di Giuseppe Savagnone
Professori sotto attacco
I segnali della crisi della scuola sono così evidenti che se ne stanno accorgendo perfino l’opinione pubblica – sempre molto distratta su questo tema – e la politica, che l’ha sempre messo in secondo piano. Il moltiplicarsi delle violenze ai danni di dirigenti scolastici e docenti, da parte di genitori e alunni, è forse il più clamoroso di questi segnali. Dallo scorso settembre ai primi di febbraio ben 26 casi! Con un aumento esponenziale rispetto allo stesso periodo dell’anno scolastico passato, che in totale, alla fine, ne aveva comunque registrato il ragguardevole numero di 37.
Per lo più sono i genitori a malmenare il personale scolastico, con spintoni, pugni, perfino calci, per esprimere la propria protesta verso valutazioni o provvedimenti che riguardano i loro figli. Fare l’insegnante è diventato un mestiere pericoloso.
La crisi della figura del docente
Si comprende così che il ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara si sia fatto promotore di un disegno di legge, già approvato dalla Camera e in arrivo al Senato, in cui si prevede l’inasprimento delle pene detentive nei confronti di chi aggredisce il personale scolastico, nonché la creazione di un Osservatorio nazionale che vigili sulla sua sicurezza. Valditara ha inoltre comunicato, in una circolare, che chiederà che l’Avvocatura generale dello Stato si faccia carico di rappresentare i lavoratori di questo settore sia a livello civile che penale. Misure senz’altro lodevoli, che però riguardano ancora solo la repressione del fenomeno e non la sua prevenzione, la quale dovrebbe essere invece affidata a una più ampia presa di coscienza, da parte della società e della classe politica, del ruolo decisivo della scuola e della dignità di coloro che vi operano.
A dover essere rivalutata è innanzi tutto la figura del docente. In realtà sono a volte gli stessi insegnanti a non essere all’altezza della dignità che essa implica. Emblematica la vicenda del 9 in condotta, attribuito dal consiglio di classe di una scuola di Rovigo, alla fine dello scorso anno scolastico, a uno studente che, insieme ad altri aveva sparato con una pistola a pallini di gomma in faccia a una insegnante, filmando la scena e divulgandola poi sui social. C’è da chiedersi cosa avrebbe dovuto fare quello studente per meritare, ai loro occhi, una valutazione meno entusiastica. Perché il 9, in passato, rappresentava il massimo voto di condotta. Vederlo assegnato a un ragazzo che ha sparato alla sua professoressa, per poi vantarsene ed esporla all’irrisione pubblica su internet, non può non lasciare sconcertati. Sarcasticamente qualcuno ha commentato: «Non gli hanno dato 10 perché in fondo è rimasta viva».
Già, è rimasta viva. Ma, a prescindere dal suo ruolo di docente – che per la scuola dovrebbe pur sempre contare qualcosa – è stata umiliata già semplicemente come persona. Se poi si tiene conto che dovrà in futuro affrontare delle classi ed esigerne il rispetto, si capisce che il danno arrecato da questa vicenda alla sua autorevolezza è stato irreparabile. Così come quello subìto dalla scuola, che contava su di lei per lo svolgimento di un servizio educativo qualificato. E a questo danno ha molto contribuito la mancata solidarietà da parte dei suoi colleghi, che hanno ritenuto irrilevante il massacro morale a cui è stata sottoposta dai suoi alunni. Anche in questo caso il ministro è intervenuto, facendo riunire di nuovo il consiglio di classe, che ha almeno ridimensionato la valutazione positiva dell’alunno. Ma qui è ancora più evidente la relatività del rimedio, rispetto alla gravità del male. La marcia indietro degli insegnanti, che già avevano mostrato poco equilibrio nell’assegnare quel voto di eccellenza, non può non apparire il cedimento ad una imposizione dall’alto e perciò ha ulteriormente indebolito la loro autorevolezza. Sarà molto difficile a questi professori parlare ai propri alunni di responsabilità e di coerenza.
È in primo piano, qui, il problema della professionalità delle persone a cui la società affida la formazione delle nuove generazioni, il nostro futuro. Senza sottovalutare le non rare eccezioni, sono troppi i docenti che il misero trattamento economico, la scarsissima considerazione sociale, il crescente appesantimento burocratico, spingono sulla via della demotivazione e dell’approssimazione. Il lavoro dell’insegnante, checché ne pensi la maggior parte di chi non lo fa, è molto impegnativo, sia sul piano intellettuale che su quello relazionale. La mediocrità, che in un ufficio è ampiamente ammessa e perdonabile, a scuola non è permessa, perché espone il professore al giudizio spietato dei suoi alunni e, tramite loro, dei genitori.
Senza dire che, in un mondo e in contesto culturale in rapidissima trasformazione, si dovrebbero garantire a chi insegna le occasioni, gli strumenti e il tempo per un continuo aggiornamento. L’insegnante dovrebbe essere considerato – e prima di tutto considerarsi lui stesso – non un impiegatuccio, ma un intellettuale. Non è facile, in questa società che ha sostituto i “maestri” con gli influencer e dove nessuno ascolta nessuno, mentre tutti si credono autorizzati a pontificare, sui social, riguardo a qualunque argomento.
Selezione culturale e selezione socio-economica
Si aggiunga a questo clima culturale scoraggiante il diffuso fraintendimento di esigenze in sé validissime, come quella di garantire a tutti l’istruzione attraverso la lotta alla dispersione scolastica, dove si intende, con questa espressione, la mancata, incompleta o irregolare fruizione dei servizi dell’istruzione da parte dei giovani in età scolare. Il fenomeno è particolarmente grave nel nostro Paese. Nel 2022 l’11,5% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola, fermandosi alla licenza media. È un dato allarmante, peraltro superiore alla media europea del 9,6%, che relega l’Italia agli ultimi posti della classifica.
Ma il problema non si risolve certo abbassando il livello minimo del profitto richiesto e promuovendo in massa gli studenti, prescindendo dalla loro effettiva preparazione. Questo danneggia tutti: i più capaci, a cui viene chiesto sempre di meno, e quelli che per varie circostanze hanno maggiori difficoltà, i quali, invece di essere seriamente aiutati ad affrontarle e superarle, vengono mandati avanti indiscriminatamente, portandosi dietro lacune enormi, sempre meno facilmente colmabili via via che il corso di studi progredisce.
Accade così che alle superiori arrivino alunni che, avendo fatto male la scuola primaria e le medie, hanno ancora seri problemi a livello lessicale e grammaticale, nonché nell’approccio elementare alla matematica. Non c’è da stupirsi che, secondo l’ultimo rapporto Invalsi, la metà degli studenti che terminano le scuole superiori non sia in grado di comprendere ciò che legge, né di affrontare correttamente gli esercizi matematici.
La dispersione scolastica va combattuta non promuovendo ad ogni costo ed eliminando la selezione culturale, indispensabile per mettere alla prova e sollecitare l’impegno e i progressi degli alunni, ma affrontando seriamente la selezione sociale ed economica, che ancora purtroppo gioca un ruolo fondamentale. Rinunziare alla prima può servire a mascherare il perdurare della seconda, non a superarla. Gli studenti svantaggiati resteranno emarginati anche se andranno avanti nel percorso scolastico e se alla fine sarà loro regalato un titolo di studio.
Lo conferma, nel rapporto Invalsi, il panorama dei risultati delle prove, tutt’altro che omogeneo sul territorio nazionale: in italiano i divari tra le diverse aree del Paese, specialmente tra Nord e Sud, raggiungono i 23 punti percentuali, in matematica addirittura 31 punti. Le scuole dell’Italia settentrionale riescono in generale a mantenere livelli in linea con i più importanti Paesi europei. Sono quelle del Sud a ritrovarsi confinate in fondo alla classifica.
«L’Italia», ha commentato preoccupato il ministro Valditara, «è divisa in due, con ragazzi del Mezzogiorno fortemente pregiudicati nelle opportunità formative e occupazionali rispetto agli studenti di aree più avvantaggiate del Paese». Un dato che dovrebbe far riflettere chi, come lui e il governo di cui fa parte, ha appena approvato il progetto dell’autonomia differenziata, sostenendo che da essa trarranno beneficio anche le regioni meridionali…
Le nuove tecnologie e l’educazione a pensare
Ma il problema che la scuola oggi deve affrontare è ben più radicale. È quello creato da una società in cui le nuove generazioni vengono allevate mettendo loro in mano, spesso fin dalla più tenera età, uno smartphone o un tablet. Sono evidenti, e non possiamo ormai farne più a meno, i vantaggi della comunicazione virtuale. Meno attenzione si ha per i suoi limiti. La comunicazione scritta, fondandosi su simboli che rimandano a referenti esistenti nella realtà, esige, da parte di chi la usa, lo sforzo di decifrare il senso sia delle singole parole, sia del testo nel suo insieme, per operare questo collegamento. Quella virtuale no. Ci si può fermare al simbolo come se fosse la realtà, perché esso ne simula perfettamente le forme visive e sonore, anzi, nelle realizzazioni tecniche più avanzate, anche quelle tattili.
In questo modo, la mediazione dell’intelligenza – che ancora in un recente passato era indispensabile per capire i segni impressi sulla pagina di un libro o di un giornale – diventa superflua. Si viene “informati” – nel duplice senso di “venire a conoscenza” e di “ricevere una nuova forma” – senza necessariamente formarsi il concetto di ciò che si è ricevuto. Da qui la sempre maggiore difficoltà delle persone, soprattutto dei giovani, di accostarsi alla lettura di giornali e di libri. Le tirature dei grandi quotidiani cartacei sono dimezzate e le loro edizioni online si fondano, inevitabilmente, sui nuovi criteri comunicativi, dando più spazio alle immagini e ai titoli ad effetto che allo sviluppo logico degli argomenti. Mentre la comunicazione si estende sempre di più su Internet, la gente legge sempre di meno.
Per non parlare del ruolo sempre maggiore dell’intelligenza artificiale, che con l’avvento della chatGPT, è ormai alla portata di tutti e inevitabilmente darà luogo da un lato a sempre nuove opportunità, dall’altro a problemi finora sconosciuti. Dove il pericolo principale è che gli esseri umani demandino a delle macchine lo svolgimento delle loro funzioni intellettuali, facendosene sostituire invece che servendosi di esse per pensare meglio.
La scuola non fa che registrare questa crisi di transizione. Ma, quel ch’è grave, non sembra in grado di fronteggiarla. Anzi neppure dà l’impressione di volersi attrezzare per farlo, elaborando un progetto educativo capace di integrare le preziose possibilità offerte dalle nuove tecnologie in un quadro più ampio, che tenga conto della tradizione.
Il pericolo è che, in questo travolgente sviluppo delle tecniche di cui ormai l’educazione può sempre più disporre, venga perduto l’obiettivo di formare persone capaci di aver un pensiero critico sulla realtà che le circonda. La scuola deve educare innanzi tutto a pensare. Forse, più ancora che le lacune conoscitive di cui prima si parlava, è la scarsa capacità di riflessione ciò che minaccia i nostri giovani. E senza pensiero, le nozioni, anche ammesso che ci siano (e non sempre, lo abbiamo visto, ci sono), non danno luogo a vere competenze, perché non consentono di affrontare creativamente i nuovi problemi che via via si pongono nell’approccio alla realtà.
Qui il problema non è solo il rischio dell’analfabetismo scolastico, di cui parlavamo prima, ma quello di un più generale impoverimento umano delle nuove generazioni, che già adesso rivelano in mille forme – dalla droga, ai suicidi, al bullismo, alle violenze sessuali – la loro fragilità e il loro disorientamento. Perché la mancanza di riflessione ha come conseguenza la difficoltà di dare ordine alla propria vita emotiva, di orientare in modo ragionevole le proprie scelte, di stabilire rapporti costruttivi. «Il sonno della ragione genera mostri», ha scritto Goya. Sono quelli che incombono sui nostri giovani: droga, gesti balordi, suicidi. Una scuola degna di questo nome deve saper affrontare queste ferite e curarle, non esserne vittima.
I mezzi e i fini
Ma, se non basta che sia garantita la trasmissione delle conoscenze, non basta neppure che lo sia l’educazione al pensiero. Alla scuola spetta un compito ancora più impegnativo, reso urgente dal contesto culturale di una società dove è diventato difficile, alle nuove generazioni, trovare dei fini che diano senso alla vita. In passato c’erano i cosiddetti “valori”, non sempre autentici, non sempre condivisibili, ma che consentivano a un giovane di credere in qualcosa. Un tempo si moriva per la Patria, per la Rivoluzione, per il Progresso… Non possiamo certo rimpiangere la perdita di questi discutibili ideali. Ma è allarmante constatare che non ce n’è più nessuno, oggi, per cui qualcuno darebbe la vita. E se non c’è qualcosa per cui morire, forse non c’è n’è neppure per cui vivere.
Stiamo lasciando ai nostri figli un mondo desertificato in cui, come ha denunciato Galimberti nel suo libro L’ospite inquietante, l’ombra del nichilismo grava sui giovani. Con conseguenze devastanti. Perché, per sconfiggere i mostri che li minacciano, non basta svegliare la ragione, bisogna anche aiutarla a distinguere il vero dal falso, il bene dal male. E questo implica la scoperta di criteri, di punti di riferimento intellettuali e morali. Il logoro, abusato tema dei valori si prende qui la sua rivincita. Si potrà cambiare il nome, ma della sostanza non si può fare a meno.
La famiglia, in profonda crisi, delega tutto alla scuola. Ma questa, a sua volta, anche quando riesce ad assolvere il suo compito a livello di trasmissione di competenze, sembra aver rinunziato a prospettare un qualsiasi orizzonte valoriale. Salvo a scoprire che, senza di esso, si scatenano fenomeni distruttivi di cui il più vistoso, ultimamente, è la violenza sulle donne. Anche un ottimo studente, se non ha maturato una prospettiva di senso che lo guidi nelle sue scelte, in certe circostanze può rivelarsi un “mostro”.
Da qui il tentativo – in realtà un po’ patetico – di rimediare con il progetto “Educare alle relazioni” (sulla stampa lo si è chiamato anche “Educazione sentimentale”), dedicando a questo 30 ore l’anno. Come se con queste 30 ore si potesse colmare il vuoto che sta a monte delle violenze di genere… Ma per questo non sono neppure adeguati gli apporti degli psicologi e dei sessuologi. La questione dell’educazione affettiva e sessuale – più in generale del rapporto con gli altri – è strettamente legata a quella del senso che si sceglie di dare alla propria esistenza. E, per quanto importante sia la consulenza di uno psicoterapeuta o uno psicoanalista, nessuno può pensare di delegare a loro la soluzione di questo problema.
In realtà, più che un nuovo insegnamento con cui caricare la nostra scuola, già troppo affollata, servirebbe una decisa riqualificazione in senso educativo di tutto il suo lavoro. Non per imporre delle soluzioni – questo sarebbe un indottrinamento inaccettabile in linea di principio, oltre che improponibile di fatto, in una società pluralista – ma per aprire delle prospettive, per porre delle domande, per suscitare una ricerca esistenziale, a cui la nostra ricchissima tradizione culturale potrebbe e dovrebbe fornire un valido supporto.
Ma per questo non bastano i disegni di legge e le circolari. È necessaria una “rivoluzione” pedagogica di cui gli insegnanti dovrebbero essere i primi protagonisti, in dialogo con gli studenti e con le loro famiglie. La profonda insoddisfazione che un certo numero di docenti già oggi sperimenta – nei confronti di una scuola che, nella migliore delle ipotesi, insegna ad usare i mezzi ma esorcizza il problema dei fini – dovrebbe diventare contagiosa e comunicarsi alla maggior parte del corpo docente, anche sotto la spinta degli studenti. Senza bisogno di riforme istituzionali, senza ore aggiuntive, cambierebbe l’atteggiamento di fondo, cambierebbe lo stile. E quel più stretto rapporto tra scuola e vita, che oggi i ragazzi chiedono confusamente nelle loro “occupazioni” e nelle loro “giornate dello studente”, si realizzerebbe nelle normali ore di lezione, superando l’attuale scissione che separa l’insegnamento delle diverse discipline dai problemi pressanti dell’esistenza quotidiana.
Non è un’utopia. Ma richiede che le persone consapevoli del problema – oggi purtroppo una minoranza – si impegnino in questa direzione dentro e fuori le aule scolastiche. Affinché la scuola esca dal guado.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Giuseppe Savagnone, dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”. Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane, Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.
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