore l’impressione di una forte coesione sociale: per passare da una storia all’altra basta semplicemente attraversare la strada. Personaggi totalmente diversi fra loro per carattere e storia personale si ritrovano uniti dalle stesse difficoltà quotidiane e dal senso fortissimo dell’onore e del rispetto gli uni nei confronti degli altri.

img_6794Il racconto Atavisme spezza quest’unità dando inizio alla seconda parte in cui emergono elementi nuovi che esprimono un’evoluzione nella scrittura di Luccio. La divisione è evidenziata chiaramente da una pagina pubblicitaria relativa al romanzo 5 hommes devant la montagne. Ora, considerando che le opere di Luccio sono edite da Pelletier a Parigi ma stampate a Tunisi da Saliba di cui il Nostro è direttore, appare evidente che l’impaginazione dell’intera raccolta non è casuale ma esprime con totale adesione la volontà dell’autore. La suddivisione volutamente schematica indica chiaramente che, pur mantenendo la stessa ambientazione e lo stesso tema di fondo, lo scrittore passa ad altro. Atavisme racconta la storia di una vecchia coppia che, dopo una vita di naturale parsimonia senza grossi sacrifici [3], si è discretamente arricchita e, rendendosi conto di aver accumulato più denaro del necessario, decide di educare il figlio e poi il nipote a godere finalmente dell’agiatezza ma buon sangue non mente… 

L’urgenza etnografica che aveva animato finora la scrittura di Luccio, e già via via attenuatasi nei primi racconti, sembra qui passare del tutto in secondo piano e non avere più quell’impellenza. I personaggi sono tratteggiati alla Maupassant. Sebbene si tratti sempre di persone semplici che vivono nella Piccola Sicilia, sono tuttavia posti in rilievo i loro caratteri mentre l’ambiente e le abitudini sociali quasi scompaiono o comunque appaiono piuttosto sfumati. Pur descrivendo le abitudini siciliane riguardo al culto dei morti, anche il racconto successivo, Jeux d’enfants, fa emergere un elemento che si farà strada nella scrittura di Luccio, ovvero il bisogno di dar rilievo alla necessaria apertura verso gli altri gruppi etnici e alla possibilità di una convivenza serena, elemento che, anche in altri autori suoi contemporanei, prende sempre più forma in un momento in cui va formandosi quella Tunisia multietnica assurta successivamente ad esempio. In questo racconto viene narrato l’incontro fra le famiglie siciliane che si trovano, in modo chiassoso e persino allegro, a commemorare i morti nel cimitero della città e la vedova Madame Le Bihan, una bretone chiusa nel proprio dolore e nella solitudine, che finirà, per il tramite di una bambina, per non indignarsi più di fronte a modi tanto diversi di onorare i morti. I bambini sono i protagonisti anche dell’ultimo racconto, Momo et Khemaïs, che mette in scena l’amicizia fra un bambino tunisino e uno siciliano nata nell’oratorio di una povera parrocchia e durata una vita intera.

11La scrittura di Luccio non indugia mai nel descrittivismo pittoresco poiché l’autore non si pone da spettatore divertito di fronte al tema prescelto né evoca il colore locale come mezzo primario di espressione, ma, al contrario, penetra in profondità nelle storie che racconta e, dall’interno, esprime, talvolta con ironia e sempre con delicatezza, la sua totale empatia nei confronti di questi umili eroi della lotta quotidiana per la sopravvivenza. Con semplicità di mezzi, spogliando la sua scrittura da fronzoli e barocchismi, Luccio ci consegna una visione della parte più umile della società europea di Tunisia degna di attenzione non solo per la critica letteraria ma oggi anche per l’analisi storica e sociologica. E sebbene questa sobrietà di stile rischi di nuocere al suo successo, l’autore non se ne fa cruccio poiché la sua massima ambizione è quella del lavoro ben fatto, come scrive in Risposta a un giovane pittore [4]: 

«Il successo giunge talvolta subito (e non di rado, in questi casi è effimero), talvolta dopo anni e anni di fatiche, e talvolta non giunge mai. Che importa? La vera soddisfazione, la vera gioia, quella di aver sempre fatto del proprio meglio, con la massima coscienza, non abbandona mai chi ha lavorato con questo spirito».

Queste parole risuonano come un testamento spirituale e dovrebbero sempre accompagnare il lavoro di ogni scrittore. Per permettere di cogliere meglio lo stile di Cesare Luccio, di seguito sono presentati alcuni brani tratti dai racconti contenuti ne La Sicile à Tunis e da me tradotti. 

Da Peppe u Fissa: 20-21

All’epoca del loro matrimonio, Don Nino e Donna Sarina Milazzo avevano impiantato un pastificio che li stava pian pianino conducendo verso un’onesta agiatezza.
Era una fabbrichetta di quartiere interamente costruita in legno, con enormi ingranaggi e un torchio tozzo con le basi un po’ traballanti, che lanciava lamenti da giovane donna viziata mentre partoriva mucchietti ridicoli di pasta bionda.
La coppia ebbe ben presto una bambina, Ciciuzza, ma una malattia di Donna Sarina tolse ogni speranza d’avere altri figli.
Una sera, – Ciciuzza poteva avere dieci anni – Don Nino, che da qualche settimana si radeva le guance rosa per sembrare più giovane, era seduto davanti alla porta di casa per godersi un po’ di fresco dopo una giornata soffocante. Il suo sguardo fu attratto da una strana figura: un ragazzino di una dozzina d’anni, a malapena vestito di tela blu, con i piedi nudi, veniva verso di lui. Questo bambino piangeva; aveva incrociato le braccia all’altezza delle spalle e, con la testa sprofondata nella piega dei gomiti, procedeva a grandi passi, alzando ogni tanto gli occhi per non cadere. Questo bambino piangeva dando in singhiozzi enormi, lenti e dolorosi, che gli sollevavano il petto e finivano in rantoli come di bestia ferita. Quando fu alla sua altezza, Don Nino lo afferrò per un braccio:
«Chi ci fu, figghio meo? Picchì chiangi accussì?»
Il bambino abbassò le braccia e mostrò una testa enorme; piangendo con il viso nella piega dei gomiti sporchi, si era imbrattato gli zigomi sporgenti, il naso dalle narici immense e le grosse labbra da cui spuntavano enormi denti giallognoli.
«Morse me màa.» disse e, alzando di nuovo le braccia, si accinse a partire.
Don Nino insisté:
«Come ti chiami?»
Alcuni vicini si approssimarono. Don Rosario Mangiaracina, Don Nunzio Meli e Don Peppino Giangrasso, tre bravi manovali, attraversarono la strada portandosi appresso un tanfo di terra fresca e di letame. Don Rosario Giambrutto, il calzolaio, sollevò la grossa testa dai capelli rossicci, posò gli occhiali cerchiati di metallo e uscì dalla sua bottega. Alcune donne lasciarono le loro cucine, altre spinsero via il bambino che tenevano fra le gambe per cercare pidocchi fra i loro capelli. Ben presto, il ragazzino fu circondato da una piccola folla silenziosa in mezzo alla quale Don Nino ripeté:
«Qual è il tuo nome?»
«Peppe»
«Peppe socco?»
«Un saccio nente.» rispose il povero piccolo esasperato. «Morse me màa, lassatemi ire, lasciatemi andare.»
Don Nino alzandosi gli sbarrò allora la strada e chiese:
«Dove vai?»
«Un saccio nente» ripeté il bambino «Lassatemi stare». 

Da Atavisme: 38

Passarono alcuni anni. Rosario si sposò e nacque l’erede. La nuova coppia si sistemò in un piccolo appartamento dei genitori, ma i due vecchi non lasciarono la loro casa. Presero ben presto l’abitudine di andare a trascorrere lunghe giornate accanto alla culla del piccolo Pino, il felice mortale che avrebbe speso il loro denaro.
E Pino crebbe. Un giorno in cui si trovava dai nonni – aveva circa tre anni –, questi ultimi decisero di avviarlo bruscamente sulla via dell’agiatezza. Ebbero un gesto che nessuno avevamai avuto per loro, un gesto di cui il figlio non aveva mai goduto. Rivolgendo a Dio una muta preghiera affinché non ne facesse un grande depravato, gli misero in mano una moneta da cinque soldi e, con il batticuore, gli dissero:
«Corri dal droghiere di fronte. Comprati quello che vuoi».
Il piccolo tornò presto con un grosso pacchetto sotto il braccio e i due vecchi corsero verso di lui:
«Cos’hai comprato?»
«Ecco!» disse il bambino «N’a ciachecca.»
E aprendo il pacchetto, ne estrasse un enorme salvadanaio in argilla. 
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Si veda Dialoghi Mediterranei, n° 65, gennaio 2024.
[2] Tutte le citazioni tratte dalla raccolta sono tradotte da me.
[3] «Non si privò mai di nulla, ma seppe semplicemente non desiderare altro oltre allo stretto necessario per vivere e star bene» (ivi:37).
[4] “Risposta a un giovane pittore”, in Corriere di Tunisi, 17 maggio 1958: 2.

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Marinette Pendola, scrittrice, è nata a Tunisi da siciliani nati a loro volta in Tunisia. Partita da Tunisi nel 1962, da allora vive a Bologna. Ha pubblicato: L’alimentazione degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi, 2006; Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Gualdo Tadino, 2007. Per la narrativa, i romanzi: La riva lontana, 1° ed. Sellerio, 2000; 2° ed. Arkadia 2022; La traversata del deserto, Arkadia, 2014; L’erba di vento, Arkadia, 2016; Lunga è la notte, Arkadia, 2020.

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