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Spaesamenti e nuove identizzazioni. Note antropologiche su quel che resta del paese-campanile

Cervara, sui Monti Simbruini, provincia di Roma. (ph.Krichilla da Pixabay)]

Cervara, sui Monti Simbruini, provincia di Roma (ph. Krichilla da Pixabay)

CIP

di Enzo V. Alliegro 

1.

In un piccolo paese del Mezzogiorno, negli anni Novanta, nel corso di una campagna elettorale per il rinnovo del consiglio municipale, echeggiavano le seguenti parole: “Il paese è dei paesani”. Pronunciate da un candidato con alle spalle rilevanti cariche politiche sia regionali che parlamentari – nato, vissuto e residente tuttavia in una diversa città – esse erano volte a tacitare la popolazione. “Il paese è dei paesani”, nel far emergere il dubbio che un consolidato sistema di norme e di valori fosse stato infranto a causa di una candidatura indubbiamente legale ma per certi versi illegittima, in realtà evidenzia l’inevitabile porosità dei confini comunali.

È questo frammento di cronaca locale ad aprire uno squarcio insolito sui paesi, sulle faglie profonde su cui essi poggiano, trascinati ora lentamente ora più violentemente in un movimento incerto quanto incessante. Cosa sia un paese, dunque, non è dato saperlo in maniera perentoria, cosa lo abiti, lo attraversi, lo agiti, lungo quale linea si muova, dove sia proiettato, meno che mai. 

La letteratura pluridisciplinare sui paesi registra un incremento esponenziale con l’emergere recente del tema dello spopolamento delle aree interne, e nessuno, credo, abbia inteso darne conto in maniera sistematica. Eppure, malgrado tale evidente problematicità, sono in molti ad aver maturato del paese – proprio o altrui – una certa idea.

Se si escludono il paese-nazione, il paese-patria e il paese-stato, acutamente problematizzati da Pietro Clemente già negli ultimi anni dello scorso secolo [1], e si considera invece il paese-campanile, questo, in prima approssimazione, è dato pensarlo nella sua dimensione minima, giuridica, quale entità amministrativa a cui corrisponde un territorio ben circoscritto, riconoscibile dalle sue precise coordinate geografiche, dalla linea di confine che lo separa e che al tempo stesso lo schiaccia sul perimetro attiguo. 

Il paese, dunque, è una realtà territoriale identificabile con un codice tutto suo – postale, istat, ecc. – con una denominazione propria, sprovvisto tuttavia di una connotazione chiara ed inequivocabile, poiché, per ogni paese, sarà possibile ritagliare questo o quell’aspetto, questa o quella storia, questo o quell’evento o personaggio, per dare corpo a processi di identizzazione (di costruzione dell’identità), che operano una riduzione della complessità, servendosi  della forza evocatrice del minuscolo che si fa simbolo.  Espressione sfuggente, ambigua, il termine paese assume i tratti di concetto ombrello sotto il quale trovano riparo oggi realtà molto diverse, che prendono forma in processi di elaborazione tratteggiati da osservatori non sempre imparziali, che si muovono da prospettive e da interessi specifici.

Il tema della conoscibilità del paese-campanile è quindi non eludibile, in quanto il rischio di semplificarne l’intelligibilità con approcci destorificanti, volti alla definizione di elementi ritenuti consustanziali, quasi si trattasse di dover riportare alla luce una sostanza genetica intrinseca, universale ed immutabile, effettivamente merita di essere attentamente esaminato. Approcci estetico-romanticheggianti tendenti a fare del paese una sorta di paradiso bucolico, specchio del buon vivere, lasciano tante volte la scena a paradigmi denigratori che vi intravedono una forma arcaica di negazione della modernità. 

Collocati un po’ indietro oppure un po’ avanti, in anticipo oppure in ritardo, essi sembrano inevitabilmente disallineati, collocati fuori luogo e fuori tempo. Inesorabilmente in bilico, dunque, tra nostalgia proiettiva –non saranno più – e stigmatizzazione emancipatoria – non sono ancora – il paese rischia di essere sempre qualcosa di diverso da quello che appare, in quanto la cifra che lo caratterizza è certamente il velo di opacità che lo avvolge, per buona pace della paesologia di vecchia e di nuova maniera, che impunemente ritiene di poterne cogliere l’essenza con uno sguardo ammiccante oppure con un eloquio disinvolto.

Capire i paesi, analizzarne le logiche di costituzione e di dissoluzione, le forme che il vivere vi assume, i significati, il corpus di norme e di valori condivisi (corpus inevitabilmente dinamico), è operazione affatto semplice, che richiede cautela metodologica e acume interpretativo, a partire da una postura epistemica inevitabilmente porosa.

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E i paesani? Cosa dire di chi il paese lo abita, lo accarezza, lo cura, oppure lo deturpa, lo denigra, lo attraversa, lo abbandona? Se si lascia il paese entità fisico-amministrativa e si considera il paese realtà umana, fatta da spazi che il fare umano, appunto, umanizza – per non dire luoghizza – in cui si muovono viventi umani e non umani, l’esercizio qui avviato si fa meno scontato.

In prima approssimazione, i paesani sono ovviamente gli abitanti dei paesi. Quali esattamente? Quelli che vi sono inscritti anagraficamente ed esprimono la propria cittadinanza soltanto in sede tributaria ed elettorale, secondo un’appartenenza vissuta altrove e che chiameremo amministrativa e non residenziale e meno che mai sentimentale?

Quelli che pur non essendo ufficialmente inseriti nei registri dello stato civile vi soggiornano per calcolo economico, opportunismo professionale, feeling ecologico, incanto estetico, secondo un’appartenenza domiciliare che è dato definire utilitaristica?

Quelli che vi sono nati e che da altri paesi o da altre città temporaneamente vi approdano in qualità di “ritornanti”, quali turisti autoctoni, nel quadro di appartenenze mutilate, per certi versi sospese, in bilico tra “qui” ed “altrove”? 

Quelli che vi sono giunti da esuli, da immigrati, che vivono un’appartenenza etnicizzata, che pur non essendo clandestina, assume di essa taluni tratti di marginalità, di alterità, di mancata inclusione?

Oltre a queste esperienze e ad altre effettivamente identificabili, fatte da residenti temporanei, da dimoranti a progetto, da passanti occasionali, da sognatori incalliti, indubbiamente nei paesi vi sono i “restanti”, su cui si è soffermato con il solito acume Vito Teti [2], quelli che vi risiedono stabilmente. Tra questi, da una parte i restanti-cronici e depressi, la cui appartenenza sembra richiamare un adempimento d’ufficio sancito da tanto di atto di nascita, e dall’altra i restanti-ombelici, persone (non soltanto anziane) che non reciderebbero per nessuna ragione al mondo il cordone ombelicale che sentono li leghi taumaturgicamente al loco natio.

Tra paese e paesani, dunque, possono esserci “collanti” diversi, e il rischio è quello di pensare a tale relazione in maniera semplicistica, riduttiva, talvolta retorica. Esiste il paese-memoria, il paese-patrimonio, il paese-risorsa; ancora, il paese-borgo, il paese albergo diffuso, il paese bottega-laboratorio. Esiste poi il paese-nicchia per la crescita ottimale dei più piccoli e il paese-ricovero per i meno giovani. In ogni caso il paese si fa palcoscenico per lo svolgimento en plein air di attività diversificate per paesani-restanti, ritornanti, utilitaristi, mutilati, e così discorrendo.  

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Il termine paese, dunque, indica uno spazio fisico fattosi luogo culturale, secondo una dinamica complessa di culturalizzazione che gli umani incessantemente svolgono. Può essere pertinente richiamare Ernesto de Martino il quale, chiedendosi cosa fosse la cultura, intesa in termini antropologici, la definì quale «potenza formale di far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte» [3]. 

Il paese, pertanto, è il prodotto di una dinamica che imprime alle cose un marchio tutto umano (culturale). Per dirla ancora con le parole demartiniane, il paese è uno dei compiti fondanti a cui l’ethos del trascendimento attende, nel fare della datità del mondo un mondo utilizzabile.   

È sin troppo scontato che uno spazio pre-culturale non si dia allo sguardo umano, il quale coglie soltanto ciò che egli stesso concorre a modellare, secondo strategie specifiche che i lavori di Francesco Faeta hanno con forza mostrato [4]. È tuttavia utile farvi riferimento in quanto consente di delineare il paese-campanile come processo piuttosto che come stato, poiché la relazione uomo-spazio è sempre mediata dalle modalità attuative dell’appartenenza, che non sono pensabili come qualcosa di automatico e di intonso, ma piuttosto come qualcosa di dinamico ed interrelazionale, che si costruisce evidentemente a partire da sollecitazioni vitali che accompagnano tanto la filogenesi quanto l’ontogenesi, da cui poi si diramano risposte chiamate ad interpretare dettami univoci che fanno del locale una declinazione dell’universale.

Il costruire, l’arredare, l’abitare, non sono meri automatismi che rispondono al soddisfacimento di bisogni primari. Farsi abitante di questo specifico ambito territoriale richiede l’attivazione di processi di significazione, di conferimento di senso e di significato, che sono la cifra della dinamica dell’addomesticamento dello spazio che si vede costretto a darsi come luogo concretamente esperibile. Il mondo dell’animale è un mondo chiuso, quello umano è invece un mondo aperto, ci ricorda Deridda [5]. 

Nel farsi paese, un qualcosa, dunque, si fa qualcos’altro. Nell’essere paese, un qualcosa è già qualcos’altro, in quanto non basta un insieme di materiali inerti, di pietre e di malte, per fare una casa, e un insieme di case e abitazioni, per fare un paese. Ogni paese incorpora un plus valore simbolico ed affettivo generato da un dispositivo che elabora l’appartenenza, modella l’identità, e che, altresì, può sfociare in disaffezione e spaesamento. 

Sono quindi due le forze che nell’arena paesana, e in ogni altro spazio luoghizzato, si confrontano: quella del plusvalore positivo, che postula una comunità che si agglomera intorno ad un centro attrattivo, pensato come unitario; l’altra invece negativa, che tratteggia rovine e crepe, e che rigetta l’idea di un tutt’uno coerente. In entrambi i casi i paesani-restanti sono trattenuti nel loro confine, impossibilitati a varcarne le frontiere, in quanto l’energia del paese è tale che le spinte centripete e quelle centrifughe si neutralizzino vicendevolmente, creando un equilibrio inevitabilmente precario ed instabile. 

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Sia che si tratti di luoghi amati, anelati, rimpianti, piuttosto che odiati, ripudiati, respinti, il paese è sempre agitato da flussi energetici profondi, che coinvolgono gli individui, connettendoli agli altri viventi e disegnando quelle trame che danno corpo ai contesti. 

«Il mondo prossimale dell’esserci è il mondo circostante». Così Heidegger in Essere e tempo [6] indica una dimensione fondativa e costitutiva dell’esserci nel mondo. Nel connettere invero il mondo prossimale a quello circostante, lo studioso chiarisce in maniera molto netta la rilevanza che sulla quotidianità riveste il “tutt’intorno”, lasciando cogliere come la messa in discussione di quest’ultimo possa gravare rovinosamente sull’“esserci”. Secondo questa direttrice interpretativa il paese cessa di apparire quale spazio fisico dai confini netti, ma piuttosto come dimensione esistenziale che segna ogni vissuto umano, fungendo da riferimento per la definizione del tutt’intorno. L’esserci si nutre di un luogo (uno spazio non più solo spazio) e il paese è la forma che questo spazio può assumere secondo una doppia possibilità: la prima è quella che ritaglia in questo luogo sia il prossimale che il circostante, sia il vicino che il lontano, la seconda è quella che fa di questo spazio il prossimale, a cui fa da contraltare un circostante posizionato altrove.

Non importa dunque che il “tutt’intorno” sia ricavato nei confini di una grande metropoli piuttosto che nel sagrato di un piccolo paese, il “tutt’intono” inevitabilmente è ciò di cui ciascuno si nutre, è la nicchia vitale che alimenta l’esserci e senza il quale l’esserci sprofonda in un tutt’uno sterminato, che non è spazio di libertà ma caos terrificante. A prescindere che si tratti di un gruppo umano che vive in una impenetrabile foresta amazzonica piuttosto che in una moderna megalopoli, il rapporto che l’umano stringe con il mondo è sempre localizzato, mediato da un prossimale e da un circostante chiamati a dare corpo al “tutt’intorno” umanizzato. 

Che nome diamo a questo locis? Insediamento, villaggio, vicinato, quartiere, paese? Si tratta in ogni caso di un ecosistema socio-culturale, di un costrutto socio-tecnico, di un intricato manufatto bio-simbolico in cui si svolge il processo di antropoiesi che riguarda ogni umano e con cui ciascuna “cultura” si forma e si confronta.

Il processo di costruzione dell’umano non è mai affare privato che si svolge nel chiuso di una oscura grotta oppure di una lussuosa villa imperiale. Si diventa umani nel quadro di ambienti rigorosamente ed inevitabilmente umani che si impara ad esperire a partire da piccoli passi, step by step, tanto che siano dati in radure sterminate oppure nello slargo di piccoli quartieri. Ecco uno dei tratti salienti del processo di antropoiesi: da un “focolare” la strada conduce verso il mondo, secondo un itinerario che tocca il prossimale e il circostante, nel quadro di processi di generazione dell’umano che hanno inizio in un “tutt’intorno” necessariamente circoscritto, che prende forma intimamente nel vissuto domestico e familiare di ciascuno, e che progressivamente interagisce con un altrove che può ridursi al casolare oppure estendersi al mondo intero. 

Da ovunque si parta, qualunque sia la nicchia socio-culturale in cui le primordiali cure parentali si svolgono, l’esperienza del tutt’intorno non sarà mai olistica in quanto, in ogni caso, qualunque sia il punto da cui si muovano i primi passi, questi non copriranno mai il tutto ma soltanto una sua parte. 

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La cultura, in senso antropologico, è stata definita nel 1871 da Edward Burnett Tylor [6] l’insieme complesso di usi, costumi, norme, valori di un individuo in quanto membro di una comunità. Si tratta della definizione che ha segnato l’istituzionalizzazione occidentale del sapere antropologico, la cui origine, ovviamente, necessiterebbe di una retrodatazione ben più profonda. 

Chi scrive ritiene che il concetto antropologico di cultura possa articolarsi lungo una triplice direttrice. La prima vede la cultura come dispositivo che guida la trasformazione di un infante appena senziente, costituito da cellule, organi e tessuti, da segnali chimici e da snodi neurologici inadeguati alla sua sopravvivenza ma idonei ai fini della sua partecipazione attiva all’apprendimento sociale, in una persona cosciente, provvista di sé, di conscio ed inconscio, e trascendente, protesa verso l’oltre. Secondo questo primo piano la cultura “soggettivizza” l’individuo facendo di un corpo una persona, nel quadro dei dettami che quello specifico gruppo umano elabora incessantemente.  

La seconda ritiene la cultura un dispositivo di classificazione, di decodifica e di normativizzazione dell’esistente, quindi di “costruzione” del mondo. Così concepita la cultura di un gruppo umano opera l’oggettivazione della realtà, contrastando il caos indomito, costretto a stabilizzarsi facendosi mondo esperibile.

La terza infine fa della cultura un dispositivo che presiede alla intelaiatura interrelazionale, quella che lascia interagire, seguendo specifiche logiche, un individuo-soggetto in uno spazio-mondo.

L’umano prende forma a partire da relazioni culturalizzate che investono quindi l’individuo, i collettivi umani, il mondo, all’interno di relazioni circolari, dialettiche, di coproduzione, in un tutt’uno inestricabile. Ogni individuo si fa umano in un percorso evolutivo nel perimetro (in)sicuro del “tutt’intorno”, “tutt’intorno” che è una costante umana senza la quale non ci sarebbe l’umano. All’interno di piccoli insediamenti primordiali così come nel contesto di sterminati agglomerati metropolitani, il contatto con l’esterno è sempre mediato da una iniziazione che è prossimale, e che concorrerà in maniera decisiva alla formazione del corpo-soggetto e del mondo-oggetto. 

Se pertanto si rinuncia a connotare il paese in termini di confini giuridico-amministrativi, assumendolo invece come “nicchia ontogenetica”, potrebbe essere più facile smascherarne alcuni caratteri costitutivi e fondativi che lo accomunano e allo stesso tempo lo differenziano da ogni altro contesto vitale. 

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La specificità dell’essere paese, dunque, sta nel paesaggio umano che connota il suo modo di porsi quale nicchia culturale per bisogni biosociali. I paesi sono popolati da paesani che visti da lontano possono sembrare piuttosto simili, quasi a dire, per richiamare una formula impiegata di recente in ambito politico, che uno vale uno. Visti da vicino, essi, invece, svelano differenze molto radicali. 

In antitesi rispetto a quanto è accaduto in parentesi temporali passate, quando effettivamente i paesi venivano rappresentati da un certo uniformismo comportamentale e cognitivo, etico e morale, contrassegnati da una postura tutto sommato codificata, che oscillava tra il mito del buon selvaggio e quello dell’esecrabile homo lupus, attualmente è possibile pensare con maggiore disinvoltura ai paesi come realtà aperte, come sistemi termodinamici capaci di attivare meccanismi di regolazione ed adattamento così come di omeostasi più complessi.

Oggi i paesi non possono essere concepiti come luoghi in cui si coltiva un pronunciato senso del localismo, in quanto è a tutti evidente come essi siano coinvolti e per certi versi sconvolti dalla richiesta di un altrove tante volte immaginato piuttosto che effettivamente conosciuto. È come se i confini del tutt’intorno segnassero la sovrapposizione del prossimale con il circostante. 

La globalizzazione non è un affare di esclusiva competenza metropolitana, ma una presenza costante nei piccoli paesi. La connettività analogica, digitale e satellitare unitamente alla capillare penetrazione delle reti commerciali di allocazione delle merci ha consentito che l’isolamento non sia più qualcosa di concettualizzabile in termini di distanza chilometrica ed ascrivibile unicamente alle dimensioni del piccolo e dell’interno. Del resto, quanto isolamento e marginalità regnano al centro delle megalopoli? 

Senza scivolare nell’aneddotico, può appena essere il caso di segnalare quanto perfino i tetti dei paesi più piccoli si siano tramutati in prateria lussureggiante per parabole esuberanti, analogamente ai confortevoli condomini urbani. Ed è così che nelle abitazioni sia paesane che urbane, transita Netflix e derivati, nei supermercati baguette d’oltre alpe, negli agriturismi angus, e nelle dispense di confortevoli abitazioni scatolette di antidepressivi e ansiolitici della grande industria farmaceutica.

L’espressione “nuovi luoghi”, piuttosto che “non luoghi”, effettivamente sembra inquadrare bene quanto sta accadendo a una moltitudine non meglio precisata di “paesi campanile” nel mondo, che si ritrovano a manifestare segni evidenti di adattamenti con l’inedito che scuote in maniera possente il vissuto, bussando alla porta di caseggiati nascosti finanche nelle strade e nelle viuzze più defilate. 

Il locale, il tradizionale, il comunitario, l’autentico, il tipico, tante volte ascritti a realtà periferiche, sono ormai dimensioni apolidi, estromesse dai luoghi in cui si riteneva fossero, quasi per magia, intimamente e profondamente radicate, per disseminarsi ovunque vi sia bisogno di riconoscimento ed attaccamento identitario, bisogno, quest’ultimo, da considerarsi nella specifica dimensione dialettica, quindi cangiante. Esattamente come l’anomia, il disordine, la solitudine, lo sconforto, il contraffatto, che possono trovare asilo ovunque, alla luce di un rimescolamento di carte tra il qui e l’altrove che non è l’eccezione ma la norma. 

Le logiche insediative di ancoraggio e disancoraggio identitario, di appaesamento e di spaesamento qui velocemente evocate non sono categorie metastoriche che si materializzano per disposizione mistica, ma esiti di processi storico-culturali e politico-culturali ben precisi. 

Per una sorta di euristica del piccolo, talvolta scivolata in metafisica del campanile, si è ritenuto di fare del paese un laboratorio privilegiato in cui osservare l’umano senza veli. L’umano così com’è. Uno spazio di studio e di osservazione del presociale, del preculturale, di messa a fuoco dell’umano nel mentre del suo farsi e disfarsi, colto in una condizione di “non ancora” che si fa oggi “non più”. Un “non ancora” che si tramuta in un nostalgico “non più”, che fa del campanile una maschera che nasconde mostrando e che mostra nascondendo, secondo mistificazioni e manipolazioni propriamente simboliche.

Il fatto che i paesi sembrino rendere meglio percepibile la forza possente dei motori di costruzione dell’identità, degli ingranaggi ben lubrificati di identizzazione, vale a dire di quei meccanismi di costruzione dell’appartenenza, non deve indurre in errore, facendo ritenere che quest’aspetto sia una loro prerogativa. Capanne e grotte, deserti e foreste, mini appartamenti e castelli sfarzosi, fungono da quinta in cui i processi di ontogenesi hanno luogo, qui e altrove, ora e per sempre.  

Carlo Levi nel suo appassionato e acuto resoconto di un paese del sud, divenuto paese-paradigma della condizione di tanti meridioni del mondo, ha lasciato intendere che a Galiano la “natura umana” fosse meglio osservabile allo stato puro, perché priva di tessiture ed orpelli. La “natura umana”, se effettivamente è dato pensare ad un substrato universale che connota gli umani, non è mai autodisvelante. Una patina di cultura si intreccia ad essa in una compenetrazione indissolubile, con buona pace di quanti hanno inteso servirsi della nota dicotomia natura-cultura per leggere in termini antinomici la relazione paese-città. 

Berceto nel Parmense

Berceto nel Parmense

7. 

A questo punto appare sempre più chiaro quanto al paese-campanile non sia più dato caratterizzarsi in termini sostanzialisti ed essenzialisti. Tutto un paradigma descrittivo ed interpretativo a cui si è fatto a lungo ricorso per leggere i piccoli paesi, pensati come epicentro del localismo, del ruralismo, dell’arcaismo, del comunitarismo, del solidarismo, ecc., mostra crepe profonde. È la crisi del paese-campanile a richiedere nuove categorie analitiche ed interpretative, atteso che, al momento, neppure del tutto plausibile sembra l’idea che il futuro sia dei piccoli paesi. Nonostante, infatti, si riteneva che il post pandemia potesse invertire la tendenza verso l’urbanizzazione, le città metropolitane continuano ad attrarre popolazione e i paesini ad espellerla. Ciò nonostante le piccole comunità siano sempre più attrezzate e le grandi città sempre meno ospitali. 

Evidentemente, paese e città sono poli che si autoalimentano perché ciascuno non ci sarebbe senza l’altro. Esattamente come l’idea di centro e di periferia, di interno e di esterno. Nei piccoli paesi, come altrove, è possibile prendere atto dello sfilacciarsi dei tessuti sociali di interconnessione, del logoramento del senso di appartenenza, di erosione del capitale sociale, con l’aumento della diffidenza, della solitudine, del settarismo. La fiducia non è più di casa nei piccoli paesi, orientati tante volte da interessi politici pilotati da arrivisti autoctoni senza scrupoli, interessati dalla implosione di forme inedite di socializzazione che hanno modellato un paesaggio socio-culturale dagli esiti incerti. 

I piccoli paesi, oggi, recano impressa sulla loro pelle i segni profondi di una incorporazione acritica di modelli urbanocentrici che in alcuni ambiti della vita sociale aprono la strada ad una inesorabile depaesanizzazione, ovvero ad una urbanizzazione anticipata, secondo esiti sincretici che miscelano istanze di diversa natura e portata. Se a lungo essi sono stati i catalizzatori di dilaganti processi di mediazione simbolica, oggi la loro capacità di farsi simbolo resta immutata, ma simbolo di qualcosa che tarda ad annunciarsi. Non più simbolo di comunità coese in cui gli individui si identificano, semmai simbolo di uno spaesamento che ne segna il divenire. 

I piccoli paesi, in quanto dispositivi simbolici che attendono di essere dovutamente decostruiti, perseguitano comunque nella loro mission ontogenetica, così come ogni altro spazio chiamato a farsi mondo. Inoltre, oggi come ieri, ma indubbiamente oggi più di ieri, essi continuano ad essere impegnati in quell’incessante “tira e molla” tra conservatorismo e slancio innovatore che costituisce un aspetto centrale del vitale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note 
[1] Cfr. P. Clemente, Paese-Paesi, in I luoghi della memoria. Struttura ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Bari-Roma, Laterza, 1997: 5-39
[2] V. Teti, La restanza, Torino, Einaudi, 2022
[3]. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino, Einaudi, 2021
[4] F. Faeta, Strategie dell’occhio, Milano, F. Angeli, 2003
[5] J. Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Rusconi, 2021
[6] M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2005
[7] E. B. Tylor, Primitive culture, 1871 (orig.), Londra Dover Pubns, 2016

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Enzo V. Alliegro. insegna discipline demoetnoantropologiche nel dipartimento di scienze sociali dell’Università di Napoli “Federico II”. I suoi interessi di studio si concentrano prevalentemente sulla storia dell’antropologia italiana e nordamericana, sull’antropologia storica, del territorio e della crisi ambientale. Tra le sue pubblicazioni: L’arpa perduta. Dinamiche dell’identità e dell’appartenenza in una tradizione di musicanti girovaghi, Lecce, Argo, 2007; Antropologia Italiana. Storia e storiografia (1869-1975), Firenze, SEID, 2011; Il Totem Nero. Petrolio, sviluppo e conflitti in Basilicata. Antropologia politica di una provincia italiana, Roma, Cisu, 2014; TerraFerma. Saggi di Antropologia storica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019;  Out of place. Out of control. Antropologia dell’ambiente-in-crisi, Roma, Cisu, 2020; Le dimenticate carte di Ernesto de Martino. Etnografia delle fonti documentarie, Bari, Progedit, 2021; Il filo e la cruna. Saggi di storia dell’antropologia italiana, Palermo, Ed. Museo Pasqualino, 2021. Ha curato inoltre la pubblicazione italiana dei diari di campo di Franz Boas, Lewis Henry Morgan e Frank Hamilton. 

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