di Diletta D’Ascia
Tunisi è una città culturalmente vibrante che pullula di artisti e dei loro talenti, riflesso di una storia, una tradizione, una cultura estremamente ricche. La fase post-rivoluzionaria ha visto una proliferazione artistica che ha avuto come ripercussione una moltiplicazione di produzioni di arti figurative e cinematografiche. Assistiamo oggi a una diversificazione degli stili, dell’estetica, delle tematiche, nuove conquiste che vengono spesso premiate in festival internazionali permettendoci di scoprire meglio un cinema che in Europa era poco conosciuto, sebbene abbia sempre avuto un certo fermento soprattutto grazie ad alcuni registi estremamente interessanti.
Un cinema mediterraneo a noi vicino, anche culturalmente, a cui con sempre maggiore interesse stiamo guardando attualmente. D’altra parte il cinema è anche uno dei mezzi attraverso cui un popolo si racconta e si mostra, ecco dunque l’importanza crescente che si sta dando alla distribuzione del cinema tunisino all’estero, ma anche alla formazione di nuovi registi, attori, sceneggiatori che possano divenire una nuova corrente di artisti capaci di dare vita a una narrazione che sia anche memoria e traccia di una cultura.
Nidhal Chatta è un autore che ha avuto la capacità di coniugare le sue radici tunisine con una visione e un cinema di respiro e stile internazionale, ma a lui va anche il merito di aver colto l’importanza della formazione nel suo Paese così da poter dare vita a una nuova generazione di autori. Nidhal Chatta, regista, produttore, pluripremiato in patria e all’estero, ha studiato ecologia e biologia marina, laureandosi presso la Loughborough University in Inghilterra. È stato Produttore Esecutivo per la BBC, ha firmato cinque lungometraggi, due serie TV e 150 film pubblicitari e clips musicali, in particolare per l’Universal Music France. Da alcuni anni dirige Spirit of Acting, un’accademia di formazione ispirata alla sua esperienza con John Strasberg presso l’Actor Studio a Parigi (The Real Stage) per insegnare come recitare davanti alla macchina da presa.
Ho avuto la fortuna di conoscere Nidhal alcuni anni fa e di collaborare con lui recentemente alla direzione di un corso di sceneggiatura che abbiamo tenuto insieme; la sua professionalità, il suo talento e la padronanza del mestiere lo distinguono, ma ciò che forse più colpisce di questo artista è una profonda cultura, una sensibilità che lo porta ad essere un osservatore attento della natura e dell’animo umano e che lo conducono ad avere una particolare dedizione e attenzione ai suoi attori, così come ai suoi studenti che trovano in lui un mentore, sempre disponibile a farli crescere nel percorso che intraprendono.
La passione e gli incontri fortuiti scandiscono il cinema di Nidhal Chatta, forse il primo incontro forte che ha segnato e ancora segna il suo cinema è quello con il mare, una tematica e un luogo che ritorna nei suoi film, protagonista sin dalla sua prima opera da regista, “L’Horizon englouti” (1984), un cortometraggio completamente sottomarino, girato con l’equipe di Cousteau, che gli è valso diversi premi internazionali. La sua prima esperienza cinematografica ha dunque inizio con un elemento che gli è familiare e che ama: il mare. È la storia di un giovane subacqueo che seguiamo in un viaggio negli abissi, un luogo che non siamo soliti vedere come spazio di un testo filmico. D’altra parte Nidhal Chatta non è uomo da scegliere soggetti o messe in scena semplici, ogni suo film è una sfida a un codice narrativo o una sfida psicologica, emotiva, fisica; basti pensare alle lunghe sequenze sottomarine che ha girato sin da questo suo primo cortometraggio e alle notevoli complicazioni che implica effettuare riprese di questo tipo, prima tra tutte l’impossibilità di comunicare con gli operatori.
Prima di approdare al suo primo lungometraggio, realizza e produce diversi cortometraggi e documentari, tra cui “Déserts vivants”, una serie di documentari realizzati con l’aiuto di esperti scienziati sulla flora e la fauna nel deserto. Tematica centrale lo studio e la scoperta dell’adattamento dell’essere umano, degli animali e delle piante al deserto e alle sue condizioni estreme. Da profani si tende erroneamente a credere che sia questo un luogo silenzioso e in un certo senso vuoto, Nidhal mi racconta invece di quanto il deserto sia pieno di vita, di rumori, un ecosistema così simile in questo all’universo sottomarino, anch’esso pullulante di suoni. L’ammirazione per il deserto nasce in lui da tale somiglianza, dall’amore che ha sempre provato per il mare, due luoghi che scandiscono e tornano costantemente nel suo cinema.
Il passaggio dal documentario a un film di finzione viene d’altra parte segnato dal legame con queste due passioni, due luoghi duri in cui immerge i protagonisti dei suoi film, che non possono essere altro che anti eroi o eroi loro malgrado, così come il personaggio principale del suo primo lungometraggio “No man’s love” (2000); un road movie, in cui ci mostra la fragilità dell’essere umano attraverso il suo protagonista, Lotfi Abdelli, un giovane subacqueo che attraversa il deserto tunisino in un’avventura che è anche una ricerca iniziatica.
Dopo aver girato il lungometraggio “Dernier mirage”, un thriller ambientato completamente nel deserto, lontano da ogni forma di civilizzazione, realizza “Zero”, un documentario di finzione che ruota attorno al numero Zero e all’itinerario di questa cifra attraverso i secoli, ponendo l’accento sul contributo della civiltà arabo-islamica alla matematica. Un viaggio rivelatore tra Oriente e Occidente che ci viene mostrato attraverso la ricerca di un padre e di un figlio che partono alla scoperta di una cifra dietro cui si celano paure e domande sul vuoto, sull’eternità, sull’infinito. L’idea di girare un documentario sullo zero nasce casualmente, da un libro regalato a Nidhal dalla sua sceneggiatrice, seicento pagine di sceneggiatura colme di dettagli ed elementi che lo spingono, inizialmente, a credere che sia un film impossibile da realizzare, con un tema difficile e scomodo da affrontare.
«Il faut avoir du souffle pour faire du cinéma», Nidhal non solo lo afferma ma lo dimostra in ogni suo film; la gestazione di “Zero”, ad esempio, è lunga, dura otto anni, la sceneggiatura è pronta infatti nel 2007, ma sarà terminato solo nel 2013, girato tra Tunisi, Parigi, l’Uzbekistan e l’India, ancora una volta un film frutto anche di un incontro, in questo caso con Nagma Mallick, l’allora Ambasciatrice dell’India in Tunisia, la quale scelse di credere in questo progetto tanto da coprodurlo e da aprirgli le porte del suo Paese. Ma il cinema, sembra dirci Nidhal attraverso le sue opere, è fatto di incontri e così se il suo primo cortometraggio è il frutto dell’incontro con l’equipe di Cousteau, “Zero” lo è con un libro e con una donna straordinaria, mentre “Mustafa Z” (2017), il suo successivo lungometraggio, nasce da un incontro e da una proposta, apparentemente folle e bizzarra, da parte di colui che ne sarà il protagonista, Abdelmonem Chouayet, ovvero girare un film su un uomo che si chiude in macchina e vi resta per l’intera durata del testo filmico.
“Mustafa Z” ripercorre ventiquattr’ore della vita di un tunisino alle prese con l’assurdità del sistema, alla vigilia delle prime elezioni presidenziali libere, un momento dunque cruciale nella storia del Paese. Unità di tempo, di luogo, di azione, ancora una volta una sfida che abbraccia per raccontare la storia di un anti eroe, un uomo qualunque, con una vita mediocre, un rapporto logorato con la moglie e il figlio e che, a causa di una serie di eventi che innescano una reazione a catena, si ritrova a rinchiudersi in macchina, sorta di guscio protettore da cui inizia a riprendere il controllo della sua vita, divenendo un eroe malgrado se stesso.
“Mustafa Z” è anche il frutto di una stretta collaborazione tra Abdelmonem Chouayet e Nidhal Chatta, è il suo infatti un modo di fare cinema che si nutre e prende vita dall’ascolto dei propri collaboratori; Sophia Haouas è la sceneggiatrice di questo film, tuttavia il contributo di Chouayet risulta essere determinante, non solo perché prende parte al progetto anche come dialoghista ma per il lavoro effettuato sin dalla pre-produzione, soprattutto durante le prove con gli attori, poiché è in questa fase che la sceneggiatura e i dialoghi vengono messi alla prova e prendono vita e la loro forma definitiva. Un film è sì sempre il risultato di un lavoro di squadra, tuttavia Nidhal Chatta ha la capacità non solo di dirigere i suoi attori e la sua troupe ma di coinvolgerli sin dal momento in cui il progetto cinematografico ha inizio, riuscendo a tirar fuori e a cogliere da ciascuno quella scintilla creatrice senza la quale il prodotto finale non avrebbe l’equilibrio, la grazia e la forza che invece emergono da ogni battura e da ogni immagine dei suoi film.
Nidhal investe molto tempo ed energia nel lavoro con gli attori. Un buon film che sia coinvolgente, toccante non può essere realizzato senza un buon attore; dunque la loro direzione diviene per lui un momento fondamentale nella fase di preparazione, è per questa ragione che utilizza un approccio simile a quello del teatro, con un periodo di almeno sei settimane di prove. Questo tempo gli consente di instaurare una solida relazione di fiducia con gli attori e gli permette di far sì che la sceneggiatura prenda piano piano vita, che inizi a tradursi in immagini, in una parola, a esistere.
È questa una fase sperimentale, in cui la sceneggiatura, sebbene già scritta, deve essere tradotta in termini di realtà, per lasciare emergere una recitazione sincera e senza artifici; è dunque il momento di «tordre le cou au scénario». È importante infatti sottolineare che una sceneggiatura non è mai completamente finita, non è un testo chiuso, ma uno strumento necessario al regista, agli attori, alla troupe e a tutti i reparti in work in progress, un’opera che evolve attraverso gli attori e che, successivamente, viene modificata durante le riprese e infine al montaggio; di qui l’importanza che Nidhal conferisce alle prove e alla presenza, quando possibile, della sua sceneggiatrice durante l’intero processo creativo e realizzativo.
Le prove sono il momento in cui vengono cimentati gli attori e, allo stesso tempo, la sceneggiatura, i dialoghi; è questo il tempo in cui si lavora sui limiti e sull’oltrepassare tali limiti, spingendosi alle estreme conseguenze, ma in modo del tutto naturale, affinché si compia e scorra davanti ai nostri occhi di spettatori la realtà, o meglio quella nuova realtà cinematografica, a tratti più reale proprio perché così a lungo ricercata e costruita. In questo Nidhal si rivela un maestro ed è probabilmente ciò che lo rende un buon formatore per l’Acting.
Lavorare sui limiti durante questa fase di preparazione vuol dire anche costruire e comprendere fino a dover poter spingere il rapporto tra i personaggi, d’altronde è il momento in cui, attraverso di loro, si struttura il conflitto presente nella storia; il dramma è conflitto ed è alla base di una buona sceneggiatura: senza conflitto infatti non c’è azione, senza azione non ci sono i personaggi, senza personaggi non c’è storia e senza storia non c’è sceneggiatura.
La direzione degli attori è tuttavia solo uno degli elementi necessari alla buona realizzazione di un film. Nidhal Chatta, è bene ricordare, viene dalla fotografia e questa sua formazione non solo lo spinge a lavorare molto sull’immagine, la conoscenza delle ottiche e della loro differenza gli permette ad esempio di scegliere quella più adatta alle esigenze di una specifica inquadratura, ma lo porta anche a una collaborazione, a uno scambio di idee e alla ricerca di soluzioni con il direttore della fotografia.
«Le cadre est le stylo du réalisateur» afferma Nidhal, il quale lavora assiduamente alla composizione delle immagini e sulla profondità di campo, costruendo lo sfondo, il primo piano e tutti quei dettagli necessari a indirizzare lo sguardo dello spettatore e a trasferirgli un’emozione in modo visivo. Così come ogni scena, ogni battuta, ogni elemento della sceneggiatura deve essere necessario a fare avanzare l’azione o a dare informazioni sui personaggi, allo stesso modo ogni elemento di un film, se non serve a comunicare qualcosa, deve necessariamente essere eliminato; non c’è spazio per dettagli inseriti solo ed esclusivamente a fini estetici, anche per quanto riguarda la scenografia, un altro aspetto cui rivolge molta attenzione e attraverso cui vengono rivelati aspetti o stati d’animo dei personaggi.
Questa lunga fase di preparazione gli è necessaria per arrivare al momento delle riprese preparato, padroneggiando ogni dettaglio, con la capacità di rispondere e di far fronte ai possibili imprevisti e pronto a cogliere quell’elemento di improvvisazione, a dare spazio all’intuito quando necessario e alla possibilità che subentrino nuove idee: per far questo, bisogna avere l’abilità e il giusto atteggiamento per accogliere dettagli che non erano stati previsti. Questo porta Nidhal Chatta a lavorare “per estensione”, «à couper très tard», come mi dice diverse volte, dunque a girare scene che non erano state previste in sceneggiatura o durante le prove: sono inquadrature che non vanno a modificare il budget della produzione ma che donano un valore aggiunto al film e che possono essere inserite al montaggio.
Realizzare un’opera cinematografica vuol dire anche avere la capacità di coniugare e di trovare il giusto equilibrio tra la creatività, l’arte, e gli aspetti più meramente pratici ed economici. «Couper très tard» significa anche lasciare che gli attori siano portati dall’ispirazione; riconoscere quando un attore è maggiormente ispirato è un’abilità che un regista deve possedere, riuscire a cogliere quando è in quel particolare stato di grazia tale da consentirgli di dare ancora di più al personaggio che interpreta, di farlo vivere attraverso il suo corpo, la sua voce, le sue emozioni. Ecco dunque che il lungo lavoro di preparazione, la fiducia, la conoscenza e le relazioni stabilite con gli attori conducono Nidhal a cogliere tali momenti, e gli attori a spingersi oltre i propri limiti. Gli interpreti si lasciano trasportare dalla scena, vivono il personaggio, sono il personaggio, dunque per questo non escono da chi interpretano, poiché non smettono mai di essere quel personaggio; non dare subito lo “stop” quando la scena ha termine e continuare a girare porta a dare un quid in più, a far emergere maggiormente le emozioni. Durante la fase di montaggio Nidhal Chatta ha così la possibilità di lavorare su inquadrature estremamente interessanti dal punto di vista degli sguardi e della profondità del personaggio.
La capacità di osservazione di Nidhal è simile allo studio del comportamento umano, legge l’espressione di un corpo che gli parla, arrivando poi ad armonizzare ogni elemento proprio di un film: corpi, emozioni, scenografia, luci, inquadrature. Affronta inoltre in modo meticoloso la scelta della fotografia, dei piani e dei campi prima di iniziare il lavoro con gli attori, ed ecco allora che il momento delle prove torna ad essere decisivo nella costruzione di ogni suo film. Coinvolge infatti sin da questa fase il direttore della fotografia, poiché mentre il personaggio evolve, contemporaneamente, in un lavoro combinato, Nidhal pianifica e organizza la parte tecnica; i personaggi smettono di essere semplicemente scritti per divenire una “matière vivante” che spinge a fare scelte precise riguardo i piani, le inquadrature, la luce. La presenza della sua sceneggiatrice durante le prove e durante le riprese è – come abbiamo detto – un altro valore aggiunto di cui si avvale, poiché la sceneggiatura è un testo aperto, le battute vengono tagliate, ampliate, modificate in funzione degli attori e della loro personalità, i dialoghi si adattano in quello che è un processo in continua evoluzione. Terminate le prove le parole scritte saranno infine nella “bocca degli attori” che avranno compreso e saputo restituire il significato, il tema e le emozioni presenti nella sceneggiatura.
La costruzione dell’inquadratura è per lui un lavoro altrettanto decisivo, quando si inserisce un personaggio al suo interno bisogna effettuare scelte ben precise e ponderate riguardo il suo posizionamento, non c’è spazio per la casualità degli elementi, per il caso, al contrario ogni dettaglio è finalizzato a raccontare qualcosa. L’autore determina il come e il perché delle cose, poiché l’attenzione ai personaggi, alla scenografia, agli arredi, agli elementi tecnici è la vera scrittura di un regista. Nidhal racconta con passione di come la visione che ha del personaggio emerga dal posizionamento dell’attore all’interno dell’inquadratura; porlo al centro implica una scelta precisa poiché lo spettatore è portato a focalizzare la sua attenzione al centro, così, allo stesso modo, se durante la scena lo vedremo a destra, avremo inevitabilmente la sensazione che a sinistra debba accadere qualcosa o che un personaggio debba fare il suo ingresso. Scegliere di spostare l’attore a sinistra donerà la sensazione di trovarsi davanti a un personaggio destabilizzato, rimandando al suo stato interiore e a come, in quel preciso momento della storia, sia portatore di un equilibrio instabile, dunque l’espressione di un disagio che lo spettatore avvertirà inconsciamente.
Questa è l’essenza del cinema, è un’arte che si poggia su diversi elementi, tutti egualmente fondamentali e che, a un certo punto, devono necessariamente convergere; l’abilità di un regista risiede anche nella capacità di avere una comprensione globale e una visione complessiva, è un lavoro collettivo, una materia complessa e completa che si nutre di ogni dettaglio ed elemento.
Un buon regista deve avere l’abilità di prendere decisioni, di effettuare scelte, poiché qualunque sia il livello di preparazione con il quale arriverà, il momento delle riprese resta un’incognita, colmo di imprevisti, dunque la capacità di reagire, di essere aperti all’improvvisazione, mantenendo la struttura originale della storia e il suo significato, sono determinanti. Ritorna più volte su questo punto, sull’importanza del processo decisionale da parte di un autore per poter creare qualcosa dal nulla, ma molto di più per poter gestire l’elemento umano di un set, la troupe e gli attori, dandogli sicurezza e fiducia per non fragilizzarli, poiché la materia con cui lavorano sono le loro emozioni e i loro sentimenti più profondi e inconsci. È questo un aspetto che ho potuto osservare con i suoi studenti, questa capacità di rimanere fermo, di divenire un punto di riferimento, forte, ma senza mai sovrastare. Un’esperienza che paragona all’immersione, poiché non si ha la possibilità di perdere di vista il filo conduttore, l’obiettivo, e che definisce altrettanto violenta e fantastica.
Come un’onda che sbatte, si ritira e ritorna con maggior forza aggrappandosi alla terra, così è il cinema, in un istante tutto può scomparire, allontanandosi definitivamente o ricomparendo anche dopo anni per compiersi una volta per tutte, la forza risiede anche nel sapere aspettare, restando saldi, mantenendo lo stesso entusiasmo, ricordando lo slancio iniziale che ha condotto a scegliere di dare vita proprio a quella storia: in questo risiede il “souffle” di cui tanto spesso parla. Anche “Silentium”, il suo prossimo film in uscita, ha avuto una lunga gestazione, tratto da una storia vera, dal racconto di una donna che lo ha profondamente scioccato e commosso, lo stupro di una giovane subìto a undici anni e poi nuovamente a ventuno. Sceneggiatrice, ancora una volta, Sophia Haoues, la quale in un primo momento aveva rifiutato per poi creare una storia dura, difficile, come spesso è la vita. A fare da sfondo un vecchio edificio coloniale, decadente, in cui vivono e gravitano diversi personaggi, tra gli altri troviamo l’inquilino omosessuale, il tassista che picchia la moglie con indifferenza, la donna di colore che proviene dal sud… un microcosmo sociale che racconta in parte la storia della Tunisia di oggi, uno spaccato della società tunisina in cui ancora una volta emerge un’eroina ordinaria, una donna come tante che la vita porta ad essere un’eroina malgrado se stessa.
Il prossimo film sul quale sta già lavorando, sempre in collaborazione con Sophia Haoues, avrà come protagonista un uomo che affronta diverse avventure attraverso la Tunisia, da nord a sud, tematica centrale sarà la Tunisia, o meglio come sarà tra cinquant’anni; Nidhal mi anticipa che il Paese viene immaginato in modo completamente differente da come lo vediamo e lo viviamo attualmente, tuttavia per conoscere la sua visione non ci resta che attendere che il film faccia il suo corso e che l’onda infine si posi sulle coste della Tunisia.
Le tematiche di un regista restano sempre parte del suo percorso artistico e allora mi piace immaginare che, in questo peregrinare del protagonista, ritroveremo il deserto e il mare, questa sorta di liquido amniotico, come suggerisce l’assonanza tra i termini la mer, il mare, e la mère, la madre, simile al guscio protettore rappresentato dalla macchina in “Mustafa Z”, una protezione e un ritorno alle origini, le origini del suo percorso, ma anche un’attrazione per un elemento forte, duro, a cui doversi adattare per non soccombere, così vicino al cinema per la sua violenza e la sua forza creatrice.
Nidhal Chatta è un autore, nel senso più ampio del termine, ha le capacità e le conoscenze tecniche tali da renderlo un artigiano, e la visione e il cuore di un artista. La fase di preparazione del film in cui investe tempo ed energia è tuttavia anche quella che fa sì che si crei una sinergia, un’intesa, con la troupe e con gli attori, è lì che riesce a creare quella fiducia che gli consentirà di realizzare insieme un film, conferendo forse un quid in più alla sua visione iniziale. D’altra parte la costruzione della fiducia sembra essere alla base delle relazioni di lavoro che istituisce sul set, ma anche nel suo lavoro di formatore. Durante il nostro atelier mi ha domandato se avessi fiducia in lui, d’istinto ho risposto sì, scherzando ho poi aggiunto sfortunatamente! Questa sua capacità spinge coloro che ha intorno non solo a credere in lui, ma molto di più in loro stessi, li conduce a sfidare limiti e titubanze, a lanciarsi nella scrittura o a seguirlo in quello che è un mestiere duro, difficile, a volte persino violento fisicamente e psicologicamente, così come quel mare da cui trae forza e ispirazione, che tutto inghiotte e da cui tutto prende vita. L’arte, d’altra parte, è qualcosa che comprende e supera i cinque sensi, qualcosa a cui solo alcuni possono dare vita e veicolare, è uno stimolo, uno sguardo gettato oltre una porta chiusa che permette di poter guardare al di là e, a volte, di comprendere qualcosa in più su noi stessi e sul mondo. L’incontro con Nidhal Chatta è uno di quei rari momenti in cui siamo pervasi dalla scintilla creatrice dell’arte.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Diletta D’Ascia, docente di sceneggiatura, si è laureata a Roma al D.A.M.S. in Teorie psicoanalitiche del Cinema, ottenendo un riconoscimento di merito al Premio Tesi di Laurea Pier Paolo Pasolini. Dirige e scrive vari cortometraggi e mediometraggi e pubblica articoli e saggi in varie riviste. È fondatore e Presidente dell’Associazione Culturale Gli Utopisti, con cui dal 2010 si occupa di realizzare corsi di formazione di cinema e progetti legati al sociale, in particolar modo contro la violenza sulle donne.
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