Un tempo il mondo sembrava un posto semplice, facile da capire. La civiltà euro-americana ne era leader indiscussa ed esercitava il proprio controllo imponendo direttamente o indirettamente – a volte con violenta coercizione, altre con “dolce” persuasione – ideologie politiche, modelli economici, stili di vita, mode, immaginari. In altre parole, definiva senza appello che cosa fosse normale e che cosa non lo fosse. Le categorie, allora, erano nettamente distinte e la storia, soprattutto dopo la fine delle “grandi narrazioni” novecentesche, pareva definitivamente (e pacificamente) avviata lungo un binario definito e privo di sorprese; per alcuni intellettuali la storia, intesa come spazio dialettico di incontro/scontro tra punti di vista differenti, era addirittura finita il 9 novembre 1989.
C’era una volta l’Indigeno
Gli europei lo frequentavano da secoli, ma avevano cominciato a delinearne con attenzione contorni e caratteristiche piuttosto tardi, da quando gli interessi politici in Africa, nelle Americhe, in Asia e in Oceania si erano intrecciati inestricabilmente alla pura e semplice curiosità. A partire almeno dalla seconda metà del XIX secolo, infatti, gli amministratori coloniali avevano capito di aver bisogno di comprendere in profondità l’alterità culturale per governare adeguatamente popoli tanto strani e avevano favorito la nascita di una scienza in grado – almeno queste erano le intenzioni iniziali – di fornire conoscenze utili a gestire razionalmente i territori d’oltremare.
L’Indigeno era radicalmente altro. Viveva in spazi chiusi e si mostrava coerente nei suoi modi di fare e di pensare, ancorato com’era alla terra natia e a tradizioni ancestrali. Il divenire storico non l’aveva mai interessato, almeno fino all’incontro con i colonizzatori. All’inizio gli occidentali lo avevano guardato con sdegno e accondiscendenza perché arretrato, selvaggio e primitivo; poi, con il passare del tempo e l’evolversi della relazione, egli aveva guadagnato punti ai loro occhi fino a diventare un fiero esponente della ricchezza delle culture umane travolto dal progresso: portavoce della propria irripetibile cultura e, allo stesso tempo, modello degli infiniti modi implementati dai Sapiens per essere umani.
L’Indigeno appena conosciuto e studiato scientificamente appariva però in crisi: perdeva inesorabilmente la candida purezza che conservava dalla notte dei tempi; moriva sotto le armi e le malattie arrivate da fuori; il suo universo simbolico, concettuale e materiale scompariva con l’avanzata della modernità. La diagnosi era impietosa: articolate visioni del mondo, straordinari saperi intellettuali e materiali svanivano senza alcuna possibilità di essere salvati. All’uomo bianco, dunque, toccava in sorte un nuovo “fardello”, un’occasione di redenzione: caduto il mito dell’educazione dei “bruti”, non restava che rendere loro un estremo omaggio costruendo un archivio di culture da strappare all’oblio. Mentre l’agenda politico-economica internazionale tendeva ad omologare tutto alla realtà così com’è, un settore marginale della scienza occidentale avrebbe fissato per sempre il valore delle civiltà destinate a sparire. Non era molto, e di sicuro non avrebbe cancellato le colpe storiche degli europei, ma l’Indigeno avrebbe almeno continuato a parlare – eterno, locale, compatto e tradizionale – nelle pagine vergate in Occidente.
Lo spazio politico, culturale ed economico che aveva imposto la sua velocità al mondo intero e che aveva determinato, almeno dal 1492 in poi, il corso della Storia umana; dapprima inventore della Modernità, alfiere del progresso unidirezionale e vertice della civiltà tutta; successivamente custode di democrazia, libertà e diritti, l’Occidente era cresciuto e prosperato nella certezza di non perdere mai, qualunque cosa sarebbe accaduta, la propria leadership di guardiano dei valori umani universali.
C’era una volta l’Antropologia
La scienza dell’alterità aveva trovato nell’esistenza dell’Indigeno incontaminato la propria ragione d’essere, l’oggetto che la distingueva da tutte le altre discipline umane e sociali, il quid che la rendeva rilevante nello spazio pubblico. L’antropologia, sapere occidentale puntato sugli universi esotici, aveva assunto così su di sè tutte le ambiguità dello spazio politico-culturale in cui era nata: figlia del colonialismo da una parte (volontà di potere), prodotto del rimorso dall’altra (volontà di sapere), essa aveva approntato col tempo griglie interpretative sempre più fini e sofisticate per studiare la diversità, renderne conto e salvarla dall’oblio prima che scomparisse sotto i colpi inesorabili dell’acculturazione coatta. Mentre avanzava lungo questo sentiero, tuttavia, anziché avvicinarsi all’essenza delle culture così come le aveva fin qui concepite – ataviche, isolate, autentiche –, l’antropologia aveva finito col perdersi in rompicapi sempre più irresolubili: l’autenticità esiste realmente là fuori oppure è solo l’esito di classificazioni? Chi ha il potere di classificare? La Storia è una linea unidirezionale e necessaria? Che cosa sono le culture? Chi è davvero un Nativo? Che cos’è davvero l’Occidente? A che cosa serve, in fondo, l’antropologia?
Il mondo, insomma, a guardarlo da vicino, cominciava ad apparire molto meno semplice di quanto si fosse creduto fino a quel momento: i confini non erano poi così rigidi; gli spazi (materiali, politici, economici, simbolici) non così definiti e delimitati; le categorie non così lampanti; la storia non così unidirezionale; le culture e le società non così nettamente localizzabili sulle carte geografiche. C’era infine un piccolissimo e sconvolgente particolare: gli indigeni, pur tra indicibili difficoltà e sofferenze, erano ancora vivi. Se la Modernità occidentale aveva indubitabilmente occupato ogni angolo del globo, essa non aveva però travolto tutto, né provocato quella “fine della storia” teorizzata (e in fondo auspicata) da molti. Si era semmai diluita e polverizzata in mille e mille espressioni locali determinando, nel contatto con l’alterità, emergenze nuove. Due fenomeni, insieme collegati e opposti, avevano poi contribuito a scompaginare le carte e a metterla definitivamente in discussione: la decolonizzazione e la globalizzazione.
La «terra», tutt’a un tratto. «ha tremato»
James Clifford è uno dei cantori più originali di questo rimescolamento categoriale, uno degli osservatori più acuti dei blurred genres e dei confini sfumati che contraddistinguono il nostro tempo. Antropologo atipico, per alcuni in verità un imbucato che non ha mai attraversato il rito di passaggio dell’etnografia esotica, Clifford si è divertito negli ultimi decenni a smontare le sicurezze della civiltà occidentale e della disciplina – l’antropologia – che storicamente ha tentato di mediare tra questa e le sacche di alterità sopravvissute alla sua inesorabile avanzata. Nel 1986 (Writing Culture: the Poetics and Politics of Ethnography), insieme a George Marcus, ha battuto fino ai margini più estremi la pista inaugurata da Clifford Geertz negli anni Settanta e ha analizzato la produzione antropologica secondo categorie letterarie: le monografie etnografiche – ha sostenuto – sono “finzioni” non solo nella rassicurante accezione latina di “costruzioni”; sono “finzioni” perché contengono un certo grado di distorsione che in definitiva le rende indipendenti dall’esperienza cui simulano di richiamarsi fedelmente. Molti dei nodi disciplinari, dunque, celano problemi retorici che hanno a che fare con rapporti di potere e capacità di definizione contingenti.
Tra il 1988 (The Predicament of Culture: Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art) e il 1997 (Routes: Travel and Translation in the Late Twentieth Century), invece, ha smontato i concetti di “cultura”, “campo”, “località”, “identità”, “alterità” per mostrare come la separatezza degli spazi (fisici, simbolici, politici) altro non sia che il frutto di un determinato tipo di sguardo e per rilevare come l’incontro/scontro tra l’Occidente e il resto del mondo non si sia affatto risolto in una meccanica omogeneizzazione culturale, bensì nell’emersione di effervescenze inedite da studiare inforcando lenti sempre nuove e al passo con i tempi.
Oggi, con il suo ultimo volume tradotto in Italia, Ritorni. Diventare indigeni nel XXI secolo (Meltemi, 2023; traduzione di Gilda Dina), lo studioso americano chiude una riflessione sulla contemporaneità durata quasi quarant’anni soffermandosi sull’oggetto per eccellenza della disciplina antropologica, l’Indigeno, per seguirne la traiettoria storica e i modi di sopravvivere alla radicale distruzione/destrutturazione del suo spazio tradizionale. Come cercherò di argomentare, tuttavia, l’intero libro di Clifford, suddiviso in tre ampie sezioni in equilibrio tra riflessione teorica e discussione di dati raccolti nel corso di «soggiorni di studio» sul campo, verte in realtà su questioni molto più generali – questioni epistemologiche, culturali, politiche ed economiche – che riguardano le attuali dinamiche identitarie e che si possono riassumere nelle seguenti domande: Come studiare la natura delle relazioni interculturali nell’epoca che ha visto la definitiva crisi delle vecchie categorie approntate dall’Occidente per interpretare e controllare tutto quello che gli sta intorno? Come leggere, cioè, il «profondo mutamento delle relazioni di potere e dei luoghi discorsivi […] che, in sintesi, chiamo il decentramento dell’Occidente»?
È proprio il tentativo di sciogliere questi problemi il filo rosso che attraversa i saggi del volume: il “ritorno” dei nativi su cui insiste Clifford, infatti, non può essere disgiunto dal “crepuscolo” dell’Occidente (di un certo modo di intendere l’Occidente). Mentre i nativi, e con loro tutti i portatori di alterità che si muovono in bilico tra locale e globale, diventano protagonisti della dinamica storica sperimentando quotidianamente vecchi e nuovi modi di definirsi ed esistere, il mondo euro-americano attraversa infatti un «inconcluso, ma irreversibile processo di provincializzazione» che ne mette in crisi certezze acquisite e leadership. Il mondo (una determinata modalità di vedere il mondo) è cambiato – «la terra ha tremato» – e i popoli indigeni, con la loro resistenza, il loro dinamismo e la loro contraddittorietà, possono far risaltare con accecante chiarezza molte delle aporie occidentali. Anche l’antropologia è cambiata e il suo compito, secondo James Clifford, è quello di fornire chiavi di lettura adeguate all’analisi della complessità contemporanea.
Clifford intende sviluppare un’argomentazione controintuitiva: indigeni si diventa. Contro le convinzioni del senso comune e i discorsi nativisti/indigenisti usati dalla scienza e dalla politica per ancorare i popoli aborigeni a specifiche porzioni di territori e a tradizioni normative, “essere nativi” è una performance che non dipende solo dalla nascita in un determinato luogo, bensì da scelte storiche contingenti che intersecano molteplici piani: politici, economici, simbolici, ideologici, identitari, sociali, etc. Clifford legge le dinamiche innescate dalla collisione di tali livelli alla luce dei due eventi epocali prima ricordati: la decolonizzazione e la globalizzazione. Questi fenomeni costituiscono lo sfondo mutevole, cangiante, ambiguo della sua ricostruzione storico-etnografica: i gruppi indigeni, per quanto sconfitti, decimati e investiti ovunque da immani tragedie, non sono scomparsi del tutto. Molti di loro sono riusciti faticosamente a ridefinire sé stessi e a trovare agibilità politica attingendo al passato tradizionale, trovando vie alternative e/o giocando abilmente con le briciole di modernità cadute dal tavolo dei colonizzatori. La capacità di resistere di queste culture, scrive Clifford, «è un processo in divenire» in cui decolonizzazione, globalizzazione e agentività indigena «si costruiscono, rafforzano e complicano a vicenda» costruendo storie «abbastanza grandi» in cui «le forze politiche, economiche, sociali e culturali si intersecano senza formare un tutt’uno».
Per cogliere questi aspetti, l’antropologo newyorkese tratteggia i contorni di un rinnovato realismo. Tale realismo, avverte Clifford, non ha nulla a che fare con un semplice atto descrittivo che pretenda di fotografare realtà oggettive e ben delineate, né con celebrazioni romantiche, critiche sagaci o interpretazioni funzionalistico-teleologiche dell’identità indigena. Il realismo concepito da Clifford, al contrario, intende adottare «un atteggiamento di apertura critica, un metodo per relazionarsi a trasformazioni storiche complesse e a percorsi incrociati nel mondo contemporaneo». Vuole indicare chiaramente, cioè, che i fenomeni odierni non sono più – ammesso che lo siano mai stati – inquadrabili in categorie distinte e chiaramente definite. L’indigènitude di oggi – Clifford ricalca questo concetto sulla negritude rivendicata dai movimenti anticolonialisti francofoni del XX secolo – è fenomeno troppo complesso per essere esaurito da spiegazioni rigide e mono-casuali. L’indigènitude è insieme tradizionale e moderna: i suoi creatori «riscoprono le tradizioni e […] stabiliscono legami in base a storie coloniali, postcoloniali e globalizzate condivise». L’indigènitude lavora pertanto su livelli differenti sfruttando i materiali via via disponibili:
«è una visione della liberazione e della differenza culturale che sfida, o quantomeno reindirizza, i piani di modernizzazione degli stati-nazione e del capitalismo transnazionale. […] viene performata alle Nazioni Unite e all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ai festival artistici e culturali, agli eventi politici e in molti viaggi e incontri informali. […] non è tanto un’ideologia coesa, quanto una concatenazione di fonti e progetti che opera su molteplici scale: tradizioni locali (parentela, rinnovamento della lingua, caccia di sussistenza, protezione di luoghi sacri); piani e simboli nazionali (sovranità hawai’iana, politiche maya in Guatemala, mobilitazioni maori in Aotearoa/Nuova Zelanda); e attivismo transnazionale (il movimento “Red Power” negli anni Sessanta della controcultura, o gli odierni movimenti sociali interessati ai valori culturali, all’ambiente e all’identità, movimenti spesso alleati alle organizzazioni non profit). […] è sostenuta attraverso immagini diffuse dai media che includono un repertorio simbolico condiviso (il “sacro”, la “Madre Terra”, lo “sciamanesimo”, la “sovranità”, la saggezza degli “anziani”, la custodia della “terra”)».
Essa ospita al suo interno tendenze centrifughe apparentemente inconciliabili: localismo e diaspora, resistenza al capitale globale e allo Stato neoliberale e gioco creativo con le categorie politico-economiche, vecchio e nuovo, cultura tradizionale e sincretismi innovativi. L’idea di indigenismo internazionale, pertanto, da ossimoro diventa una realtà sempre più solida che va indagata localmente, nelle sue diverse e idiosincratiche espressioni, e globalmente, nell’arena pubblica planetaria soggetta a flussi difficilmente controllabili (politicamente, economicamente, cognitivamente) di idee, simboli, valori, persone, merci.
La riflessione teorica di Clifford ha l’ambizione di condurre antropologia e storia verso il «Santo Graal» dell’analisi socioculturale: «un realismo decentrato, multidimensionale e non riduttivo, che lavora tra ciò che viene determinato, senza determinismo». In altre parole, «un approccio combinato, che sintetizzi struttura e processo», che non perda, cioè, di vista il quadro generale per inseguire una serie sterminata di collage etnografici, né corra il rischio di applicare meccanici riduzionismi che vedono nell’esaltazione della differenza solo una «derivazione o un “prodotto” del potere strutturale». L’indigeneità odierna, infatti, è per Clifford il risultato di tre movimenti contingenti e continuamente (ri)generantesi: «articolazione», «performance» e «traduzione». Cogliere queste caratteristiche significa rifiutare l’idea che essa riguardi (solo) improbabili attaccamenti atavici/trans-storici (lettura primordialista dell’identità) e, all’inverso, l’ipotesi che essa sia figlia (solo) della dottrina multiculturalista funzionale all’ottenimento di risorse e vantaggi simbolico-materiali (lettura strumentale dell’identità).
Insistere su tali aspetti vuol dire invece evocare «un senso più profondo del “politico”: processi produttivi di consenso, esclusione, alleanza e antagonismo che sono connaturati nella vita trasformativa di tutte le società». Così facendo, ribadisce l’antropologo americano, è possibile analizzare adeguatamente, senza escluderli o ingabbiarli in tassonomie rigide, anche i tratti più contraddittori del diventare indigeni oggi: quelli che oscillano, secondo i contesti e gli spazi di agibilità, dal nativismo più esasperato, con la sua retorica delle origini (noi siamo qui da molto prima di voi), all’identità diasporica agita e performata nello spazio reale e virtuale, locale e globale, anche in assenza di evidenti tratti aborigeni tipici. Così facendo, insomma, è possibile cogliere il carattere articolato del diventare/ritornare nativi ammettendo definitivamente che gli indigeni sono attori a tutti gli effetti di quella storia da cui l’Occidente li ha sempre esclusi: prima del contatto perché immobili e “freddi” (secondo la nota accezione di Lévi-Strauss), dopo il contatto perché mute vittime da proteggere.
Ogni volta che leggo Clifford, lo ammetto, ho l’impressione di vivere in un mondo bellissimo, giusto e ricco di straordinarie opportunità per chiunque. L’incedere cristallino e pacato dell’argomentazione e l’indugiare curioso sulle sintesi prodotte dagli (e negli) incontri interculturali mi trasmettono l’impressione che tutto alla fine si risolve per il meglio: i quotidiani squilibri di potere, le violenze strutturali, le asimmetrie politiche, economiche, sociali e culturali, infatti, nelle sue pagine sono oscurati dalle identità ibride e meticce che si producono ogni giorno. Clifford seduce raccontandoci il “senso di casa” che il popolo yup’ik ha costruito nel tempo – «sebbene un individuo non abbia bisogno di abitare la terra ininterrottamente per conservare una relazione con essa», scrive, «l’esistenza della terra originaria è al centro dell’identità yup’ik contemporanea» –, ma ci fa un po’ perdere di vista l’espropriazione materiale che essi hanno subìto e le difficoltà che sono ancora costretti a sopportare. Oppure ci fa rallegrare per il ritorno temporaneo delle maschere tradizionali dei Sugpiaq all’Alutiiq Museum and Archeological Repository dell’arcipelago Kodiak, senza soffermarsi fino in fondo sul dislivello ancora evidente tra le parti (nativi spogliati di terre e cultura materiale Vs discendenti dei coloni francesi che oggi concedono opere d’arte in prestito). Il progetto di Clifford, da questo punto di vista, ogni tanto dà l’impressione di smarrirsi nei mille rivoli del suo stesso “realismo”: inseguendo «un senso più profondo del “politico”», infatti, rischia di lasciare poco discussi i concreti spazi politici di deprivazione, segregazione e marginalizzazione in cui si muovono le società tribali.
Si tratta, tuttavia, di un azzardo che l’antropologo newyorkese sembra voler compiere consapevolmente: nella sua analisi della complessità, la condivisibile volontà di superare approcci monodimensionali, riduzionistici e deterministici – in particolare quelli che vogliono rappresentare i nativi contemporanei come soggetti marginali che si limitano a reagire in qualche modo alle sollecitazioni del sistema di oppressione neoliberale e neoliberista che li controlla –, prevale sul riconoscimento che non è tutto oro quel che luccica. Clifford, insomma, sa bene che le griglie interpretative da lui approntate per leggere le odierne dinamiche identitarie potrebbero sottovalutare, se adottate acriticamente, la violenza reale che i popoli nativi continuano a sperimentare:
«La teoria dell’articolazione non può spiegare ogni cosa. Portata all’estremo può condurre a un punto in cui ogni forma culturale, ogni struttura o ristrutturazione, ogni connessione e disconnessione, ha una contingenza radicale, come se in qualsiasi momento tutto fosse possibile».
Ecco, non tutto è possibile. Non ancora almeno. Clifford lo sa, ed è forse per questo che nella seconda parte del volume la sua narrazione – ripercorrendo la storia di Ishi, il celebre indiano californiano protagonista di una drammatica amicizia con Alfred Kroeber – si fa sfumata, evocativa, utopica. L’autore nel Prologo è sibillino: «La sfida è immaginare altre direzioni e altri movimenti nella storia, sviluppi che avvengono insieme e separatamente. Qui, Ritorni esaurisce il linguaggio». Che cosa intende esattamente? Probabilmente vuol dire che un “progetto realista” come quello portato avanti nel suo libro è inevitabilmente trasformativo e che arrivati oltre un certo livello di analisi della complessità il solo linguaggio della scienza non basta più.
Non appare casuale, allora, il ricorso alla narrativa fantascientifica, così permeata di sensibilità antropologica (ed ecologica, femminista, taoista, anarchica), di Ursula Kroeber Le Guin. In The Word for World is Forest (1972), la scrittrice americana immagina un tragico incontro/scontro interculturale che finirà col cambiare inesorabilmente tutte le parti in causa. Al termine della vicenda, gli umani Athshiani (nativi) e gli umani terrestri (coloni) non saranno più gli stessi: mentre sullo sfondo si prospetta la nascita di un’ecumene galattica, nessuno di loro potrà ritornare al “mondo pre-contatto” perché, nella costruzione della nuova società del dopo, “guardare indietro” è inseparabile dal “guardare avanti”. Clifford usa allora Le Guin per alimentare il suo “realismo” e mostrare «il progetto e le difficoltà del costante divenire (e del non riuscire a divenire) postcoloniali». Storia, antropologia e immaginario narrativo possono concorrere a delineare strade per tracciare nuovi modi di fare socialità: «Quali sono i mondi e le coalizioni reali, quelli realmente immaginabili, che potrebbero guidare nuove forme di reciprocità e convivialità?»
Alla luce di quanto evidenziato sin qui, e come già accennato in avvio, sarebbe riduttivo leggere Ritorni come un semplice lavoro sui popoli nativi. Il volume di James Clifford è piuttosto un ben più ampio affresco sulla natura performativa e trasformativa di tutte le relazioni interculturali. Esso, da una parte, intende riconoscere il ruolo attivo dei gruppi indigeni nella storia (non certo schiavi della tradizione, vittime sofferenti o romantici custodi di filosofie salvifiche per un Occidente in crisi); dall’altra, sottopone a critica serrata le categorie che per troppo tempo hanno corroborato il rapporto intrattenuto dalle società euroamericane con la diversità. Soprattutto, ci mostra che culture, società e identità sono, lo sono sempre state, strettamente interconnesse.
I confini sono evanescenti e sfumati (linee immaginarie, per quanto tremendamente reali). Il mondo “continua a tremare”. Urge la costruzione di uno sguardo che, abbandonando le illusioni etnocentriche e prendendo gli altri veramente sul serio, sappia cogliere dettagli e immaginare possibilità. Non, si badi, allo scopo di setacciare i saperi indigeni in cerca di soluzioni preconfezionate alle crisi globali innescate da un certo modo di pensare e produrre (catastrofi ambientali e sanitarie, stati di guerra endemici, disuguaglianze economico-sociali sempre più marcate, etc.), secondo una postura neocoloniale basata su una cinica appropriazione culturale, bensì per approntare risposte collettive alle sfide del futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
__________________________________________________________________________
Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
______________________________________________________________