Stampa Articolo

EDITORIALE

Chernobyl, trent'anni dopo (ph. Pierpaolo Mittica)

Chernobyl, trent’anni dopo (ph. Pierpaolo Mittica)

Per una amara e grottesca astuzia della storia, nella cronaca di questi giorni sono caduti due anniversari che ricordano due tragedie collettive, apparentemente lontane, distinte, indipendenti. Due anni fa le armate russe attaccavano l’Ucraina, scatenando una guerra sanguinosissima e lacerante nel cuore dell’Europa. Un anno fa a Cutro in Calabria cento e più migranti – in gran parte pakistani e afgani e tanti bambini – sono naufragati a pochi metri dalla spiaggia di una Europa inutilmente invocata. Due avvenimenti separati e tuttavia – a guardar bene – interdipendenti e connessi nella trama geopolitica di una globalizzazione che certifica la debolezza e la crisi del Vecchio continente, fragile identità di un’istituzione stretta tra sovranismi e veti reciproci, tra militarizzazione e repressione.

Più guerre su frontiere diverse – non ultima quella contro i profughi – s’incrociano nel tumulto della “tempesta perfetta” di cui scrive in questo numero Vincenzo Guarrasi, il rovinoso sommarsi di più catastrofiche emergenze «tali da stravolgere non solo i ritmi della vita quotidiana ma anche i parametri che governano il senso comune. Non ci sentiamo solo sballottati, ma anche disorientati e travolti dal turbinare degli eventi. E tutto questo – l’antropologo aggiunge – è contro l’umanità. Ma è al tempo stesso ad opera dell’umanità». Abitare con cura la terra e stare in pace con gli altri nel mondo sono diventate imprese sempre più faticose e difficili nell’irresistibile ascesa delle autocrazie e nel crescente affanno delle democrazie.

Fili sottili e quasi invisibili tengono insieme l’ordito di fatti diversi, di luoghi lontani. I conflitti armati che fabbricano profughi e devastano gli habitat naturali unitamente all’impatto delle profonde mutazioni climatiche non sono forse all’origine delle grandi migrazioni contemporanee? Non c’è poi una evidente e conclamata relazione tra la dissennata gestione securitaria dei confini e il sistematico ripetersi – ormai nella pubblica indifferenza – delle morti senza nome nel Mediterraneo? E ancora non c’è perfino una qualche involontaria simmetria tra la vicenda del sequestro di Stato del corpo di Navalny assassinato, occultato e a lungo negato alla madre e le vicissitudini dei sopravvissuti della strage di Cutro che attendono di conoscere le identità delle salme sepolte con un numero sulla bara?

I corpi delle vittime sembrano essere diventati ostaggi delle necropolitiche del nostro tempo. Simboli di rimozione o di criminalizzazione e perciò stesso performativi, potenti atti civili di accusa. Ce lo ricorda drammaticamente l’appello lanciato da Ousmane Sylla, il giovane guineano che prima di impiccarsi nel CPR di Ponte Galeria ha scritto sul muro della sua cella: «Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta». Un testamento che è anche la voce estrema di una denuncia dello stato di privazione delle libertà personali dei migranti, trattenuti in ingiustificata detenzione e soggetti a violenze fisiche e psicologiche fino ad essere spinti ad gesti di autolesionismo. Ragiona su pratiche e strategie di repressione adottate nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, luoghi appaltati a privati e fuori dal controllo pubblico, Silvia Di Meo: «la morte senza riconoscimento, la riduzione a numeri, la cancellazione della storia personale, l’impedimento del lutto e la rimozione della memoria familiare e collettiva, l’esercizio della violenza come principio di governo e di gestione delle migrazioni».

Può accadere così che sotto le macerie di un recente crollo in un cantiere a Firenze si siano trovati i corpi di lavoratori stranieri di cui non si conoscevano nemmeno i nomi perché assunti e pagati in nero nel perverso ginepraio degli appalti e dei subappalti che assicura profitti sullo sfruttamento dei nuovi schiavi. Corpi di utili intrusi. Clandestini da disprezzare e ghettizzare nella società, da ricercare e mimetizzare nel mercato delle campagne e delle fabbriche. La verità è che il corpo – luogo per definizione della biologia umana – è al centro delle cronache più inquietanti, un feroce campo di battaglia. Si pensi ai femminicidi, alle donne stuprate, ai malati in stato vegetativo con il corpo sequestrato e costretto alle mere funzioni fisiche artificiali. Si pensi al corpo a corpo degli studenti manganellati dalla polizia a notificare il “fallimento” dell’autorità che non sa essere autorevole (come ha significativamente sottolineato il Capo dello Stato Mattarella). Ci si interroghi infine sulle frontiere tecnologiche che si spostano sempre più rapidamente verso forme imprevedibili di ibridazione tra il corpo e la macchina, tra l’umano e il postumano. Sul destino della specie apparentemente liberata da caso e necessità e sulle prospettive aperte dall’intelligenza artificiale che rischierebbe di soverchiare o prendere il posto di quella naturale Dialoghi Mediterranei anche in questo numero come nei precedenti dedica particolare attenzione. «La fusione tra neuroscienze e ingegneria informatica è l’orizzonte nel quale si inscrive oggi una parte sostanziale della questione antropologica» osserva Alberto Giovanni Biuso che, tracciando i confini filosofici e politici tra transumanesimo e postumanismo, ammonisce sull’onnipotenza degli algoritmi oggi evoluti in «veri e propri organismi multicellulari» e sul pericoloso slittamento dall’antropocentrismo al tecnocentrismo. “Intelligenza artificiale tra Prometeo, Pandora e Socrate” è il titolo dell’intervento di Tomas Cipriani, attento alle serie e complesse implicazioni etiche connesse all’avvento della cosiddetta “quarta rivoluzione”, dopo quella copernicana, darwiniana e freudiana. 

Di migliaia di corpi rapiti, mutilati, trucidati, bruciati, insepolti o gettati nelle fosse comuni sono disseminate le immagini delle guerre che scorrono nei luminosi monitor delle nostre giornate. Proprio mentre stiamo scrivendo giungono da Gaza foto e video sconvolgenti di un’ennesima strage tra la folla affamata e accalcata per la farina: più di cento morti tra i civili bersaglio dell’esercito israeliano che pare abbia sparato per disperderli. Ai margini delle narrazioni dominanti e dei discorsi militarizzati, il dibattito che continua nelle pagine di Dialoghi Mediterranei sul conflitto in Palestina presenta inediti contributi di riflessione laicamente critica, esiti di ricerche sul campo, sguardi diversi e trasversali che propongono letture storiche, politiche, antropologiche. Così Lorenzo Kamel con ampio quadro di riferimenti fa chiarezza intorno a teorie e tesi che tendono a delegittimare la continuità della presenza sul territorio degli arabo-palestinesi, accertata ancor prima del VII secolo, e a negare perfino la loro identità plasmata da genti con origini etniche varie, «un’identità che, nel suo processo di definizione, è stata in parte “immaginata” e “costruita” come ogni altra identità della storia». Un approccio antropologico caratterizza la gran parte dei contributi. Laura Ferrero e Paola Sacchi incrociano la lettura di due libri: Hamas di Paola Caridi e Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo di Somdeep Sen, da cui si ricava il giudizio critico che assimila l’impresa militare d’Israele a quella a tutti gli effetti di uno Stato coloniale e, di conseguenza, l’azione di Hamas a quella di un movimento anticoloniale. Del radicamento e dell’influenza di quest’ultimo le autrici propongono un excursus che riconsidera aspetti significativi e poco noti e, in conclusione, si pongono la domanda se sia politicamente vantaggiosa la strategia adottata stante l’altissimo prezzo che sta pagando la popolazione di Gaza.  Chiara Pilotto, dal canto suo, che ha svolto la sua ricerca di dottorato nella Cisgiordania occupata fra il 2011 e il 2014, ha studiato la società degli israeliani e descrive «la loro nazional-democrazia» fondata su «uno stato di guerra protratta che sfuma i confini fra “civile” e “militare”», nel contesto culturale di una supremazia etnico-religiosa dell’ebraicità.

«Il mondo contemporaneo è saturo di militarizzazione», afferma Linda Armano nella sua originale e interessante riflessione su una ricerca che mette in dialogo un lavoro artistico e un’analisi antropologica sul conflitto. La studiosa dà conto di un’indagine compiuta dall’artista Beatrice Catanzaro che nel catalogare i volumi conservati presso la Biblioteca di Nablus in Cisgiordania si è imbattuta nella “sezione dei libri dei prigionieri” ovvero dei testi sui quali i palestinesi detenuti dal governo di occupazione israeliana avevano tracciato disegni, immagini e appunti relativamente a fatti quotidiani ed eventi politici. Da qui la rilevanza culturale di questa creativa esperienza maturata in prigione – «una vera e propria pedagogia carceraria informale» – cha ha trasformato i libri in codici segreti di comunicazione e veicoli materiali e simbolici di relazione. Alla storiografia ricorre invece Umberto Melotti. Il sociologo, per evitare semplificazioni e approssimazioni, ricostruisce con rigore le diverse sequenze della guerra arabo-israeliana, per concludere che, nel complicato intreccio delle reciproche responsabilità, al di là delle retoriche e delle propagande, non va dimenticato il valore del patrimonio dei Kibbutzim, modelli straordinari di socialismo comunitario, che gli ebrei si sono inventati coniugando impegno sociale e civile, lavoro manuale e capitale intellettuale.

Con approcci e accenti diversi, guardano alle sofferenze umane della guerra non meno che ai suoi risvolti economici, sia Salvatore Palidda che Leo Di Simone. Il primo evidenzia soprattutto il ruolo fondamentale delle lobby militari che traggono profitto dalla vendita delle armi. Il secondo attraverso una illuminante e puntuale esegesi biblica richiama il valore sacro della Terra Santa che oggi «non suona più elezione ma distruzione e abominio»: una lunga e controversa vicenda a fronte della quale «le tesi partigiane degli uni e degli altri, per gli uni o per gli altri, si aggrovigliano in una matassa indistricabile di filo spinato». Pietro Vereni, infine, si rivolge ai colleghi antropologi, si appella provocatoriamente agli iuxta propria principia dell’antropologia, si chiede se le identità in campo (ebrei, palestinesi, sionisti, arabi, musulmani) non rischino di essere assolutizzate, reificate, banalizzate nei discorsi che riducono tutto a oppressori e oppressi, a colonialismo e capitalismo, per esaltare comunque la Vittima che a priori merita il nostro sostegno, fino al punto che «rimaniamo accecati dalla nostra sete di giustizia, che non coincide affatto con la sete di verità».

Che in tempi di estrema polarizzazione ideologica l’antropologia è chiamata a non omologare e confondere le prese di posizioni politiche e morali con le analisi scientifiche è questione epistemologica che le argomentazioni di Vereni – condivisibili o meno – pongono auspicabilmente all’attenzione di un dibattito leale e onesto a cui Dialoghi Mediterranei non si sottrarrà. Restiamo convinti che nella sfida alle crisi globali che stiamo attraversando, dalle catastrofi ambientali e sanitarie alle guerre sui vari fronti, dalle grandi mobilità dei popoli ai crescenti squilibri economici e sociali, l’apporto antropologico è quanto mai prezioso patrimonio teorico e metodologico per la comprensione del presente e l’immaginazione del futuro. Da qui anche in questo numero i temi privilegiati prevalentemente antropologici, letture, notazioni, saggi e ricerche sperimentali.

Nello spazio dedicato alla Sardegna abbiamo promosso una riflessione collettiva sull’esperienza degli insediamenti industriali negli anni settanta a Ottana. A distanza di cinquant’anni il bilancio fallimentare ha lasciato rovine economiche e enormi danni ecologici. «Il gioco a somma negativa dell’industrializzazione in Sardegna, che mostra oggi i gusci vuoti delle sue cattedrali, espressione e simbolo del suo fallimento, ha compromesso l’ambiente, non ha creato posti di lavoro a lungo termine, non ha incluso le donne nei processi produttivi, ha generato gravi problemi di salute tra i suoi abitanti». Il definitivo giudizio critico di Romina Deriu è complessivamente condiviso da tutti gli altri studiosi. Nicolò Atzori e Giovanni Columbu mettono l’accento sui costi della transizione alla cosiddetta modernità, sulla crisi irreversibile della cultura contadina tradizionale prodotta da quell’industria che aveva strappato alla terra migliaia di lavoratori e favorito «la forte disposizione ad accogliere e sperimentare l’evasione da sé stessi e da quel che era stato fino a quel momento il proprio mondo». Del grande fermento politico di quegli anni, dell’«ottimismo imperante che si fondava sul principio del lavoro finalmente ottenuto per la vita, a tempo indeterminato», del sogno tradito e del modello di sviluppo e delle scelte fatte a Roma e importate nell’Isola, scrivono infine Aldo Aledda e Gianpaolo Marras nella comune condanna di una politica ancora oggi esercitata nelle forme di un rapporto sostanzialmente coloniale tra centro e periferia.

Nelle pagine sulla Tunisia ritroviamo non solo le storie di siciliani emigrati lo scorso secolo (Bivona, Pendola) ma anche il racconto delle cronache culturali: dalla riapertura del rinnovato Museo del Bardo (Candiani) alle originali attività artistiche e artigianali tra le generazioni contemporanee (Nicolai), alle più recenti prove letterarie di due giovani scrittori, Yamen Manai e Mohamed Maalel, che, come spiega Giovanni Cordova, «rivolgono uno sguardo molto critico se non impietoso verso un Paese al quale sono legati pur non vivendoci più stabilmente». In questo numero si conferma anche l’attenzione per il cinema e intorno all’ultimo film di Wim Wenders “Perfect Days” si sono raccolte le osservazioni e le annotazioni di diversi studiosi. La lettura dei loro commenti, proiezioni di sguardi e posture differenti, ricompone in un quadro unitario le molteplici sollecitazioni e suggestioni che il grande regista è riuscito a suscitare attraverso il racconto poetico ed esemplare di una vita, quasi un apologo che ha la grazia di un bonsai, il fascino di un piccolo poema zen.   

«Il mondo è complicato e il futuro è difficile» scrive Pietro Clemente nel suo generoso e incessante ragionare su paesi e aree interne, sul loro destino, sulle incerte prospettive di ripopolamento. Dai numerosi contributi de “Il Centro in periferia” l’antropologo trae occasione per “pensare e ripensare” alle annose questioni progettuali del Riabitare l’Italia, ai problemi dei rapporti tra economia globale e interessi locali, alle criticità delle alleanze da costruire per «fare incontrare e mediare ecologia, mondi animali e allevamento, zone protette e agricoltura». Le recenti agitazioni del nuovo movimento contadino, eterogeneo nella sua composizione e corporativo e, per certi aspetti, eversivo in alcune sue leadership, rimettono tuttavia al centro del dibattito pubblico il tema dei conflitti sociali, delle spinte e delle resistenze al cambiamento. Sono in gioco – osserva Clemente – «i complessi confini tra agricoltura e paesaggio, tra mondo degli animali liberi e mondo degli allevatori, tra biodiversità e normalizzazione di suoli, cibi, stili di allevamento e di vita quotidiana. Lo scenario che abbiamo davanti è composto da molti frammenti di mondi precedenti e di mondi nuovi». 

Può forse contribuire alla comprensione delle attuali proteste degli agricoltori – guardati «come avidi sfruttatori di contributi comunitari, oppure depredate vittime della grande distribuzione organizzata, o anche come le ennesime pedine di una non ben identificata lobby» – la ricostruzione storiografica che Sergio Ciappina propone sui travagliati e sfortunati tentativi di organizzarsi politicamente, agli inizi del ventesimo secolo, di coloro che erano piccoli proprietari terrieri e tali rimasero senza riuscire ad affrancarsi dalla dipendenza della potente classe d’imprenditori. Storie di sconfitte o di mancato riscatto che Dialoghi Mediterranei mette insieme ad altre storie di sciamani e di brigatisti, di antifascisti siciliani e di emigrati – esuli o coloni – in Libia, di poeti e di artisti, di profeti e di telepredicatori. E storie sono in fondo i racconti per immagini dei fotografi, storie di guerra, di feste e di riti pasquali, di bambini e bambine a scuola durante il fascismo, di paesaggi urbani e quotidiani, di donne che danzano la loro liberazione o cantano il loro dolore. Storie di vita, testimonianze, epifanie, memorie. Documenti di pietà e di condanna – come quelli che ci consegna Pierpaolo Mittica – di ciò che rimane della peggiore catastrofe tecnologica dell’era moderna, dell’esplosione nel 1986 del reattore numero quattro della centrale nucleare di Chernobyl: «un ricordo di una delle più grandi ingiustizie mai accadute contro le persone, ma anche una raccolta di storie di umanità e di amore eterno per una terra persa per sempre». 

Nell’affollato sommario di questo numero si segnala l’intervento di Alessandro D’Amato che traccia i lineamenti della biografia intellettuale dell’antropologo siciliano Giuseppe Cocchiara, la cui opera omnia, prodotta in oltre quarant’anni di studi e di ricerche, sarà ristampata in una Edizione nazionale patrocinata dal Ministero della Cultura. Un’importante iniziativa progettuale che giunge a compimento del lungo e devoto lavoro di valorizzazione svolto in tanti anni da Antonino Buttitta che di Cocchiara fu allievo. E a ricordo di Buttitta a sette anni dalla sua scomparsa Dialoghi Mediterranei pubblica il testo di uno scritto poco noto in cui l’antropologo legge le pitture del soffitto ligneo del Palazzo Steri di Palermo e ne identifica le matrici non musulmane proprie del mondo simbolico del Medioevo siciliano: «una cultura con una visione eroica del passato, che si alimentava a un leggendario animato da mostri e animali fantastici, da epici scontri tra cavalieri, da amori tra personaggi letterari antichi e contemporanei: un fantasioso immaginario che sublimava le proprie contraddizioni rivivendo miticamente il proprio passato». Un tema, quello dei miti che convertono «l’immaginario in leggenda, la leggenda in epos, l’epos in storia», caro all’antropologo che ne ha studiato per tutta la vita significati e significanti. 

A tirare infine le fila del dibattito sulle riviste da noi promosso sono in queste pagine Silvia Barberano e Silvia Vignato, due antropologhe dell’Università di Milano-Bicocca, che nel passare in rassegna i temi sollevati nei vari interventi, ribadiscono le preoccupazioni relative agli standard internazionali di conoscibilità e riconoscibilità e sottolineano «l’effetto perverso dello scrivere per abilitarsi» in ossequio a canoni che omologano la classificazione ministeriale delle riviste ai criteri di qualificazione richiesti per partecipare all’Abilitazione Scientifica Nazionale italiana. Un rovinoso cortocircuito che rende interscambiabili gli articoli consumati come veri e propri “prodotti”.  Le studiose mentre rilanciano la necessità di qualche concreta iniziativa a sostegno del lavoro delle redazioni, auspicano una diversificazione della tipologia dei contributi scientifici troppo spesso assimilabili a modelli convenzionali di scrittura, appesantiti da un’ipertrofia di riferimenti teorici e metodologici e privi di quella vivacità intellettuale e di quelle sollecitazioni al dibattito che dovrebbero essere le ragioni fondanti della Terza missione delle Università e compito precipuo delle stesse riviste.

È appena il caso di precisare che Dialoghi Mediterranei, pur nella limitatezza del suo ruolo e delle sue risorse, si riconosce in questa analisi e in questi obiettivi e con i suoi collaboratori si impegna a dare il suo contributo di idee e di proposte, oggi quanto mai necessario in tempi di ferro e di fuoco in cui i diritti costituzionali al dissenso e alla libertà di espressione rischiano di essere minacciati dall’imposizione delle parole d’ordine o conculcati dalla irruzione violenta dei manganelli.

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Editoriali. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>