Negli ultimi anni la produzione letteraria internazionale e, in particolare, quella africana sono state oggetto di un’attenzione ragguardevole e costante da parte del mercato editoriale italiano [1]. Segno di una rinnovata sensibilità e di un interesse vivo che un’ampia platea di lettori e lettrici rivolge a sguardi, narrazioni, commenti che attraversano continenti, mari, forme di vita.
In questo contributo vorrei condividere alcune riflessioni emerse a partire dalla lettura di due romanzi di recente pubblicazione, entrambi di autori di origini tunisine. Il primo, Bell’abisso, pubblicato dalla romana edizioni e/o (collana “Dal mondo”), di Yamen Manai, classe 1980, la cui edizione originale risale al 2021; il secondo, Baba, opera prima di Mohamed Maalel (nato ad Andria nel 1993), pubblicato per Accento edizioni nel 2023. Entrambi i romanzi sono stati molto apprezzati dalla critica. Bell’abisso, in particolare, ha vinto numerosi premi internazionali tra cui il rinomato Prix de la Littérature arabe nel 2022.
Sebbene l’assunto per cui la letteratura possa rappresentare una fonte scientifica affidabile non sia trasversalmente condivisibile tra coloro che praticano le scienze sociali – tantomeno da chi considera l’etnografia la via privilegiata alla produzione di una scienza radicata e incorporata nei terreni sociali solcati dalle trame collettive di donne e uomini [2] – nei prodotti della letteratura è possibile scorgere rappresentazioni di indubbio interesse, specie se messe in dialogo con la ricerca sociale e con la più compiuta pratica antropologico-etnografica.
Ecco allora che Bell’abisso e Baba riflettono, nelle loro convenzioni retoriche e testuali configurate all’interno dello specifico genere romanzesco – convenzioni cui non sfuggono nemmeno le più dense e raffinate etnografie, sebbene si tratti di convenzioni di altra natura – posture e sguardi idiosincratici sulla Tunisia contemporanea ma non per questo (e non sorprendentemente) lontani da una risonanza con testimonianze e commenti sociali raccolti in studi e ricerche che negli ultimi anni sono stati dedicati ai mutamenti politico-sociali e culturali in corso nel Paese nordafricano.
Più che a un esame sinottico di ciascun testo, e men che meno configurabile in termini di critica letteraria, in queste pagine mi dedicherò a una multiforme restituzione di impressioni, intuizioni e riflessioni ricavate dalla lettura dei due romanzi, incrociandole con considerazioni più consolidate riconducibili alle mie incursioni scientifiche ed etnografiche nel contesto della Tunisia contemporanea e post-rivoluzionaria (Cordova 2022).
Tanto per iniziare, non sarà un caso se gli autori, entrambi giovani sebbene di generazioni differenti, rivolgono uno sguardo molto critico se non impietoso verso un Paese al quale sono legati pur non vivendoci più stabilmente. Sguardo trasfigurato nel racconto di un’infanzia mai completamente felice e consegnata a una lucida consapevolezza nell’esercizio autobiografico che gli autori intendono lasciar sedimentare sulla pagina dai luoghi in cui oggi vivono. Se Manai risiede a Parigi, Maalel (padre tunisino e madre pugliese) è nato e lavora in Italia, e consegna alla sua scrittura il ricordo dei periodici rientri nel Paese di origine dei genitori che segna la dimensione transnazionale delle vite di tanti migranti e/o italiani con “background migratorio”.
Se in molti casi il distacco e la lontananza suscitano un interesse per le proprie origini che si traduce in una coltivazione nostalgica laddove non romanticizzata di un altrove idealizzato, le scritture autobiografiche dei due autori, che accettiamo per sincere pratiche del ricordo, assumono sfumature dolorose, amare, inclementi, rabbiose nella rievocazione di memorie, persone, elaborazioni culturali “tradizionali”, contesti e consuetudini della vita associata. E non sarà un caso se in entrambi i romanzi è la morte a farsi carico e a mediare la redenzione e il trascendimento delle vicende esistenziali dei personaggi principali. In Bell’abisso una morte tragica, cui va incontro l’essere non umano cui il giovane protagonista si lega sullo sfondo di miserie umane e politiche che contrassegnano di un timbro sinistro il complicato percorso post-rivoluzionario della Tunisia dei nostri giorni. In Baba, la morte di un personaggio altrettanto centrale nella definizione identitaria e affettiva dell’autore-protagonista il cui trapasso simboleggia la compiuta accettazione del proprio passato, assurgendo a balsamo curativo per cicatrici esistenziali ancora ben visibili.
Volendoci collocare su un piano narrativo, la morte assume la veste di dispositivo risolutivo, nonostante la durezza della sua occorrenza o il dolore che apre alla parziale ricomposizione di traumi infantili, malinconie adolescenziali, conflitti personali fino ad allora insoluti. Ma testimonia anche le tante difficoltà di cui è lastricata la vicenda collettiva e politica di un Paese, sublimata nelle dinamiche intime e individuali che percorrono le pagine dei due libri, che dopo la destituzione del despota Ben Ali occorsa nel 2011 non ha ancora dato forma a un presente oggi più che mai incancrenito nell’algido autoritarismo populista di Kaïs Saïed. Quasi che la morte, evento al quale è indirizzato un lavoro culturale tra i più difficili perché possa essere ricondotto e incanalato nel flusso significante della storia, possa almeno nella letteratura e nelle liturgie personali e familiari, di cui gli autori raccontano, avviare una compiuta transizione a una fase nuova e inedita delle cose, fase che in Tunisia sembra sia rimasta bloccata, intrappolata, congelata, “tradita” per sempre nei meandri dell’attuale restaurazione, dopo la Primavera.
Sia Manai che Maalel demandano con sapienza a un accurato registro sensoriale il compito di restituirci la loro percezione di straniamento rispetto alle comunità morali e politiche cui sono in qualche modo legati ma la connessione alle quali è segnata da fratture e discontinuità. Questo spettro sensoriale esprime una tangibilità ancora più efficace di quanto non possano farsi carico le parole, anche se è dalle parole che Ahmed dà avvio alla rievocazione (non scevra di riflessi psicoanalitici) del padre, Baba nell’arabo colloquiale tunisino. Parole che si sforzano di congiungere l’arabo tunisino e il pugliese, due idiomi che prendono forma nella capacità immaginativa del piccolo Ahmed, che ricorda di come già da piccolo, di notte, nel letto, desse vita al suo personale vocabolario sincretico di parole inventate eppure in grado di incarnare quella «doppia coscienza» che riflette i plurimi mondi abitati dai migranti e dalle loro famiglie.
Ma, come si diceva, il rapporto controverso con il Paese di provenienza o di nascita è affidato soprattutto a un vocabolario di suoni, sapori e odori. E non sarà casuale se Ahmed non avverte alcuna esitazione nell’elencare una sgradevole panoplia di percezioni sensoriali e corporee che acquistano particolare forza in occasione dei periodici e odiati rientri in Tunisia. L’eccesso di sudore, la sovrabbondanza di peli, gli odori e la puzza che Ahmed associa ai familiari paterni – su cui grava ed è esteso l’ambivalente sentimento che egli ripone nel padre – sono correlati alla puzza di cipolla e di aglio che ristagna nei luoghi frequentati dai tunisini e, più in generale, dai musulmani pugliesi dalle barbe non curate di cui Ahmed fa la conoscenza nel corso del suo accidentato cammino di maturazione e scoperta identitaria. Una negazione del legame con la famiglia tunisina e con il contesto di provenienza che non può non eleggere il corpo a suo veicolo principale, dal momento che è stato proprio il corpo a incarnare il primo marcatore iniziatico dell’appartenenza comunitaria, cui fa da controcanto la perdita di fiducia nel padre, organizzatore della circoncisione rituale che Ahmed subisce all’età di sei anni durante uno dei rientri a Tunisi, apprendendo solo nel momento in cui gli vengono calati i pantaloni dell’operazione che gli sarebbe stata applicata.
Anche questo momento, che inscrive nel soggetto un’appartenenza comunitaria indelebile fissata in una cosmologia muta e avvolgente, proprio mentre Ahmed diventa ‘persona’ imparando a odiare il padre, ci viene raccontato scandendo trame di suoni, colori, odori e sensazioni in rapida successione. Il profumo dei gelsomini di cui è disseminata la carrozza su cui Ahmed e i genitori compiono un giro della città prima della cerimonia rituale; il tappeto – che «puzzava di polvere, muffa e piedi sporchi» – su cui viene fatto sdraiare; il dolore, chiamato a trasformare il bambino in uomo, secondo l’augurio del padre; il sangue, copioso, che inonda i sedili dell’automobile che porta Ahmed in ospedale quando, il giorno dopo, è chiaro che il taglio operato al prepuzio dalla zia del bambino ha toccato anche la vena dorsale superiore e Ahmed deve essere operato per scongiurare l’aggravarsi dell’infezione.
Se la circoncisione dà sostanza, nel vivido racconto di Maalel, alla rimozione dell’appartenenza a una comunità, questa acquisirà nuova luce solo nel tempo a venire, dopo anni di smarrimento identitario, squilibri personali e irrigidimento affettivo, quando, studente di una specialistica in comunicazione, trascorrerà un periodo di studio in Erasmus proprio in Tunisia per fare pace con se stesso, il proprio passato e il genitore paterno, anziano e mal ridotto, cui Ahmed riesce infine a riconoscere, nelle commoventi pagine finali del libro, una contorta e contraddittoria capacità di amare.
Violenza
L’ambivalenza affettiva e l’ampio spettro di sentimenti che contrassegnano la vita del pugliese-tunisino Ahmed travalicano in un sentimento di rabbia senza appello, affidato alla prosa scorrevole ed evocativa che Yamen Manai dispiega in Bell’abisso. Il giudizio riservato al padre e alla paternità in genere non sconta qui alcuna clemenza. Sono la violenza e l’oppressione a plasmare gli scenari della vita – personale, familiare e sociale – in una Tunisia caratterizzata dal concatenarsi di repressione, limitazione della libertà, conformismo, disprezzo per la cura degli esseri viventi e del bene comune, miseria umana e sociale. La sprezzante figura paterna cui il quindicenne protagonista del breve romanzo si rapporta non conosce alcuna redenzione. Anzi, il suo egoismo indifferente aumenta nel tempo, fino alla tragica risoluzione finale.
La caratterizzazione della figura paterna che troviamo nei due romanzi assume sfumature e gradazioni differenti ma è rivelatore di un più profondo ripensamento cui il ruolo del padre sta andando incontro nella contemporaneità tunisina. Declinato nel biasimo senza rimedio della prosa sferzante di Manai, in cui la descrizione della violenza ordinaria che i padri esercitano sui figli e sulle mogli («Di tutti i padri che conosco, non ce n’è uno che si salvi») si accompagna alla proiezione metaforica di un’autorità il cui destino tragico e democratico non può che esserne la deposizione («Il vecchio era semplicemente in ansia per il suo trono»), o nell’ambiguità malinconica delle sfumature psicologiche di Baba, la lettura che Manai e Maalel offrono della paternità coincide con la sua messa in crisi annunciata, da diversi anni, in vari studi di marca psico-sociologica e antropologica che si soffermano sui mutamenti della famiglia tunisina contemporanea [3].
Molte letture recenti di dinamiche e conflitti sociali contemporanei (la migrazione; la radicalizzazione; il terrorismo) poggiano sulla mobilitazione di un arsenale concettuale in cui la forclusione del padre e la pulsione fusionale che lega figli e madri – indomite protagoniste delle ricerche disperate dei giovani ḥarraga (“clandestini”) e temerarie testimoni di giustizia contro i dispositivi securitari dello stato d’eccezione tunisino – rivelano, sebbene col rischio di produrre maggior confusione di quanto non pretendano di illuminare, nuove trame edipiche nell’atto di riaffiorare dal folklore maghrebino in forme del tutto originali (Garnaoui 2022).
Ma la fragilità della figura paterna (emergente nella fluttuante articolazione di tenerezza e crudeltà soprattutto in Baba, vero romanzo di formazione in cui i profili intergenerazionali di padre e figlio/figli si stemperano l’uno nell’altro, ognuno con il suo carico di nodi irrisolti e debolezze) consente di oltrepassare il pur centrale ambito della sfera familiare. Gli abusi domestici di cui questi padri si macchiano fanno il paio con una più ampia grammatica della violenza che appone il suo sigillo ai contesti della socializzazione informale e formale. Dalla casa alla scuola passando per i gruppi di pari, la violenza assume la forma e l’entità di una «valanga che si forma in vetta, rotola lungo il pendio e precipita incontrastata finché prima o poi non ti travolge. Nessuno si interpone, fa da argine o diga. E più sei in basso, più l’onda è grossa, più tu sei fottuto. In fondo a tutto ci siamo noi, i figli del popolo».
Questo allarmato richiamo alla pervasività della violenza riflette una consapevolezza raccolta in diversi studi che negli ultimi anni hanno esaminato la diffusione dei codici della violenza nei quartieri popolari (Catusse, Lamloum 2021) così come nei contesti scolastici. Simboleggia una presa di coscienza che scuote ampi strati dell’opinione pubblica tunisina, specie quando la violenza viene vista con il distacco dell’emigrato, alle prese con altre – più sottili e strutturali – forme di violenza. Essa documenta una crisi acuta e non transitoria del legame sociale che negli ultimi anni si è manifestata non solo nella rinnovata repressione securitaria e politica ma che trova la sua più compiuta espressione anche nelle difficoltà incontrate nella gestione e nella tutela dei beni comuni.
In particolare nel romanzo di Manai le spiagge, il mare, i boschi, le strade e le foreste appaiono implacabilmente invasi da spazzatura e sporcizia, prodotti della delinquenza e dell’insensibilità sociale. Sono il segno dell’incapacità collettiva di presa in carica del presente – e del futuro – da parte di una comunità politica e morale nazionale che deve reimparare a prendersi cura di sé dopo decenni di obbedienza e “servitù volontaria”. Una “cura” che non riguarda solo la tutela degli ambienti convissuti, ma che investe attitudini e orientamenti affettivi verso il prossimo – esseri viventi non umani compresi. La rabbia dispiegata dal protagonista, infatti, si genera in controcanto a una capacità di amare – nonostante l’educazione violenta che ne permea l’infanzia e la quotidianità – riabilitata a partire dall’incontro con Bella, un magnifico randagio in cui il giovane avatar di Manai si imbatte all’età di dodici anni, di ritorno da scuola e al quale sarà indissolubilmente legato fino al tragico esito del racconto. Una “forma di vita” in comune, quella uomo-animale, non imbevuta della corrente violenza che i suoi coetanei generalmente indirizzano agli animali, oggetto di sevizie, torture, atti di inusitata crudeltà e miopia amministrativa, come la barbara soppressione dei cani randagi che le municipalità mettono in atto su disposizione del Ministero dell’Ambiente – soppressione da cui prenderà vorticosamente forma il passaggio all’azione (e al “politico”) del protagonista.
Eppure, lontano dagli sguardi inclementi degli autori è possibile individuare esperienze significative, emergenti da minuti contesti locali lontani dai grandi riflettori, in cui il legame sociale, la solidarietà e il civismo si affermano come motore di una nuova grammatica affettiva e politica in grado di legare esseri umani e non umani, appartenenze ed eco-sistemi. Penso all’oasi di Jemna, nel sud ovest tunisino, al centro di una faticosa e coraggiosa azione locale di recupero e valorizzazione dei suoi 300 ettari di palmeto che si è articolata dal basso (Kerrou 2023); così come ai numerosi esempi di civismo che negli ultimi anni sono innegabilmente affiorati dalle municipalità più periferiche dei grandi agglomerati urbani e dai quartieri più antichi eppure oggi squalificati, e in cui il dinamismo associativo giovanile (ma non solo) è stato in grado di assicurare una flebile ma nuova vita a progetti di rinnovata socialità e partecipazione (Cordova 2021; 2019) Sono esempi che testimoniano di una volontà di presa in carico della “Rivoluzione” del 2010-2011 e di un’ambizione, forse non così estesa nel corpo sociale ma molto solida e armata di desideri ambiziosi, di riscrivere la partitura di una sinfonia di cui non abbiamo ancora ascoltato l’ultimo movimento [4].
Politica e fine del mondo
Certo, promesse e speranze a parte, è evidente che le ambizioni che recava in sé il seme della Primavera non siano germogliate con la velocità e il rigoglio auspicato da tanti – e da una larga fetta di cittadinanza tunisina in primis. Questo disincanto è riflesso nei giudizi di svalutazione indirizzati al patrimonio storico-culturale del Paese e all’impresa rivoluzionaria stessa, giudizi tesi a evidenziare uno scarto profondo tra soggetto e comunità. Così della grande moschea di Kairouan, «vanto storico-artistico» tunisino e tra le più antiche moschee africane, in Bell’abisso vengono rimarcate le scritte sui muri esterni con cui i commercianti “prenotano” la propria postazione nei suq. Toni caustici e amari, pregni di disillusione, sdegno e delusione vengono indirizzati egualmente alla cacciata di Ben Ali, investendo del medesimo registro caustico personaggi come Bourguiba, il “padre” della nazione sorta dall’indipendenza dalla Francia.
A cosa è servita la cosiddetta “Rivoluzione”? A dire “Smamma” (nel romanzo è tradotto in italiano l’imperativo dégage! che riecheggiava tredici anni fa a Tunisi) al despota?
«Due sillabe, un buon prezzo per una Rivoluzione. E il fatto che questo abbia stupito il mondo dimostra solo quanto il mondo sia messo male. Ma intanto abbiamo conquistato la democrazia? Proprio un bell’affare! Prima avevamo la peste, ora possiamo scegliere tra la peste e il colera. Prima avevamo quaranta ladroni, ora ne abbiamo quarantamila. E la libertà di espressione? È così, oggi siamo liberi di dire merda alla luce del sole? Merda allora. Merda. E questo quante pance ha riempito? Merda. Quanti posti di lavoro ha creato? Merda. Quanti giovani ha salvato dalla violenza? La violenza non è mai cessata, è andata avanti per la sua strada» (Manai 2023: 73).
Questa riflessione polemica e distruttiva riecheggia e ingloba l’ordinario prevalente senso comune che assegna all’evento rivoluzionario delle Primavere arabe uno statuto politico dubbio, fragile, se non del tutto esecrabile. La democrazia appare svuotata di senso e la libertà di espressione (sempre più ristretta negli ultimi anni) mostra tutto il suo alone di caducità sullo sfondo di una deprivazione materiale e di uno sfaldamento sociale che trovano espressione nella povertà e nella proliferazione della violenza ordinaria e terroristica. E il riferimento ai quaranta ladroni, benché calcato sul celebre racconto persiano, mostra una sorprendente comunanza con le espressioni dissacranti con cui i miei interlocutori negli ultimi anni hanno dubitato della portata delle conquiste della Primavera, accogliendo con favore, invece, il recente accentramento dei poteri nelle mani del presidente Saïed.
La bravura dell’autore di Bell’abisso risiede anche nell’abilità di offrire prospettive di corrosiva critica sociale a partire da istantanei squarci sul presente, come quando evoca le partenze per mare di tanti giovani tunisini disoccupati e costretti in una liminalità sociale ed esistenziale senza orizzonti di risoluzione, di «tutti quei ragazzi che se ne stanno con il culo incollato alle sedie del bar Sport a sorseggiare tutto il giorno lo stesso cappuccino e ad aspettare il futuro come un autobus che non passa mai», ragazzi che «oggi nutrono i pesci con i loro corpi annegati».
La critica sociale sconfina nell’allusione a uno scenario apocalittico, in cui la fine del tempo delle cose viene prefigurata evocando la possibilità che gli elementi del paesaggio (come il mare e le montagne) possano scomparire da un giorno all’altro, abbandonando un’umanità empia e ingrata, su cui grava l’incapacità di fondare alleanze politiche armoniose con le forme di vita non umane. In questa apocalisse evocata rientra anche la porosità dei confini tra vivi e morti, simboleggiata nelle drammatiche pagine conclusive in cui il protagonista trova rifugio nel celebre cimitero tunisino di El Jellaz, dove interloquisce con alcuni dei personaggi di rilievo storico e politico i cui corpi giacciono nelle bianche tombe e che, interpellati, pare certo si sarebbero rifiutati di riaprire gli occhi, come se il ritorno alla vita avrebbe comportato nuovi peccati da espiare. «Ho invocato dal profondo del cuore il mio paese e ho pianto le nostre sorti. Raccontavo che eravamo maledetti, che eravamo finiti. Mormoravo che, noi come loro, eravamo in un bell’abisso nel quale i sogni si sono arenati, che la nostra parte migliore giace sei piedi sotto terra».
Laddove i confini tra vita e morte diventano opachi, nel bell’abisso in cui il giovane protagonista afferma sia sprofondato un intero Paese, ogni possibile comunità politica sembra sfaldarsi fino all’estinzione. Lo sfogo, intimo e collettivo, reso al cimitero presenta un’aura epigrafica, ratificando in una resa commovente il declino di un popolo che aveva affidato alla rivolta i sogni di un nuovo cominciamento, infranto contro il muro di una realtà che respinge con durezza ogni incanto affabulatorio e autoassolutorio.
Ma negli spazi liminali dove vita e morte si incontrano, l’azione prende improvvisamente piede e la ricerca della responsabilità (pienamente politica) cui sono demandati senso e modalità specifiche del vivere collettivo attraversa le ultime pagine di Bell’abisso in un climax dal sapore kafkiano. Di fronte a funzionari, sindaci e ministri capaci di eludere la valutazione circa il proprio operato appellandosi alla mera esecuzione di ordini impartiti da livelli più alti di decisione politica, la punizione vendicativa di chi subisce quotidianamente torti e sopraffazione consiste nell’amputazione della loro mano, emblema della persona e preludio a ogni agentività. “Strappar via” le mani richiama una grottesca legge del taglione trasfigurata nel vuoto democratico che attraversa la Tunisia contemporanea. Così come i parlamentari votano per alzata di mano senza coscienza e in assenza di qualsivoglia autoesame critico del proprio lavoro, la violenta amputazione dell’arto si configura come tragica giustizia per quegli «esseri senza wali né rifugio» [5]: gli ultimi, gli invisibili della storia.
Baba e Bell’abisso non rappresentano solo due esempi ben confezionati di letteratura, l’attenzione ai quali può senz’altro risultare interessante per una disamina aggiornata del clima culturale del Paese nordafricano. Pur da angolazioni e registri stilistici differenti, e secondo diversi gradi di intensità emotiva, provano – riuscendoci – a raccontare trame intime e collettive dalla cui ricomposizione passano il presente e il futuro della Tunisia. Le storie di Ahmed e Bella trascendono la portata singolare delle vicende cui danno forma e ci consegnano le ordinarie inquietudini con cui donne e uomini sono chiamati a confrontarsi nei tempi che viviamo.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Mi limito a citare l’antologia Africana. Viaggio nella storia letteraria del continente, appena pubblicata da Feltrinelli e curata da Chiara Piaggio e Igiaba Scego.
[2] Evito volutamente di richiamare i nodi critici della svolta letteraria o dialogica in antropologia che ha attraversato parte dell’antropologia culturale statunitense.
[3] Mi limito consapevolmente a restringere lo sguardo alla “famiglia tunisina”, dato che la trasformazione dello statuto paterno è al centro di una riflessione multiforme che trascende la sponda meridionale del Mediterraneo.
[4] Di queste esperienze tratta tra l’altro il bel film di T. Ben Naser, La révolution est là (2018).
[5] Nella tradizione islamica sufi-marabouttica, il wali è colui che, spiritualmente prossimo a Dio, può essere associato alla figura del “santo protettore” del cristianesimo.
Riferimenti bibliografici
Catusse, M., Lamloum, O. (a cura di), Jeunes et violences institutionnelles. Enquêtes dix ans après la revolution tunisienne, Tunis, Arabesques, 2021.
Cordova, G. Challenging hegemony, imaging alternative. Everyday youth discourses and practices of resistance in contemporary Tunisia, in “The Journal of North African Studies”, 26(2), 2019: 337-55.
Cordova, G. Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera. Torino, Rosenberg&Sellier, 2022.
Cordova, G. Shaping the future(s). Civil Society and Itineraries of Personal Commitment in Tunisian Democratic Transition, in “Etno-Antropologia” , 9(1), 2019: 81-100.
Garnaoui, W. Harga et désir d’Occident. Étude psychanalytique des migrants clandestins tunisiens, Tunis, Nirvana, 2022.
Kerrou, M. Jemna. L’oasis de la revolution, Tunis, Cérès Ed, 2023.
Maalel, M. Baba, Milano, Accento edizioni, 2023.
Manai, Y. Bell’abisso, Roma, edizioni e/o, 2023 (2021).
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Giovanni Cordova, ricercatore in antropologia culturale presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum etno-antropologico) presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha preso parte a progetti di ricerca inerenti al Nord Africa (Tunisia, Libia) e alle migrazioni internazionali. Negli ultimi anni ha condotto uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia. Ha recentemente pubblicato per le edizioni Rosenberg&Sellier il volume Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera.
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