di Stefano Montes
Rifletto, in questo mio breve contributo, sulle finalità di uno studio – teorico e pratico – della dimensione visiva e sull’opportunità di inserirlo in una concezione epistemologica, più ampia, d’ordine culturale e non soltanto disciplinare: vale a dire di una sola disciplina e di una singola autorità teorica. In sostanza, mi interrogo sul “visivo” e sulla sua appartenenza. E mi interrogo, giustamente, a partire dai vocaboli in questione: i vocaboli che caratterizzano il campo. È noto: dietro le parole, si situano le teorie; dietro le teorie trovano posto i posizionamenti epistemologici. Se, dunque, vocaboli come “visivo” e “visualista” sono comunemente accettati e designano un tipo di ricerca specifica, è importante chiedersi, in contrappunto, quale è il limite di questa ricerca e di una separazione – sovente implicitamente prospettata – tra il “visivo” e, per esempio, il “letterario” o altro.
La domanda è: i visualisti analizzano solo quadri, fotografie, film, poster e tutto ciò che è visibile? Oppure, in alternativa, si deve considerare il “visivo” – come suggeriscono alcuni studiosi – per strati di investimenti successivi di gerarchie di categorie pertinenti semanticamente (dal figurale al figurativo fino all’iconico)? Se, infatti, secondo una certa concezione, il “visivo” riguarda le arti visive e la loro specifiche configurazioni di cattura della realtà e dell’immaginazione, in una concezione più ampia il referente (così come i suoi correlati artistici) non viene considerato esterno al segno ma è visto come processo di referenzializzazione di forme di adesione culturale ai propri segni. Secondo questa seconda ipotesi, il “visivo” è anch’esso, al pari di altri tipi di “testi”, effetto dell’organizzazione antropologica dei segni e dipende da forme culturali a cui implicitamente i parlanti aderiscono.
Queste convenzioni culturali – secondo questa ipotesi nella quale io mi riconosco – possono prescindere dal tipo di materia utilizzata: così, per esempio, un quadro non è semplicemente basato su un codice che fa riferimento alla pittura ma rimanda alla strutturazione di dispositivi culturali più generali. È possibile, allora, ritrovare le figure del mondo anche in testi letterari poiché esse non appartengono esclusivamente all’ordine del visivo ma sono un fenomeno culturale di più ampia portata: l’iconicità, in sostanza, è un effetto di senso che ogni epoca definisce, di volta in volta, secondo i modelli di appartenenza collettiva attraverso la pertinentizzazione di alcuni – o altri – tratti figurali del “mondo naturale”. E lo stesso si può dire per quanto riguarda l’immaginazione.
Quindi, il sistema di relazioni di un quadro (che rientrerebbe per alcuni nell’ordine del visivo) e quello di una poesia (appartenente per altri all’ordine del letterario) possono risultare simili – se non altro comparabili – se si prescinde dal vincolo della specifica realizzazione occorrenziale e sostanziale. In definitiva, la distinzione tra il livello più profondo delle strutture e quello più superficiale del testo ci consente di parlare di dimensioni intersemiotiche del significato culturalmente configurate. Il tipo di specificità dell’ordine del visivo non è, in ultima analisi, ristretto al canale sensoriale (almeno non unicamente) ma riguarda – dovrebbe riguardare – i dispositivi figurali e figurativi globali (quindi anche quelli messi in atto dai testi letterari, gestuali, sonori, ecc.).
In questo senso, le ricerche di Greimas sui “testi” e quelle di Lotman sulle tipologie culturali, al di là della differente terminologia, potrebbero convergere. E ancora, i giochi ottici esplicitati da E. Landowski (La Société réfléchie, Seuil, Paris, 1989) e gli effetti patemici riscontrati da P. Fabbri (“La passione dei valori” in Carte semiotiche, 8, 1991) potrebbero essere considerati dei dispositivi che travalicano la messa in scena dei singoli testi e delle specifiche appartenenze disciplinari.
Si superano, in questo modo, anche le difficoltà di inserimento dell’architettura – organizzazione tridimensionale degli spazi – in una sola dimensione visiva e si comprendono meglio, a proposito di spazi e di architettura, i riferimenti costanti di alcuni studiosi alla scrittura e non solo al visivo. Dice Barthes (“Semiologia e urbanesimo” in L’Architecture d’aujourd’hui, n. 53, 1970: 57): «la città è una scrittura, chiunque si sposti nella città [...] è una sorta di lettore che, a seconda delle proprie obbligazioni e dei propri spostamenti, preleva alcuni frammenti dell’enunciato per attualizzarli in segreto». E ancora (Barthes 1970: 58): «Dominando tutte queste letture di diverse categorie di lettori (poiché abbiamo una gamma completa di lettori, dal sedentario allo straniero) viene così elaborata la lingua della città».
De Certeau si inserisce in questa linea di pensiero quando scrive: «L’acte de marcher est au système urbain ce que l’énonciation (le speech act) est à la langue ou aux énoncés proférés» (L’invention du quotidien, vol. 1, Gallimard, Paris, 1990: 148). E definisce questo rapporto attraverso una tripla funzione enunciativa:
«un procès d’appropriation du système topographique par le piéton (de même que le locuteur s’approprie et assume la langue); c’est une réalisation spatiale du lieu (de même que l’acte de parole est une réalisation sonore de la langue); enfin, il implique des relations entre des positions différenciées, c’est-à-dire des contrats pragmatiques sous la forme de mouvements (de même que l’énonciation verbale est «allocution» [...] met en jeu des contrats entre des colocuteurs)» (ivi: 148).
Vorrei, però, ritornare a Lotman per spiegare, facendo ricorso a un esempio, l’idea di una più ampia semiotica della cultura che si prende carico del visivo come dispositivo di strati di senso (attanziale, figurale, figurativo). Secondo Lotman, infatti, ogni epoca ha dei dispositivi culturali di auto-rappresentazione che è possibile ritrovare sia in arte che nelle serie parallele: «Il Romanticismo rientra nei metodi artistici che concentrano l’attenzione non tanto sul messaggio, quanto sulla lingua del messaggio, e in particolare su quella dello spazio. Da condizione per rappresentare oggetti concreti lo spazio diviene esso stesso oggetto di rappresentazione» (Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1975: 18). Attraverso l’analisi de L’infinito di Leopardi, Lotman mette a nudo il dispositivo spaziale specifico del Romanticismo: lo spazio interno (il colle), la frontiera (la siepe), lo spazio esterno (l’infinito). Il colle, la siepe, l’infinito – di cui parla Leopardi nella poesia – sono elementi della descrizione sostituibili con altri lessemi la cui funzione, malgrado la differenza in sé, rimane invariata nella strutturazione spaziale messa in scena dal testo: la frontiera, ad esempio, può essere figurativizzata anche da un fiume (nella poesia “Traghetto” di Luzi) o dall’acqua (in alcuni versi di José Moreno Villa).
In altri termini, l’equivalenza paradigmatica è istituita grazie alla selezione di alcuni tratti figurali del piano del contenuto del tipo alto/basso, prossimità/distanza, separazione/fusione, ecc. Si delinea, allora, una teoria dei generi dei testi visivi al pari di quelli letterari: ogni epoca dispone infatti di depositi propri di selezione semantica e di combinazione sintattica. Lo spazio è “visto”, ne L’infinito di Leopardi, secondo categorie figurali (e attanziali) equivalenti a quelle di un quadro, malgrado l’evidente differenza di materia utilizzata.
Un esempio di equivalenza di alcuni tratti può essere fornito dal quadro Femme sur la plage de Rügen di Caspar David Friedrich in cui una donna in spiaggia, seduta di spalle, rivolge lo sguardo verso la linea dell’orizzonte, oltre la distesa del mare. Ma tra lo sguardo della donna e l’immensità del mare si interpongono delle barche, la cui funzione, comparabile alla siepe di Leopardi, è quella di nascondere l’infinito alla vista. Tra la poesia di Leopardi e il quadro di Friedrich esiste una corrispondenza figurativa (lo spettatore-poeta/la donna, la siepe/le barche, l’infinito terrestre/l’immensa distesa del mare, la collina/la roccia) e un comune dispositivo attanziale e patemico (la “dolce” fusione dell’io del poeta, o della donna, con lo spazio circostante è possibile solo perché la siepe, o le barche, in quanto anti-attanti impediscono allo sguardo la vista dell’infinito). È quindi evidente che non solo i tratti figurali (ad esempio, alto/basso) ma anche quelli attanziali e patemici sono il risultato di dispositivi culturali più ampi di quelli di appartenenza testuali: la siepe o le barche, ad esempio, al di là del significato intrinseco, assumono la stessa funzione attanziale in manifestazioni diverse (un quadro e una poesia).
In conclusione, una foto, un quadro, un’architettura, un tipo di scrittura e una vignetta umoristica possono essere presi in considerazione da un «punto di vista intersemiotico e interculturale» (cfr. Floch, Petites mythologies de l’œil et de l’esprit, Hadès-Benjamins, Paris-Amsterdam, 1985). Si tratta, cioè, di sostanze diverse, sia del piano dell’espressione che di quello del contenuto, ma, di volta in volta, queste differenti sostanze rinviano a forme soggiacenti organizzate in base allo stesso principio: ogni elemento presente nel testo, quindi, non è casuale, ma assume dei rapporti di relazione e di opposizione con tutti gli altri elementi del testo stesso.
La semio-antropologia come teoria generale dei testi può quindi pensare i testi visivi, per differenze rispetto ad altri testi, in termini di metalinguaggio della realtà oggettuale: deve quindi procedere all’elaborazione di una gerarchia di desostanzializzazioni dei referenti materiali e, inversamente, di adeguamento referenziale dei tratti esplicitati; deve, di conseguenza, tenere conto di tutti i livelli di generatività del piano del contenuto e di organizzazione del piano dell’espressione. Se ho parlato di figuralità, figuratività, attanzialità, ecc. (il riferimento va a Greimas) ed inoltre di dispositivi culturali (il riferimento va a Lotman) secondo principi di selezione e di combinazione (il riferimento va a Jakobson) è perché penso che una semiotica intertestuale, con la ricchezza di strumentazione odierna, possa essere un metodo di esplorazione delle tipologie culturali.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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