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Donazione degli organi e comunità migranti. Un caso etnografico

Altare presso la casa-tempio dell'Associazione Sai Baba di Catania

Altare presso la casa-tempio dell’Associazione Sai Baba di Catania

di Alessandro D’Amato 

Tra il gennaio e il giugno 2013 sono stato impegnato in una ricerca etnografica presso alcune comunità immigrate delle province di Catania e Ragusa. L’etnografia faceva parte di un progetto di dal titolo Dono, organi e comunità immigrate. Aspetti sociali, culturali e medico-sanitari del dono del sé nell’altro, finanziato dall’Aido Nazionale e coordinato da Annamaria Fantauzzi, incaricata di Antropologia culturale e medica presso l’Università di Torino. In particolare, nel contesto territoriale della Sicilia sud-orientale, presso cui è stato svolto il campo, ho avuto modo di effettuare delle interviste con alcuni rappresentanti della comunità islamica presenti nelle due province coinvolte, nonché con svariati esponenti delle comunità mauriziana e senegalese di Catania.

Il progetto era principalmente volto ad approfondire le informazioni di base possedute dai migranti in merito al tema della donazione degli organi, nonché documentare in quali modalità l’etica religiosa fosse, in modo sia diretto che indiretto, connessa al suddetto fenomeno. Con la sua natura profondamente complessa, del resto, il processo della donazione degli organi coinvolge istanze di carattere etico e medico oltre a questioni spiccatamente antropologiche. Infatti, esso risulta ipoteticamente e potenzialmente intelligibile come «azione moralmente obbligatoria» (Privitera 2004: 101-119), diffusa e conosciuta molto meno di quanto sarebbe auspicabile che fosse, considerando che il trapianto di organi andrebbe interpretato come risoluzione di un problema dell’intero gruppo comunitario che vive attorno al soggetto affetto da malattia e non in modo esclusivo come fenomenologia attinente al singolo. Basti pensare al coinvolgimento emotivo dei familiari (tanto del donatore quanto del ricevente), ai costi sociali sostenuti per tutti i pazienti in attesa di trapianto e a quelli umani delle vite infrante a causa della endemica carenza di organi.

Il progetto di ricerca Dono, organi e comunità immigrate intendeva pertanto indicare una (possibile) via per il progressivo coinvolgimento alla donazione degli organi dei migranti residenti in Italia, attraverso l’indagine di patterns culturali e religiosi delle comunità coinvolte. Un’«antropologia degli altri», dunque, necessaria a disvelare il «senso» di eventuali differenze e alterità (Augé 2000: 18), la cui comprensione potrebbe contribuire alla pianificazione di adeguate strategie di comunicazione, informazione e sensibilizzazione.

In tal senso, così come rilevato da Fabio Dei a proposito di donazione del sangue tra i migranti residenti in Toscana, nemmeno le questioni politiche sono esenti dal coinvolgimento, laddove si consideri quel rischio latente che «la donazione venga proposta agli immigrati in nome di quella stessa cittadinanza che essi si vedono rifiutata dalla società italiana» (Dei 2007: 12). E di conseguenza, che il riconoscimento possa passare attraverso forme di reciprocità che poco hanno a vedere con il concetto di “dono puro”, richiamando al contrario logiche tipiche del libero-scambio. Ci si può chiedere se, nel caso del cittadino immigrato, il gesto oblativo che egli possa compiere vada interpretato come «completamente gratuito […], quando il dono vale [anche] come riscatto e affermazione di un’identità e di un ruolo sociale» (Fantauzzi 2001: 104). A tal riguardo, appare utile verificare il punto di vista di alcuni immigrati di religione musulmana, focalizzando così l’oggetto del presente scritto esclusivamente sugli interlocutori di fede islamica, tralasciando in tal modo – per ragioni di spazio – tutti quegli informatori portatori di un differente credo religioso.

 Incontro con alcuni esponenti della comunità senegalese di Catania

Incontro con alcuni esponenti della comunità senegalese di Catania

M.M., cittadino marocchino residente a Modica, già da qualche anno consigliere Avis della sede cittadina, pone l’accento sulla necessità di far comprendere diffusamente che chi dona (sangue, organi o altro) è dotato di un’umanità al pari del destinatario di tale gesto e che pertanto, in tale ottica, la morte non può configurarsi come evento che incute paura. Il richiamo al concetto di umanità accomuna la sua testimonianza a quella di altri interlocutori di religione musulmana, come, I.S., cittadino mauriziano, il quale, discutendo di donazione di organi, evidenziava la dimensione universalistica dell’Islam, affermando che «per la religione non può esistere difficoltà nel ricevere organi da un cristiano o da una donna. Il dono [di un organo] è una cosa sacra, come un sacrificio, perché è cedere una parte di te». Conseguentemente, una campagna di conoscenza, informazione e sensibilizzazione, necessaria a diffondere la pratica della donazione degli organi non può non passare attraverso il canale conoscitivo dei modelli religiosi coinvolti, anche per scardinare quegli stereotipi troppo spesso diffusi, che dipingono alcune comunità come incompatibili con le società di accoglienza e ostili verso ogni forma di coinvolgimento politico, sociale e culturale.

A tal riguardo, la possibilità di lavorare con la comunità mauriziana, estremamente eterogenea al proprio interno dal punto di vista culturale e religioso, ha consentito di sviluppare una riflessione comparativa tra le prospettive islamica, cristiana e induista. In prima istanza, nella visione islamica, «ogni cosa appartiene a Dio, incluso il corpo che l’uomo ha ricevuto come dono in amministrazione fiduciaria, […]. L’uomo non può fare ciò che vuole col proprio corpo, anzi, ha il compito di rispettarlo e tutelarlo secondo i dettami della Shari’a» (Atighetchi 2009: 38). Questo assunto, ben conosciuto da tutti i fedeli di religione musulmana, è ancora oggi interpretato in modo distorto da una buona fetta di popolazione, che – soprattutto nei Paesi di cultura araba – sembra condividere il pensiero sintetizzato da Z., giovane tunisino residente a Santa Croce Camerina: «corpo è di Allah, noi non possiamo decidere a posto suo». Analogamente, S., senegalese, afferma: «siamo venuti da Dio e a Dio dobbiamo tornare, restituendo corpo come lui ci ha dato», così come confermato da K., marocchina, il cui marito, nel momento in cui venne effettuata l’intervista, era in lista d’attesa per un trapianto di cornea: «secondo molti la religione lo vieta, perché corpo non è nostro».

Altrettanto diffusa è l’idea secondo cui il destinatario di un organo proveniente da donatore musulmano debba essere un cittadino di fede islamica. Quest’ultima tesi è avvalorata dal teologo Yusuf al-Qaradawi, quando afferma che «se un musulmano e un non-musulmano necessitano entrambi di un organo o di una donazione di sangue, bisogna dare la priorità al musulmano nel rispetto del Corano 9,71». In realtà, tuttavia,

«tale approccio contrasta con quello etico medico, espresso, ad esempio, dall’art. 3 (capitolo 2) dell’ultimo Codice Islamico di Etica Medica (Alessandria d’Egitto, 2004) quando afferma che il medico dovrebbe curare tutti i pazienti “senza alcuna discriminazione basata sulla… religione… o il loro sesso, nazionalità o colore”» (Ivi: 42).

A tentare di far chiarezza in questo dedalo di interpretazioni, Keith Abdelhafid, imam della Moschea della Misericordia di Catania, riferiva che il corpo umano è certamente «un dono di Dio», ma nel senso che «dobbiamo prendercene cura, senza danneggiarlo». L’Islam, pertanto, non può essere contrario alla donazione degli organi, dato che

«il credente è sempre a disposizione di donare [come confermato da alcuni versi coranici]: “o voi che credete, elargite di quello che vi abbiamo concesso prima che venga il giorno in cui non ci saranno più commerci, amicizie e intercessioni” (sura 2,54); ma anche “coloro che credono l’indivisibile, assolvono a loro azioni e donano ciò di cui noi li abbiamo provvisti” (sura 2,3) e “non avrete la vera pietà finché non sarete generosi con ciò che più amate: tutto quello che donate Allah lo conosce”» (sura 3,92).

Anche in altri ahadith del Profeta, l’«analogia tra corpo umano e comunità islamica, [può] contribuire a supportare» e sollecitare favorevolmente la donazione e il trapianto di organi: «“I fedeli […] sono come un solo corpo […] se una parte del corpo è colpita da una malattia, tutte le altre parti saranno mobilitate a venire in suo soccorso”; o “I fedeli sono come i mattoni di una stessa casa […] si sorreggono a vicenda”» (Ivi: 55-56). A ulteriore conferma di ciò, numerosi altri criteri e principi etico-giuridici della dottrina islamica possono essere interpretati a supporto della donazione degli organi, sempre secondo l’opinione di Dariush Atighetchi, esperto di bioetica ed etica medica islamica:

«1) Il Corano 5,32: “Chiunque salva la vita di un uomo, sarà come se avesse salvato l’umanità intera”. […].
2) Un hadith del Profeta […] afferma: “Non esiste una malattia che Dio abbia creato se non perché Egli ne ha creato anche la cura”. […].
3) Il principio giuridico che afferma “La necessità fa eccezione alla regola e rende lecito ciò che altrimenti sarebbe vietato” permetterebbe di superare gli ostacoli giuridici che, in determinati casi, si frappongono alla salvezza della vita; […].
4) Il principio del “male minore”, in base al quale un danno (ar. darar akhaff) su un cadavere (violare un morto per prelevargli un organo) è tollerato per prevenire un danno maggiore su un vivente che senza tale organo morirebbe.
5) La cura del malato rientra tra le responsabilità collettive e la donazione degli organi può essere considerata un obbligo sociale (ar. fard kifaya); se qualcuno muore perché non si trova un organo, la società ne è responsabile. Questo criterio si fonda sull’analogia con il comportamento tenuto da Omar, il secondo Califfo (m. 644 d.C.), il quale sentenziava che se un uomo muore di fame perché la società non lo aiuta, quest’ultima deve versare la composizione pecuniaria (diyya) quale pena in quanto responsabile» (Ivi: 138-139).
Intervista con donna senegalese (Catania)

Intervista con donna senegalese a Catania

Un rapido accenno, a questo punto, va riservato al concetto di diyya previsto dalla Legge coranica, a proposito del quale il dott. Aziz Akhshik, neurochirurgo iraniano presso l’Ospedale Garibaldi di Catania, mi confermava che, in area sciita, è ammesso il pagamento di un compenso alla famiglia del donatore, da interpretare come forma di risarcimento per le spese sostenute successivamente alla perdita del proprio caro e non certo in termini di compravendita. Tuttavia, la diyya è soltanto residualmente interpretata in questo senso, dato che, nella maggior parte dei casi, essa costituisce una sorta di “prezzo del sangue”, versato alla famiglia di una vittima da parte del suo feritore ed esplicabile in termini di compensazione per la perdita di un arto o di un organo (Malone 2009).

Praticamente tutti i miei interlocutori, invece, hanno insistito sulla proibizione assoluta del vendere i propri organi, come sostenuto da A., tunisino: «se do organo, lo faccio perché è un dono e quando si dona prima si pensa a Dio, perché da Dio si riceve. Solo poi si pensa alla persona che riceve. Il corpo è di Dio e quindi lo [si] deve rispettare». Analogamente, A.M., Senegal: «quello che la religione musulmana non accetta è vendere gli organi»; O., Senegal: «secondo me vendere non è giusto. Se si può aiutare, si può fare. Però vendere non è giusto»; M.S., Tunisia: «non devi vendere il tuo organo: l’atto deve essere di generosità»; A., Marocco: «chi voleva fare bene dona, anche se c’è possibilità di vendere»; infine, K., Marocco, unica donna tra quelle intervistate ad aver citato dei passi del Libro sacro: «è cambiato anche l’atteggiamento di religione. […]. Ora si promuove le persone a donare. Fare un regalo, anche sorriso, è un’indicazione del Corano per aiutare gli altri, i poveri, chi non ha cose: “Se tu dai un regalo agli altri, attenui la rabbia di Dio”».

A proposito di donazione di organi da vivente, il Codice Islamico di Etica Medica (Kuwait, 1981) prevede che essa sia l’esito di una libera e volontaria scelta, consapevolmente compiuta dal soggetto interessato, senza che per questi vi sia il minimo pericolo di vita o il rischio di subire un danno:

«i giurisperiti sembrano in maggioranza favorevoli alla cessione di un organo doppio se la sopravvivenza del donatore è garantita, il danno non è grave e lo scopo è umanitario» (Ivi: 150).

Non meno complessa la situazione relativa alla donazione da cadavere, laddove si pensi alle resistenze dei familiari nel non conoscere l’identità del destinatario degli organi del proprio congiunto: nessuno escluso, tra i miei interlocutori di religione musulmana ha negato tale aspetto, a testimonianza di una propensione certa alla donazione nel caso in cui il ricevente sia con certezza un familiare. In caso contrario, invece, le resistenze sarebbero sicuramente maggiori:

«nella religione musulmana non c’è molta apertura, non c’è un’apertura diciamo ben chiara […]. Ci sono alcuni aspetti dove si diventa troppo stretta e alcuni aspetti dove c’è la possibilità. Alcuni dicono per salvare una vita di un vicino, di un parente, si può fare. Fare donazione come, […], in alcuni Paesi arabi c’è la possibilità della donazione, in altri Paesi ancora… In Tunisia esiste, la donazione degli organi esiste» (M.B., Tunisia).
Giornata di raccolta fondi per le vittime dell'alluvione dell'isola di Mauritius (01 maggio 2013)

Giornata di raccolta fondi per le vittime dell’alluvione dell’isola di Mauritius (Catania, 1 maggio 2013)

Attraverso gli incontri con gli interlocutori coinvolti, è anche emersa una sorta di diretta correlazione esistente tra la percezione della qualità dei servizi sanitari e assistenziali italiani e l’atteggiamento di favore (o, al contrario, di pregiudizio) nei confronti della donazione degli organi, in quanto pratica strettamente connessa al SSN. D’altronde, come già notato da Sayad, durante i periodi in cui la propria salute è precaria, il migrante è portato a riflettere questa sua condizione come incapacità dell’istituzione medica a risolvere il problema o, allo stesso modo, a scaricare sulla malattia le proprie fragilità e difficoltà, determinate dallo sradicamento identitario dovuto alla condizione migratoria (Sayad 2002: 243-246). Nella maggior parte dei casi, le persone che ho avuto modo di intervistare si sono dette soddisfatte del rapporto instaurato con le istituzioni mediche e ospedaliere italiane, con un picco di gradimento all’interno delle comunità senegalese e mauriziana, tra le quali sono entrato in contatto con soggetti che, in Italia, hanno anche subìto dei delicati interventi chirurgici. Al contrario, presso le comunità marocchina e tunisina, le posizioni critiche sono state più frequenti, ma constatando come esse siano basate più sul “sentito dire” che non sull’esperienza diretta. Ne è una testimonianza quella offerta da M.S., imam della moschea di Modica, che rileva: «oggi si è persa fiducia nella sanità pubblica italiana, perché sono troppi episodi di operazioni andati male. Troppa la malasanità!». Ciò dimostra come gli scandali enfatizzati periodicamente dai media contribuiscano a negativizzare la percezione della sanità pubblica italiana, ben più di quanto al contrario riescano a fare le buone prassi che passano quotidianamente sotto silenzio. Pertanto, in queste circostanze l’attività di informazione e sensibilizzazione alla donazione degli organi appare fortemente penalizzata da un pre-giudizio difficile da scalfire perché sistematicamente alimentato da allarmismi mediatici.

A differenza di quanto appena riportato, all’interno della comunità mauriziana, che comprende le altre due realtà religiose (cattolica e induista) considerate in questa ricerca, non si segnalano elementi di preclusione concettuale quanto, piuttosto, un atteggiamento di evidente apertura a discutere costruttivamente di donazione degli organi. A dimostrazione di quanto appena detto, di fronte alla provocazione relativa alla possibilità di iscriversi all’AIDO, L.R. Milinte, presidente della Federazione delle Associazioni Mauriziane della Provincia di Catania, ha senza indugio deciso di tesserarsi, divenendo egli stesso un esempio per tutti i membri della sua comunità. Una comunità, quella mauriziana, alquanto eterogenea, anche all’interno dello stesso ambito induista, piuttosto complesso e dinamico.

Il denominatore comune che caratterizza gli “induismi” mauriziani (hindu, tamil, telegu, marathi, seguaci di Sai Baba) è il richiamo al calendario festivo tradizionale, trasposto nella nuova realtà immigratoria, e il conseguente mantenimento, sebbene sempre più difficoltoso, dei modelli culturali di riferimento legati ai riti di passaggio che caratterizzano la vita di ogni cittadino (van Gennep 1981; Knott 1991). Non fa eccezione, in tal senso, il rituale funebre della cremazione e i relativi riti che la precedono; pur tuttavia, le oggettive difficoltà nel praticare la cremazione in Sicilia, a causa dell’assenza di forni crematori attivi, con il conseguente aumento dei costi di trasporto della salma fino a Salerno (dove è allocato il più vicino impianto!), fanno propendere molte famiglie per l’alternativa rappresentata dalla sepoltura. In quest’ultimo caso, tuttavia, persiste la necessità di garantire alla salma la purificazione e un adeguato rituale preparatorio. Il timore, dunque, è che la procedura chirurgica di espianto degli organi possa compromettere l’aspetto originario del corpo cosicché quasi tutti i quesiti che mi sono stati rivolti durante le interviste hanno riguardato la questione della ricomposizione post-espianto della salma. Ciò premesso, è chiaro a tutti che nell’induismo la dicotomia tra anima e corpo si risolve, così come nelle altre religioni considerate, a favore dell’aspetto spirituale, facendo apparire l’uomo come una sorta di «animale sacrificatore. Tanto più che è il solo a poter essere sacrificato in modo pienamente significativo. È sacrificante perché sacrificabile e viceversa; soggetto e oggetto, vittima e beneficiario del sacrificio» (Caillé 1998: 162).

Nel corso dei miei incontri, la conflittualità interiore e personale anima vs. corpo ha sempre visto il prevalere di un approccio altruistico, come nel caso di un focus group tenuto insieme ad alcuni fedeli Telegu:

«per me risposta che se qualcuno per esempio bisogna […] dipende da persona se aiutare oppure no. Ci sono tante gente che vuole aiutare che ha un po’ […] ma dice no a questa cosa, perché il corpo deve rimanere come è, non deve mancare nulla […]. Ci sono tanti dicono che corpo finisce dentro la terra, non si deve rinunciare che finisce così. Ma se finisce così, perché non posso aiutare qualcuno che ha bisogno sulla terra? » (A., Mauritius).

Analogamente, durante l’incontro di gruppo con i membri dell’Associazione Om Shree Sai Ram, la cui filosofia è ispirata agli insegnamenti del profeta Sai Baba, il presidente dichiarava:

«bisogna sempre aiutare il prossimo. La morte non può fare paura, […]. Siamo venuti sulla terra per lavare il nostro Karma, […], e quando moriamo, abbiamo la nostra liberazione, […]. Sai cosa ci dice Sai Baba? “Quando una persona è morta, il corpo non è più niente”. È l’anima che è importante. Il corpo è il vestito che tu hai cambiato e noi ci crediamo nell’incarnazione. Se tu devi reincarnare sulla terra, tu hai messo un altro corpo. […]. Allora io dico, se cambio il vestito, è vecchio il mio vestito. Invece di buttarlo nella spazzatura, la do a un povero, a un senzatetto. Dopo che sono morto, il mio corpo, invece di mangiarlo le vermi, perché non facciamo vivere qualcuno! Che ne devo fare con il corpo? Arricchire?» (L. R., Mauritius).
Giornata di raccolta fondi per le vittime dell'alluvione a Mauritius (Catania, 1 maggio 2013)

Giornata di raccolta fondi per le vittime dell’alluvione a Mauritius (Catania, 1 maggio 2013)

Lungi dall’assumere connotazioni esclusi- vamente religiose, la problematica del coinvolgimento delle popolazioni migranti passa dunque attraverso l’esperire campagne di informazione e conoscenza del fenomeno, in particolare per quanto concerne le modalità attraverso le quali la pratica del trapianto d’organi è effettuata. Nella pratica, si tratta di andare progressivamente a incentivare la diffusione di una cultura della donazione degli organi all’interno di contesti culturali in cui il dono  riveste un ruolo di primaria importanza. Ad essere determinante è la consapevolezza e non l’appartenenza, più o meno convinta e partecipata, a un credo religioso:

«Non è questione di religione. È questione di cultura e di conoscenza. Perché se la religione dice che quello è malato e bisogna andare a curarlo, accetti l’operazione, donazione di organi, donazione di sangue, tutto questo. Per me uno che accetta di darti sangue, […], perché uno non accetta di donare un organo, cosa cambia? […] Se i dottori ti fanno capire che se tu non dai un rene può morire, se i dottori non ti fanno capire che tu puoi salvarlo, […], continua a vivere. Io credo che qualsiasi essere umano lo accetta. Basta che uno accetta e vedono i risultati, sicuramente tutti, si crea una catena, passaparola, questo è più di un passaparola. Siamo arrivati al XXI secolo e allora non c’è più niente da nascondere. Tutto devi fare vedere alla gente, tutto devi fare capire alla gente: che la scienza è molto più avanti di quello che pensiamo» (M. S., Senegal).

Alla richiesta di fornirmi delle possibili indicazioni per un’eventuale campagna di informazione e promozione della donazione degli organi, L.R., mauriziano, affermava: «“Il corpo è in prestito. L’anima è eternale, non muore mai. Il corpo è un prestito che prende l’anima per questa nascita”: io questo direi». Anche A.N., mauriziano hindu, offriva un’interpretazione favorevole della donazione degli organi, grazie alla quale chiariamo ulteriormente il senso dell’eternità dell’anima degli “induismi” rappresentati dalla comunità mauriziana di Catania:

«Donazione degli organi può servire, perché anche una parte del corpo rimane, mentre il corpo dopo dieci anni viene messo nelle fosse comuni. Così, in questo modo, qualcosa di tuo rimane anche dopo dieci anni! Anche induismo sta aprendo, perché sta diminuendo cremazione a favore di sepoltura, ma occorre sensibilizzare, dare spiegazione».

Un’efficace campagna di informazione e sensibilizzazione alla tematica, dunque, presuppone il coinvolgimento diretto delle autorità religiose delle comunità prese in considerazione e, conseguentemente, la necessità di tenere conto delle relative specificità religiose, così da garantire un’efficacia esplicativa che vada al di là di eventuali discrepanze di approccio alla questione. Naturalmente, una strategia di questo tipo non può prescindere dal coinvolgimento di operatori del settore, afferenti ad associazioni di volontariato come l’AIDO o organismi riconosciuti a livello istituzionale per il loro ruolo di coordinamento e controllo, quali ad esempio i vari Centri Regionali Trapianti. Allo stesso tempo, non dovrebbe nemmeno essere trascurata la presenza e la partecipazione di professionisti quali antropologi e mediatori linguistici e culturali, in grado di garantire la costituzione di una testa di ponte nei confronti delle comunità migranti coinvolte nell’opera di sensibilizzazione.

Il tutto dovrebbe avvenire tenendo conto tanto dell’eterogeneità linguistica e culturale e della varietà di fedi religiose coinvolte, quanto considerando il presupposto in base al quale nessuna tra le fedi religiose incontrate mostra un atteggiamento di chiusura radicale nei confronti della donazione degli organi, laddove questa sia preceduta da una campagna di conoscenza adeguata ed efficace. In questo gioco di rimandi entrano certamente in scena modelli interpretativi facenti capo a percorsi di mediazione culturale e linguistica il cui obiettivo appare essere il superamento di quel distacco spontaneo tra le parti che è determinato dalle differenze lessicali, spesso risolvibili mediante individuazione di una dimensione semantica adeguata. Tutto ciò, in ultima analisi, purché si faccia ricorso a modelli relazionali in grado di sostenere con forza le ambizioni percorse.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016 
Riferimenti bibliografici
Atighetchi D. (2009), Islam e bioetica, Roma, Armando Editore.
Augé M. (2000), Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Torino, Bollati Boringhieri {ed. or: Le sens des autres. Actualité de l’anthropologie, Paris, Fayard, 1994}.
Caillé A. (1998), Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri {Le tiers paradigme. Anthropologie philosophique du don, Paris, La Découverte, 1998}.
Dei F. (2007), Dono, corpo, cittadinanza. Implicazioni culturali della donazione del sangue presso comunità di immigrati stranieri in Toscana, in F. Dei (a cura di), Il sangue degli altri. Culture della donazione tra gli immigrati stranieri in Italia, Firenze, Avis-Book: 7-26.
Fantauzzi A. (2011), Antropologia della donazione, Brescia, Editrice La Scuola.
Knott K. (1999), Induismo, Torino, Einaudi {ed. orig: Hinduism. A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 1998}.
Malone N. (2009), How Does Blood Money Work? What an arm and a leg will cost you?, March 20th, <http://www.martinfrost.ws/htmlfiles/mar2009/blood-money.html>.
Privitera S. (2004), La donazione degli organi come… azione moralmente obbligatoria, in S. Privitera (a cura di), La donazione di organi. Storia, etica, legge, Roma, Città Nuova: 101-119.
Sayad A. (2002), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina {ed. orig: La double absence, Paris, Éditions du Seuils, 1999}.
van Gennep A. (1981), I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri {ed. orig: Les rites de passage, Paris, Émile Nourry, 1909}.
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è un antropologo freelance. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha recentemente pubblicato il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015)

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Una risposta a Donazione degli organi e comunità migranti. Un caso etnografico

  1. Pierpaolo Leschiutta scrive:

    Ricerca ben articolata ed ottimamente documentata, forse manca l’indicazione delle dimensioni numeriche delle varie comunità. Oggi forse andrebbe estesa alla gravidanza surrogata come dono?

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