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Festival di Sanremo 2024: per una critica della ragion “pura”

Sanremo, Ariston 2024 (fonte AdnKronos)

Sanremo, Ariston 2024 (fonte AdnKronos)

di Valeria Salanitro

Anche quest’anno, milioni di telespettatori si sono ritrovati davanti allo schermo, per partecipare al rito corale che rappresenta, per antonomasia, la culla della canzone italiana. La città dei fiori ospita la 74esima edizione del festival della musica rappresentante il Belpaese, che, a quanto pare, è stato un successo, mediologicamente parlando. Un format strutturato, plasmato e contingente che, anche stavolta, riflette le intuizioni argute e strategi­che del direttore artistico Amadeus, garbato e lungimirante; sia nella scelta del repertorio musicale, che dei/ dei co-conduttori/conduttrici e ospiti internazionali.

Quel file rouge che ha dominato le serate dal 6 al 10 febbraio, traccia, infatti, una linea di continuità tra   palcoscenico, rappresentazione e costruzione/demistificazione del mito; sancendone l’efficacia comuni­cativa, oltre che la natura, fortemente, caleidoscopica. I dati auditel, non mentono: 68% di share, rilevato per le proiezioni delle prime serate e un picco massi­mo durante la finale: 14,3 milioni di spettatori per il 74,1% di share; finale che ha incoronato vincitrice Angelina Mango, seguita su Rai1 (dalle 21.27 all’1.59) da una media di 14 milioni 301 mila telespetta­tori, pari al 74,1% di share. Rilevazioni che attestano il raggiungimento di un target stratificato e atten­to al genere mediale proposto.

Ma quali sono gli ingredienti di questo formato mediale? Oltre ai sopracitati, si possono enucleare delle variabili significative, sia in termini antropologici, che sociologici: genere, appartenenza, identità politica e sociale, corporeità ed efficacia simbolica del canto, che, perfor­mativamente, sollevano spiriti critici e si battono contro ogni forma di acquiescenza.

Nel dettaglio: i rappresentanti del trap, genere musicale, che allieta le coclee dei giovani di ogni dove, ma ancor di più la generazione zeta, che tanto critica i boomer, ma, di fatto, celebra l’identità sociale che oscilla tra Neet e i cercatori di un posto nel Mondo, sovvertitori di regole precostituite e di sovrastrutture deter­minanti, fuoriescono dal sistema delle routine quotidiane, raccontando, riproducendo e ascoltando, la musica come narrazione della violenza, della droga, della liminarità dell’essere, tipica dei quartieri più degradati delle città; i “denunciatori sociali”, che con le loro trame narrative criticano il sistema politico nazionale e internazionale, politiche migratorie anacronistiche e scenari di guerra agghiaccianti. Tacciati e censurati, per non avere aderito al puritanismo mediale che ricorda epoche trascorse, ma orgogliosi di esporre la propria idea e il proprio dissenso attraverso le note di una melodia orecchiabile, ma contenu­tistica; e, ancora, donne demistificanti che narrano di dimensioni intime, corporeità densa e statuti identitari privati di ideologie patriarcalizzanti; per una poetica sonora dello spazio-tempo idiosincratica.

I segni tipici della kermesse canora, legati al sistema della moda di barthesiana memoria (lustrini, postu­re, guanti e accessori), hanno dominato l’immaginario collettivo, che nel cogliere il messaggio veicolato dai cantanti, durante la negoziazione del piano significativo, hanno reagito illocutoriamente. Come? Le risposte comportamentali, antropologicamente interessantissime, sono state molteplici. In primis, il di­sappunto formale dei dirigenti dell’azienda pubblica, tramite un comunicato in diretta, in una cornice differente dall’antagonismo canoro, e diplomatici internazionali che, dall’altra parte della riva del fiume, puntavano sulle gaffe, che il Belpaese, poteva effettuare.

La dimensione politica ha, indubbiamente, costituito il corpo di questo festival, poiché, come è risapu­to, la musica e i paesaggi sonori, creano identità, segnano confini e linee di demarcazione, ma soprattut­to determinano alleanze e divergenze, poetiche aggregative e distanze sociali e politiche di ogni sorta.

Lo scacchiere internazionale ripropone attori regionali coinvolti in politiche di costruzione identitarie se­colari e secolarizzate, che sanciscono l’identità territoriale e politiche statutarie normalizzanti, etnie e scontri di civiltà immemori. Il conflitto israelo-palestinese, la presenza di Hamas, la guerra in Ucraina, e il contesto internazionale, rappresentato dati storici e contingenti, che non possono e non devono essere sottratti alla memoria storica del Paese e del Mondo.

Immanuel Kant

Immanuel Kant

La normalizzazione dei fenomeni socio-politici del contesto internazionale è stata veicolata anche al fe­stival che, beninteso, non era una manifestazione inneggiante la “Pace nel Mondo”, ma una gara canora. Ma questo è stato il festival degli ossimori. Ghali, che con la sua “casa mia” decostruisce miti e de-reifi­ca costruzioni sociali, denunciando la precarietà ontologica e densa in cui vive il Medio Oriente e le po­polazioni distrutte dalla guerra; tacciato e censurato a “Domenica in”, dopo la sua esecuzione, per avere pronunciato il seguente enunciato: “Stop al genocidio” [1].

Le poetiche legate ai processi di etichettamento linguistico e alle costruzioni verbali, concernenti la na­tura più o meno politica delle dizioni, nel caso di specie, della parola “genocidio” sono note, ma, di fat­to, ripropongono pratiche di revisionismo storico e politiche censorie, che ben rimandano al puritanesi­mo di ideologie passate e al dualismo categorico kantiano. Sarà perché: 

«Quando gli uomini entrano in conflitto non è perché hanno costumi o culture diverse, ma per conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici è perché quello dell’etnicità diventa il mezzo più efficace per farlo» [2].

La ragione categorizza la realtà attraverso le coordinate dello spazio/tempo, in una continuità storica, che farebbe accapponare la pelle ai post-strutturalisti, e, in quanto pura, non ammette dissonanze cognitive. Quindi, è tutto filosoficamente e politicamente corretto. Opporsi alle strutture di pensiero deterministiche, nel 2024, pare impossibile. Ma è proprio decostruendo la nozione di Casa, che Ghali raggiunge il suo obiettivo demistificatorio. Significativi, in tal senso, alcuni versi del brano: 

Ma qual è casa mia?

Ma qual è casa tua?
Ma qual è casa mia?
Dal cielo è uguale, giuro
Mi manca la mia zona
Mi manca il mio quartiere
Adesso c’è una sparatoria
Baby, scappa via dal dancefloor
Sempre stessa storia
Di alzare un polverone non mi va
Ma come fate a dire che qui è tutto normale
Per tracciare un confine con linee immaginarie
bombardate un ospedale
Per un pezzo di terra
o per un pezzo di pane.
Non c’è mai pace.

ghaliNato a Milano, il rapper di origine tunisina, ha posto bene l’accento sulla questione mediorientale e ha altresì sollevato una critica sul concetto di identità, ricordando che di fatto, lui è: “un italiano vero”. Sve­landone la natura plurale e de-essenzializzante, il cantautore, che celebra le sue origini cantando in ara­bo, cede il posto ad un altro cantautore italiano; Dargen, che sul palco dell’Ariston, con la sua “Onda alta” ricorda quanto siano problematiche le condizioni in cui versano i migranti, e così afferma: «Cessate il fuoco, la Storia e Dio non accettano la scena muta». Un inno alla denuncia sociale e alla lotta per i diritti umani delle popolazioni, che esorta a creare politi­che interventiste e non retoriche nazionalistiche.

Per contro, a rappresentare il contesto sociale italiano, Geolier, che con le sue annotazioni sociologiche canore, rappresenta, emblematicamente, lo stato in cui versano le aree disagiate del Paese. Il cantante na­poletano, oltre a subire i fischi dopo avere vinto la gara delle cover, ha diviso e unito il pubblico in sala e a casa. Anche in questo caso, l’appartenenza e l’identità sociale vengono rievocate dalla dizione della de­nominazione che il cantante sceglie per identificarsi artisticamente. “Geolier”, che in francese significa “secondino”, rimanda, ad una prima istanza, al contesto carcerario, in seguito si coglie l’allusione alla dimensione identitaria del giovane di Secondigliano. Il riferimento iconologico è, infatti, quello al quar­tiere dell’area settentrionale di Napoli, emblema, anch’esso di retaggi cronachistici e sociali storicamente noti. Dibattuto il successo di questo giovane artista, che filtra la sua melodia attraverso gli occhi di un palombaro, narrando il reale difficoltoso di molti giovani, ma che è in cima alle piattaforme digitali mu­sicali, superando campanilismi e stereotipi di ogni sorta.

Sanremo 2024, il palcoscenico

Sanremo 2024, il palcoscenico

A ridare un tono metastorico e anacronistico, i Ricchi e Poveri e il Volo, che riportandoci alla classicità dei registri canori, hanno allietato i sentori dei nostalgici. Sound dance e ritmato, per Annalisa, terza in classifica, che non smette di far ballare i fans; ultime ma non per importanza, Loredana Bertè, che com­pie un viaggio introspettivo e, attraverso il suo pezzo, celebra se stessa, con tutte le sue imperfezioni e la sua voglia di vivere. Un altro inno al genere femminile, è stato rappresentato da Fiorella Mannoia, che con la sua “Mariposa” celebra la libertà di genere e la pluralità esistenziale delle donne. Una “gitana” e folkloristica Angelina Mango, che con la sua Rondine ha fatto rabbrividire milioni di te­lespettatori, portando sul palco la “Cumbia della noia” ha fatto riemergere la vitalità e lo spirito com­battente delle donne, che non si piegano al Mondo.

Sembra, dunque, che la forma dei lustrini allocati sui corpi dell’arena canora, abbiano, comunque, cedu­to il posto a polemiche e dibattiti, sia relativi alle disquisizioni internazionali concernenti pratiche di regime change e soluzioni pacifiche, che, per contro, alle questioni interne del Paese, che ricorrendo ad una pratica della ragion pura, anche stavolta, hanno attestato la natura squisitamente politica degli agen­ti della socializzazione mediatica, gatekeepers per antonomasia.

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1]  Sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa.
Il termine fu utilizzato per la prima volta dal giurista Raphael Lemkin per designare, in seguito allo sterminio degli Armeni consumato dall’Impero Ottomano nel 1915-16, una situazione nuova e scioccante per l’opinione pubblica; tuttavia, fu solo dopo lo sterminio posto in essere dai nazisti durante la Seconda guerra  mondiale e l’istituzione di un tribunale internazionale per punire tali condotte, che la parola g. iniziò a essere utilizzata nel linguaggio giuridico per indicare un crimine specifico, recepito sia nel diritto internazionale sia nel diritto interno di numerosi paesi. L’accordo siglato a Londra l’8 agosto 1945 tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e URSS, prevede, infatti, la categoria dei ‘crimini contro l’umanità’, che include lo stesso g. e rientra a sua volta nella più ampia categoria dei crimini internazionali. Il 9 dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ha poi adottato una convenzione che stabilisce la punizione del g. commesso sia in tempo di guerra sia nei periodi di pace e qualifica come g.: l’uccisione di membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; le lesioni gravi all’inte­grità fisica o mentale di membri del gruppo; la sottomissione del gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la di­struzione fisica, totale o parziale; le misure tese a impedire nuove nascite in seno al gruppo, quali l’aborto obbligatorio, la ste­rilizzazione, gli impedimenti al matrimonio ecc.; il trasferimento forzato di minori da un gruppo all’altro. Tale definizione è stata accolta nell’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale firmato a Roma il 17 luglio 1998. https://www.treccani.it/enciclopedia/genocidio/
[2] Fabietti, U., L’identità etnica, Roma, Carocci editore, 1995: 151.
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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica In­ternazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testa­te giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si oc­cupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.

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