Giuseppe Ungaretti, in un frammento colto dalle teche Rai (e pubblicato su youtube tre anni fa) propone una riflessione fondamentale sul nesso tra poesia e guerra; o meglio, sulla sostanza della “parola necessaria” che sembra scaturire, stando alla lettera di quello che racconta il grande poeta della sua esperienza in uno dei fronti della Prima Guerra mondiale, dall’animo dell’uomo nel momento in cui l’individuo si trova in una situazione così definitiva, così vicino alla morte, sua e degli altri individui. Questa la trascrizione letterale dell’intervento di Ungaretti.
«La poesia scritta in quegli anni è una poesia di parole isolate nel silenzio. La musica dopo Webern tiene molto conto del silenzio ma non era credo lo stesso sentimento o la stessa necessità espressiva quella che mi muoveva a concentrarmi nella parola a quel modo. In presenza della morte, circondato da uomini che da un momento all’altro potevano morire ed io stesso avrei potuto morire, non avevo tempo che per poche parole, quelle fondamentali che mi si presentavano in quel momento allo spirito, per esprimere il mio animo e l’animo degli altri che soffrivano della stessa mia sofferenza, compresi i nemici che mi stavano davanti che io non ho mai considerato come nemici ma come uomini chiamati a soffrire chissà per quale fatalità di espiazione o per quale errore degli uomini».
La riflessione di Ungaretti sul senso e la stessa forma della sua poesia ci fornisce innumerevoli tracce e suggerimenti sulla poesia stessa più in generale ma altre, forse più incisive e profonde, sul linguaggio, su quei passaggi necessari e inesorabili, pregnanti anche, che costituiscono la sua natura e che spesso, troppo spesso dimentichiamo. Inevitabile, credo, l’accostamento con quanto stiamo vivendo oggi: mutatis mutandis, non siamo materialmente al fronte nel pieno della battaglia, è vero; ma è chiaro che dopo più di un secolo ci ritroviamo comunque in un mondo più stretto e più condiviso in cui non c’è troppo tempo e spazio per “tenersi a distanza” dal fuoco e dal fragore delle bombe.
Cerchiamo quindi di percorrere insieme alcune tracce e suggerimenti che Ungaretti sembra donarci. Il linguaggio, come la musica, sa soccorrere, affiancare la condizione umana nel momento del bisogno, quasi sempre estremo. Nel momento in cui la ragione finisce le sue possibilità di risposta di fronte all’uomo che la interroga occorre quindi aprire altre porte, altri percorsi. È una questione vitale, non una scelta. E Ungaretti questa urgenza ce la trasmette tutta. Ecco dove il linguaggio entra in gioco realmente. È qui, quando non si ha più tempo «che per poche parole, quelle fondamentali che mi si presentavano in quel momento allo spirito». Ovviamente, non per tutti gli individui, non nella stessa misura e con le stesse caratteristiche negli individui che scelgono di stare sul baratro tra una ragione ormai sterile e un linguaggio che si offre ma al prezzo della perdita di un pezzo della propria identità consolidata: oggi diremmo della nostra “confort zone”.
L’individuo non cerca, e forse non può nemmeno arrivare a ragionamenti, eppure è spinto alla ricerca, da un istinto cieco ma vitale. Un istinto che lo potrebbe anche far impazzire, ma lui ci si butta ugualmente perché tutto improvvisamente dentro una trincea, con i morti che ti piovono addosso e il bivio tra la vita e la morte che ti si presenta più e più volte, cerca un intreccio di senso che lo tenga in vita davvero. Invece dell’orrore della morte, quindi, il rischio si può correre. E la poesia di Ungaretti di quegli anni è un racconto di quell’esperienza, della “discesa” in un mondo in cui si incontrano i “nemici”, “uomini chiamati a soffrire chissà per quale fatalità di espiazione o per quale errore degli uomini” e li si tramuta in umani.
Al posto di un irrazionale che diventa forzatamente e ambiguamente razionale nella realtà percepita è innanzitutto il corpo a ribellarsi. Ma il corpo senza linguaggio rischia la pura animalità. Se quindi il linguaggio c’è, si palesa in modo autoevidente, in quel momento allora vuol dire che può, che è chiamato dall’essere a prendere parte all’apocalisse giocando la sua partita. E se può, vuol dire che la realtà è passibile di scalfitura ripartendo da quella molecola di senso che la poesia è. Quella è la vera poesia, sembra dire Ungaretti. E non può essere nient’altro. Questo il grande ammonimento sotteso nelle parole del grande poeta. Un’istanza bussa presso l’essere. E il confronto è totale, della stessa totalità della realtà. L’irrazionale del reale viene sgretolato da questa forza straordinaria delle parole necessarie, «quelle fondamentali che mi si presentavano in quel momento allo spirito (…)». È vero la parola non ferma le bombe. Ma la parola può fermare gli uomini che le sganciano. Gli uomini che di fronte alla poesia non fermano le bombe si assumono quindi una responsabilità precisa, quella di ampliare artificialmente lo spazio della ragione quando la ragione non ha più spazio e tempo. Si assumono la responsabilità di attribuire lo status di ragione al reale a prescindere dal reale stesso. La Prima Guerra mondiale, e così anche il nazismo, rappresentano agli occhi dell’umanità un passaggio, non so quanto scelto, verso l’algoritmo. Fu in quei due frangenti, suggellati poi dalla bomba atomica, che furono poste le basi di una progressiva eliminazione dell’umano dalla guerra.
Sun Tzu non avrebbe saputo proprio raccapezzarsi in un mondo così. Lui che invece, nel suo Arte della guerra, partiva proprio dall’umano per fare in modo che la guerra diventasse una necessità non necessaria. L’esercito di Sun Tzu nasce proprio da qui: dalla pratica di una guerra che cerca di evitare lo sterminio, il caos di tutti contro tutti, la regressione all’epoca tribale. E affida allo studio attento del teatro di guerra e del suo svolgimento nello spazio e nel tempo la ricognizione dei fattori che possono favorire una affermazione sul nemico limitando vittime e dispendio di energie. Oggi, invece, siamo nettamente tornati indietro. L’esercito guidato dall’algoritmo non è più direttamente implicato nel conflitto che invece usa i popoli come fattori stabilmente inseriti nel teatro di guerra. Risultato, il tribalismo da sostanza è diventato aggettivo producendo effetti del tutto identici allo scontro di tutti contro tutti. Non ci sono più territori da conquistare ma popolazioni da distruggere.
Dopo questi tre passaggi del Novecento, quindi, la ragione non può più essere praticata senza annientare se stessa, e quindi viene protesizzata attraverso la presa di responsabilità del potere. Presa di responsabilità non certo nei confronti del genere umano, ovviamente, ma verso il suo ruolo del tutto aderente all’irrazionalità che ha espunto invece del tutto l’umano. È questa la vera irrazionalità. È chiara e limpida la reazione dell’individuo di fronte allo scempio e all’orrore. È l’individuo Ungaretti alla strenua ricerca di una parola non che lo faccia sopravvivere ma che lo salvi dall’irrazionalità della guerra. Dice Ungaretti in chiusura del suo intervento: «Chiamati a soffrire chissà per quale fatalità o per quale errore degli uomini».
Già, la parola. Nella sua cassetta degli attrezzi c’è l’unica parola possibile, quella poetica, che però poggia su un retaggio profondo della comunità degli uomini. Il materiale è quello e non altro. Ciò che vivrà dall’utilizzo di questo materiale è ciò che Ungaretti sporgendosi dal suo baratro cerca di comunicare agli altri, all’umanità intera, che si trova su un baratro molto più disperante, quello che non vede le alternative, praticamente un precipizio verticale. È in questo che ritroviamo l’universale, seppur residuo e del tutto immanente, ma persistente e resistente. Ed è in questo la virtus del linguaggio. Attenzione, qui non c’è la formula di una morale possibile, la riesumazione di un’etica. Qui, nel perdurare della irrinunciabilità delle parole, c’è la storia dell’uomo che trova da solo, anzi, in solitario, e in drammatica solitudine, una via d’uscita, una possibilità. Torna, in un momento estremo un lampo, che contiene, come la monade leibiniziana, tutto un mondo, anzi la storia di un mondo, la storia umana. Il quadro che ne esce è che la guerra perde qualsiasi autorevolezza nella realtà delle cose umane.
La guerra è, storicamente, un’arte. Per assurdo la si può considerare una pratica pacifista seguendo il ragionamento di Sun Tzu. E questo per il semplice motivo che se sta dentro un quadro di regole condivise di fatto evita “guai peggiori”. Se si esce da quelle regole non si fa un salto in avanti ma si torna indietro nella storia umana. E dall’epoca della bomba atomica è così. Se si esce da quelle regole si può esercitare solo la vendetta. Quando Carl Von Clausewitz lega la guerra alla politica le trova un senso e anche un vincolo dentro un quadro ben definito ma storicamente superato, purtroppo per noi.
Il limite dell’irrazionale raggiunto dall’uomo ci dice, quindi, molto delle possibilità della poesia e dell’arte. La parola “ungarettiana” necessaria e precisa, immanente e universale, viene fuori, inoltre, da una determinata spinta dell’essere e nell’essere stesso, che è la grande spinta della testimonianza. È questa la sua necessità interna perché se l’essere è lì, al fronte, e attraverso il linguaggio intende esercitare la sua ultima e definitiva funzione, la testimonianza, vuol dire che una piccola particella di luce viene sottratta al nulla. L’opera d’arte, quindi, non è tale rispetto alla forma ma perché sa inserirsi nel duro confronto con la realtà. Ha liberato la testimonianza in un momento in cui poteva anche non succedere. È quindi questo accadere che dà al linguaggio e all’arte una forza speciale: l’essere nel suo farsi testimonianza libera il mondo.
Tra Ungaretti e Omero, da questo punto di vista ci sono innumerevoli punti di contatto. È il racconto agli altri uomini che attraverso la testimonianza non può che andare verso la persuasione e la costruzione di una cultura dell’umano. Una persuasione pacata, che mette davanti agli occhi di tutti solo il vissuto, niente altro che il vissuto e il legame che questo ha con la parola necessaria. L’essere in questo modo pare “autoregolarsi”. Omero vuole dimostrare e mostrare le conseguenze dell’ira funesta e lo fa come testimone seppur non come testimoniante: un “grado” leggermente più sotto di Ungaretti quindi ma un identico punto di forza. La forza del racconto e dei racconti che si sono tramandati i popoli e che attingono allo stesso profondo sostrato archetipico. Lo fa pur correndo il pericolo di attraversare il terreno infido della propaganda. Quello che Omero aiuta a “tra”-mandare ha il suo statuto di verità proprio in relazione all’attraversamento delle epoche e delle generazioni.
Una operazione quanto meno disperante e disperata nella nostra epoca che se da una parte ha sì abolito le tradizioni annullando la forza di gravità della conservazione, dall’altra ha disperso la possibilità materiale di creare forme di trasmissione e di narrazione “attraversanti” e condivise. Creiamo pause artificiali e inservibili per il puro gusto di dire che siamo nel futuro, che siamo la “gioventù” del domani.
Sappiamo bene che oltre al testimone e al testimoniante c’è il celebrante, ovvero chi, usando le parole, celebra la guerra. Resta da chiedersi se Filippo Tommaso Marinetti, per esempio, di fronte allo scempio odierno della guerra da lui così intensamente decantata e fomentata avrebbe reagito nello stesso modo, con lo stesso piglio “sanitario” e “rigenerante”. Ovviamente no, anzi. A Marinetti non sarebbe sfuggito il dato che ad eseguire la pulizia non è certo l’intellettuale che disprezza l’arte e invoca razionalità e valori ma un ristretto gruppo di professionisti dell’orrore magari in forma di avatar algoritmico, ben lontani dai cosiddetti valori. Diventa, la narrazione marinettiana, purtroppo di nuovo presente tra noi sotto mentite spoglie, una sorta di cartina di tornasole della drammaticità del momento esattamente paragonabile al secolo scorso. Epigoni nel triste e orrendo gioco del potere.
Se la propaganda si occupa della guerra perché non se ne può occupare la parola “ungarettiana”, parola necessaria? Si palesa qui uno squilibrio forte tra le due esperienze. Mentre la parola di Ungaretti è parola necessaria, appunto, e quindi acqua di sorgente, anche se sgorga dal “nero” degli incendi, e dal “rosso” del sangue che scorre a fiumi, quella della propaganda è parola ammuffita o, se volete, tirata fuori per l’occasione, ottima per ammutolire gli uomini di fronte al disastro e convincerli in massa ad entrare a far parte del “teatro di guerra”. Certamente, con un significato evocativo ma che bisogna andare a cercare proprio perché stratificato, al limite della riconoscibilità e non immediato e destabilizzante. La sua riconoscibilità è tutta giocata sulla “forma” ovvero sull’evidenza del sigillo “sacro” del potere. La lezione nazista è esemplare e insuperata: «Ripeti le cose fino a quando non saranno credute vere». C’è tutta la storia dell’Occidente qui: della sua contraddizione fondante tra libertà e costrizione, scelta libera dell’individuo e appartenenza imposta. Giocare in questa ambiguità non si può più nel momento in cui proprio gli individui, le masse, e non l’esercito, vengono spinti a far parte da pure vittime della guerra. I quasi ottanta anni di pace, ci hanno fatto dimenticare questa verità elementare segnata proprio dall’entrata in gioco della bomba atomica. Ed ora, la prospettiva di uno stato di guerra permanente non solo ci riporta brutalmente a inizio secolo, all’idea che un confine era tutto ciò che serviva per definire una morale e quindi una appartenenza, ma che tutto questo lo si può e lo si deve affrontare con il lessico e la “narrazione” del potere: ovvio, mutatis mutandis.
Ma in quella breve e intensa dichiarazione Ungaretti dice molto di più. Parla dei nemici e del fatto che la sua parola fosse destinata, idealmente, anche a loro. Sfida non facile, ma riuscita: salvare “brani” di umanità, renderli riconoscibili al di là e al di sopra delle assurde divisioni nel mondo tra nazioni. C’è un messaggio alto nel mix tra guerra e poesia, soprattutto nelle modalità e i risultati attraversati dall’esperienza poetica di Ungaretti. La parola che testimonia, quindi, messaggio che dobbiamo attrezzarci a recepire se ancora pensiamo di dare un futuro a questo mondo. L’agire marinettiano trova nella parola ungarettiana, che testimonia e non agisce, l’unico argine concreto al debordare dell’irrazionalità. Il messaggio è che le nazioni sono solo uno dei passaggi della storia del mondo e che sono i popoli, attraverso il linguaggio, unico fertile “confine-non confine” ad essere i depositari di questa possibilità.
Proprio perché il linguaggio è la sede della parola necessaria, e quindi testimoniante e testimone, che dobbiamo scoprire per darci una possibilità in più. Non possiamo testimoniare con altro se non con il linguaggio, unico depositario del confine di tutti i confini per questa sua capacità di assimilare suoni e punti di vista altri. È il linguaggio che abbiamo a disposizione come arma di tutte le armi. Fino a quando questo non sarà permesso dobbiamo affrontare dolori e lutti senza precedenti in una rincorsa giù nel baratro dell’orrore che non ci porterà niente di buono. La guerra sta passando la mano all’algoritmo verso un totale distacco dalle regole e dai codici, e quindi da qualsiasi razionale umano, per quanto imperfetto. E questa non è una buona notizia. Il fatto prodotto dal potere è la guerra in sé, e nient’altro.
Ricorre spesso un leitmotiv, “non impariamo mai dal passato”. Bene, la possibilità ce l’abbiamo, invece, ed è il linguaggio. Le lingue, nel loro uso disciplinato, corale e programmatico ci possono accompagnare in questo attraversamento. È una possibilità naturale e storica, immanente e astratta, profonda e anche attuale. Se non l’abbiamo fatto finora è perché non abbiamo “imparato” a farlo compiutamente. O meglio, le lingue sono sempre al lavoro nella costruzione della rete. Siamo noi che le blocchiamo attraverso la razionalità e i confini. E la poesia è una grande e imperdibile possibilità per togliere questo blocco.
Ungaretti inizia la sua dichiarazione dicendo: È una poesia di parole isolate nel silenzio». E poi aggiunge una sua considerazione sul silenzio, nel paragone con la musica, volendo rafforzare in entrambe le esperienze il suo valore fondante: nella musica, il silenzio come necessità materiale, grammaticale, costruttiva; nelle parole come momento preparatorio in cui il rumore del mondo finalmente cessa e ci si prepara a riacquisire quell’umano di cui senti di perdere via via la cognizione.
Perché la poesia e non la prosa, quindi? Perché la prosa non contempla, costitutivamente, i silenzi. Anzi, la prosa è l’utilizzo disciplinato del riempimento di senso fino all’annullamento del potere evocativo della parola. La prosa, calata nella trincea di Ungaretti, non avrebbe potuto far altro che ammutolirsi. Certo, il racconto di guerra è possibile, ma nell’accettazione implicita della rottura dell’unità spazio-temporale, nella sua distribuzione e ricollocazione dentro un modello del tutto avulso e lontano anni luce dal vissuto. È più o meno lo stesso processo produttivo utilizzato dal cinema che quindi restituisce un momento del fatto che ha dovuto subire l’onta del distacco, del raffreddamento.
Se tutto questo è vero allora è altrettanto vero che non tutte le autenticità della poesia, ovvero la sua virtus, vanno prese per buone. L’autenticità è coessenziale alla poesia solo in pochi casi: nella costrizione della condizione individuale, come in Ungaretti che viene a trovarsi su un confine ben preciso tra la vita e la morte, tra la razionalità e l’irrazionalità, tra la follia e la normalità, e nella scelta di “portarsi al confine” del mondo e dei mondi. Nell’oggi questa possibilità torna drammaticamente all’attenzione dei poeti. Sta a loro, quindi, esercitare una opzione di coscienza.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.
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