Riproduco qui sotto come una targa, o forse come un comunicato radiofonico letto con voce epica, il testo della comunicazione con la quale comunicavo al mondo degli studi la ‘buona novella’ della disponibilità on line del libro-storia di vita di Dina Mugnaini:
«Mi fa molto piacere comunicarvi che è stato pubblicato on line, nel sito della Società Storica Valdelsana, il volume di Valeria Di Piazza e Dina Mugnaini, “Io sò nata a Santa Lucia”, edito nel 1988 e poi esaurito. La pubblicazione on line lo rende disponibile alla comunità scientifica in modo nuovo e più ampio che l’edizione cartacea. È il racconto orale trascritto – con tre saggi di presentazione – di una contadina di san Gimignano, che ha traversato i cambiamenti del Novecento e li racconta nella sua lingua con un alto senso del dramma e della narrazione. Per me questo testo è di grandissima importanza. Nato come tesi di laurea di Valeria Di Piazza, divenne nei primi anni ’80 (uno stralcio si trova già in un mio breve saggio in “Fonti Orali” la mitica rivista torinese) il modello del lavoro italiano nel campo autobiografico o anche delle ‘eterobiofonie’ come si disse allora. Per me fu una storia di formazione intellettuale, un classico caso in cui lo studioso impara dalla contadina. In un certo senso un modo di fare quel che diceva De Martino: “entravo nelle case dei contadini pugliesi come un compagno, cercatore di umane dimenticate istorie”… Dina aveva una forte volontà che la sua storia non restasse chiusa in una dimensione senza prospettive, e la voleva ‘testimoniare al mondo’ .
Perciò la presenza on line – grazie alla iniziativa dell’attuale presidente della Società Storica della Valdelsa, Fabio Dei – nel sito della stessa Società che aveva pubblicato il libro è una nuova occasione per Dina di testimoniare al mondo la sua vita dolorosa e la sua volontà di trasmissione di essa. Ho spesso, anche tanti anni dopo la morte di Dina, mostrato il video in cui lei racconta la morte del suo primo bimbo e un sogno con il suo ritorno fantasmatico e tutte le volte mi sono emozionato; spesso ho detto agli studenti che “Io sò nata a Santa Lucia” è una Divina Commedia della cultura orale delle contadine mezzadre.
Ecco il link per leggerlo on line : http://www.storicavaldelsa.it/pubbli…/io-so-nata-santa-lucia»
Perché quella voce debba essere ‘epica’ non mi è facile dirlo, forse si capirà dal racconto che farò ora, soprattutto a chi è lontano, e non ha seguito le storie del mondo contadino toscano sulle quali una generazione di antropologi si è fatta le ossa a Siena, qui lanciati da Alberto Mario Cirese comune Maestro, in dialogo con storici ed agronomi. Intanto l’epica include il sentimento di possibilità che si apre a un libro che raccoglie una storia di vita raccolta col magnetofono e trascritta, che ha avuto una vita da pochi lettori. L’essere on line, lo toglie potenzialmente dalla nicchia, e lo propone a orizzonti più lunghi. Ma solo potenzialmente.
L’epica è legata per me anche al fatto che intorno a questa storia di vita si dipana o si intrica un nodo della mia storia di studioso. Ho investito molto sulle storie di vita come formidabile strumento conoscitivo in antropologia, e anche come luogo della sorpresa, della manifestazione autonoma dell’alterità. Questa storia, la storia di Dina, è stata per me fondatrice, perché è stata Dina Mugnaini a mostrare che è possibile raccontare ‘pubblicamente’, considerarlo un lavoro per altri, e che farlo è un modo di ‘essere nella storia’, ‘di testimoniare al mondo’.
Sulle parole di Dina Mugnaini ho fatto i miei primi, albeggianti, esperimenti di analisi delle autobiografie registrate. Fu su un’antica rivistina torinese del secolo scorso [1], Fonti orali, prima ancora della introduzione al libro [2]. Erano anni in cui i temi metodologici e anche epistemologici delle storie di vita venivano maturando, ne scrivevo con intensità [3], e un frammento – per me importante – raggiunse la Sicilia [4]. Forse furono gli anni della mia più intensa maturità di ‘demologo’, perché allo stesso tempo affrontavo i temi della scrittura popolare, il ruolo di James Frazer nell’antropologia e nella demologia, la storia degli studi toscani, la metodologia dell’osservazione, e costruivo da quarantenne una idea guida dei miei studi.
Il libro di Dina fu presentato a Poggibonsi, lei presente, da Franco Ferrarotti e Glauco Sanga. Ferrarotti, maestro di studi autobiografici [5] (che pure criticavo come ho sempre fatto con i maestri) diede ampia rilevanza in un suo scritto a questa storia di vita ‘speciale’. Ho usato poi più volte nel tempo la storia di Dina nella didattica, prima a Siena, dove facevamo un laboratorio di trascrizione e di analisi dei suoi testi, poi, molti anni dopo, a Firenze, dove abbiamo analizzato il racconto – fatto davanti a una telecamera – di uno dei nodi dolorosi della sua testimonianza: la giornata della morte del primo figlio e il racconto di un sogno ricorrente in cui lo ritrovava vivo al cimitero e lo riportava a casa. Raccontato in otto diverse versioni con piccole varianti.
Ma sono piuttosto dubbioso, nei tempi medi delle nostre vicende, di essere riuscito a dare valore a quel racconto, di averlo a mia volta ‘testimoniato al mondo’. Mi pare anche che non sono riuscito a ‘contagiare’ gli studi con la mia propensione per l’autobiografia scritta e orale, e che, nel mio stesso lavoro, non sono riuscito a trasformare le esperienze fatte in un solido campo, attestato da studi, saggi, manuali, monografie. In un certo senso ora Dina Mugnaini, messa on line, può parlare ad altri. Cercare di superare la limitatezza di orizzonti in cui io stesso ho finito per circoscriverla.
Ero partito da qui, dalle pagine intense di Ernesto De Martino nelle Note lucane: «essi vogliono entrare nella storia …nel senso che le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente e di affogare senza orizzonte di memoria…essi vogliono che queste giornate siano notificate al mondo, acquistino carattere pubblico …e formino così tradizione e storia» [6]. E ancora, in un altro scritto, «Entravo nelle case dei contadini pugliesi come un compagno, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore» [7]. Quest’ultimo passo l’ho sempre considerato come il mio giuramento di Ippocrate, il senso della mia antropologia con le “parole degli altri” [8]. Come altri, avevo poi seguito tante piste, comuni alla generazione precedente, apprese da Alberto Cirese (Rocco Scotellaro, Gianni Bosio, Danilo Montaldi, Annabella Rossi, Franco Ferrarotti, Clara Gallini, ma anche Oscar Lewis de I figli di Sanchez. Nella mia stessa generazione sono stati fondatori i lavori di Annamaria Rivera e di Claudio Venza. E infine, sul tema delle storie di vita, le ricerche francesi di Maurizio Catani, e gli studi internazionali degli anni 80 [9].
In effetti in Italia la stagione più feconda è stata quella degli ‘outsiders’, dei nostri anni della ‘frontiera’ che sono quelli del secondo dopoguerra. Questi fermenti hanno fatto della ‘storia orale’ italiana, e in questo quadro anche delle storie di vita, un oggetto praticato da un fecondo movimento intellettuale che, alla fine degli anni ’70, ha connesso storici, antropologi, intellettuali locali, circoli e strutture (alcuni Istituti Storici della Resistenza ad es.), sia in un dialogo interdisciplinare che in un coordinamento internazionale, rappresentato dalla Società Internazionale di Storia Orale (Oral History Society). Un movimento che confermava la vocazione ‘postbellica’ delle storie di vita a vivere in un ambiente di cultura plurale legato alla vivacità della società civile piuttosto che al mondo universitario. In quest’ultimo spazio, dopo il lavoro anticipatore di Franco Ferrarotti in campo sociologico, i fermenti vengono ancora da esperienze di confine, fatte negli anni 80, dopo Le lettere da una tarantata di Annabella Rossi (e di Anna di Nardò) con l’Intervista a Maria di Clara Gallini, nata per la Radio, e la Storia di Amelia edita da Annamaria Rivera (Lacaita1984) che anticipano anche la nascita della Rete degli archivi della scrittura popolare, partita dall’Istituto Storico della Resistenza di Rovereto, nella seconda metà degli anni Ottanta.
Negli anni Novanta pensai che gli approcci che venivano da Writing Cultures [10] e dall’antropologia postmoderna statunitense creassero un contesto fecondo per le storie di vita, perché l’aprirsi del dialogo internazionale consentiva che la tradizione italiana dell’autobiografia come area critica e di confine si connettesse con i fermenti critici dell’antropologia postmoderna, accentuando le problematiche epistemologiche che si connettono con la ‘polivocalità’, la moltiplicazione dei ‘portatori’ di antropologia, il gioco tra individui e gruppi, tra regole generali e casi singoli. In quegli anni ho completato e semplificato il mio approccio, come chiarisco in questa specie di ‘manifesto’ [11]:
«Io amo l’antropologia che nasce dalle etnografie ‘singolari’ , dalle storie della vita che l’antropologo ricolloca in contesti culturali specifici, ma con la consapevolezza che le singole storie rifanno continuamente i ‘contesti’, e vi è quindi un’apertura interpretativa larghissima e confini mobili e inquieti, un corredo metodologico straordinario per lavorare sul mondo di oggi. Personalmente transitando piccoli mondi e diverse storie ho capito che l’antropologia culturale, almeno quella che piace a me, non studia le leggi generali delle culture ma il modo in cui, dentro le singole vite, una cultura viene appresa, giocata, interpretata, trasformata. Per me la cultura ormai non è nulla senza gli individui che la vivono e per i quali essa è un corredo senza il quale non potrebbero esistere, ma un corredo che agiscono in modi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi, e in modi che – a partire dal dibattito teorico che oppose ancora negli anni ’40 Ernesto De Martino alla scuola di Durkheim – potremmo chiamare di ‘libertà individuale’. È questa ‘libertà’ che produce in noi che leggiamo o ascoltiamo ‘lo spettacolo meraviglioso’ e spesso imprevisto, di una vita raccontata dall’interno di una cultura, e di una cultura raccontata da dentro una vita».
Ma anche quegli anni si sono conclusi senza che queste storie (più che fonti sono soggetti; paralleli a noi ‘autori’ specialistici, storie che sono quasi film di agency – come si usa dire ora – culturalmente definita) avessero la scena dell’antropologia o anche solo della memorialistica. Il mio lungo osservatorio nella Giuria Nazionale del Premio dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano [12], mi fa capire che pubblicare una storia di vita in Italia è una vera impresa. A Pieve, in un conto sommario, ci saranno circa 6000 inediti. E ciò vale per le storie scritte, le storie orali si portano dietro le difficoltà ulteriori della scrittura di trascrizione. Difficoltà che segnano varie polemiche e tentativi di soluzione della mia vita di ‘fontoralista’.
Le storie di vita non hanno cambiato l’antropologia e non hanno conquistato il mondo della letteratura o della storiografia memorialistica. Sono ancora nascoste. Chi dice, e sono in molti, che ‘c’è troppo memoria’ nella cultura italiana, non sanno davvero quanta ce ne è, e pensano che la memoria sia fatta dai leader o dai presentatori televisivi, quella vera sta nel fondo della società italiana, inascoltata, ancora in gran parte senza voce. E quindi anche Dina Mugnaini, con la sua lunga autobiografia che attraversa il Novecento, non ha avuto il suo ruolo di protagonista nella scena delle ‘grandi’ storie di vita, dei grandi bilanci della storia del quotidiano. Una piccola e tarda pietra miliare in antropologia è stata forse il numero monografico Storie di vita della rivista Antropologia [13] con il numero curato da Zelda Alice Franceschi nel 2012.
Dina Mugnaini
Spesso nel racconto degli studenti che avevano letto la storia di vita di Dina, all’esame questa diventava una specie di romanzo rosa. Giovane sfortunata, vive in una famiglia contadina in cui muore presto la mamma e a lei, la più grande delle figlie, tocca sostituirla a 14 anni. Nei poderi a mezzadria la ‘massaia’ fa tutto, dall’ allevare i fratelli ad aiutare il babbo nel campo, e prendere l’acqua alla fonte col carro. Muore anche il padre, e il fratello va in guerra e poi è renitente e nascosto. Durante la guerra Dina diventa anche contadina a tutto campo per necessità. Si sposa a fine guerra, lasciando la casa paterna, come è regola nella mezzadria toscana, per quella del marito, in una famiglia polinucleare, governata dalla coppia degli anziani, il ‘capoccia’ e la ‘massaia’. Dina entra in conflitto con le cognate e la suocera. La morte del primo figlio scatena il suo rancore verso i maltrattamenti della suocera, e Dina pone al marito l’aut aut classico: o con tua madre o con me, fuori della mezzadria. E Gino, il marito, alla fine decide, trova lavoro in paese e lascia la campagna. Una storia, in un certo senso, di ribellione femminile. In questo senso non mi spiace che per i giovani possa rappresentare una specie di romanzo femminile. Ma intorno a questo tema centrale Dina racconta il mondo intorno, parenti, amici, vicini, e padroni, spiega le regole interne del mondo dei poderi a mezzadria mentre racconta di sé che si addestra ad interpretarle a suo modo. Dal collettivo dei bambini nell’infanzia alla nascita dell’io di una bambina che diventa adulta anzitempo, fino all’io gridato e offeso che lotta contro il potere della generazione anziana per la sua autonomia di donna ferita, il racconto è sempre immerso nel contesto della società toscana, nel contesto di un mondo povero e traversato dalla guerra. Di un mondo che viene traumaticamente abbandonato per affrontare la nuova vita della città e il mondo moderno. Questa trama è la base della storia, una storia legata a una ricerca durata anni, gli anni in cui Valeria Di Piazza scelse di fare una esercitazione in tradizioni popolari intervistando Dina, una donna che aiutava a casa sua. La storia di Dina divenne tesi di laurea, di più di 500 pagine, e in seduta di laurea un collega italianista disse che a lui sembravano i materiali ancora magmatici dai quali gli scrittori fanno emergere i loro romanzi. Per noi quei materiali sono già ‘romanzi’ o meglio, secondo il lessico dell’antropologia americana postmoderna ‘finzioni vere’. La tesi divenne libro di 400 pagine e non 500 perché l’editore chiese a Dina di tagliare delle pagine sulla suocera e famiglia del marito, per evitare denunce.
Divenne un libro che Dina riconobbe come la sua opera della quale Valeria era stata levatrice. Continuò a raccontare quando la interrogammo ancora, mettendosi a disposizione come i libri-persone oggi ‘delle vere e proprie biblioteche umane’ (Human Library). Continuammo ad ascoltare, anche indirettamente, la sua storia dolorosa, centrata tutta sul rapporto col figlio sopravvissuto, fino alla sua morte il 30 ottobre del 2002 (era nata a San Gimignano nel 1924) [14].
Dina racconta in una variante del toscano, legata alla Val d’Elsa, una lingua parlata che domina con grande sicurezza e le consente sfumature, resa di emozioni, racconto pieno, compaiono distinzioni, stili, etiche, regole di vita, negoziazioni delle relazioni e interpretazioni del mondo. Dina racconta i sogni, spesso sogni di sangue e di morte. Ho scritto che Dina racconta “tra dolore e pudore”. Il raccontare è spinto dal dolore, dalla volontà di dare senso alla morte rendendone pubblico il racconto, ma il confine è quello del dicibile per una donna contadina. Un ‘dicibile’ che, secondo il marito, Dina aveva già largamente superato con il suo ‘lavoro’ di narrazione, ma che parte dal sentimento del limite, non segnato dai conflitti familiari che denuncia, ma dalla dicibilità del corpo, del sentimento, della relazione intima. Anche se Dina apre al racconto dei sogni. Nella versione on line, manca l’indicazione nell’indice tematico, dei luoghi del testo dove si trovano i sogni [15]. Il sogno legato alla morte del primo figlio è forse quello che più ha colpito i lettori [16], e anche me. Spesso lo ha raccontato in sequenza con la morte del bambino, la giornata più drammatica della vita di Dina, nel 1954. Nel sogno Dina va al camposanto, e trova il suo bimbo vivo vicino alla tomba in cui è sepolto, e che le chiede di portarlo via. Dina ha paura, non vorrebbe, sente che viola una legge, poi, spinta dall’istinto, quando il becchino è voltato, prende il bimbo e scappa per i campi, tenendolo in braccio, arrivano al podere, e qui trovano il babbo e il bambino li abbraccia entrambi. È un racconto di unione, di incontro, che traversa dettagliatamente lo spazio del mondo contadino toscano, ed è al tempo stesso una sorta di ripetizione del mito di Orfeo e Euridice, in cui l’amore sfida la morte.
«E quande l’ho sognato su questa tomba, razzolava esti sassolini di marmo, lo vedevo con questo cappottino. Era tutto biondo, tutto ricciolo… Io li so’ andata ‘ncontro . Lui, porino, è venuto ‘ncontro a me, e mi s’è abbracciato così alle gambe. Io l’ho preso ‘n collo. So’ stata un poìno costì, e lì baci, e lì baci, …sto bambino mi s’è abbracciato a ‘i collo…» (sic) .
Un testo difficile da leggere senza la competenza del parlato toscano e delle (poche) convenzioni della restituzione in trascrizione [17], ma un testo che è una vera storia di vita sociale, una sorta di storia di iniziazione al mondo moderno da parte dei mezzadri. Rientra – pur essendo eccezionale – nella categoria delle principali forme di memoria familiare con le quali ho potuto produrre etnografie del mondo contadino mezzadrile: le testimonianze delle donne. Gli uomini sono stati raccontatori straordinari della guerra, della resistenza, del passaggio del fronte, delle lotte sociali, ma non delle vicende familiari.
Incorporare storie
Le grandi narratrici autobiografe, delle cui storie si è nutrita la mia vita di studioso, non sono entrate in circolazione nel mio corpo come i gesti o le parole di mia madre e di mio padre, ma anche loro stanno nel mondo dei miei ricordi, delle mie emozioni, delle ferite nella mia sensibilità. Sono parte del mondo degli eventi traumatici, dei racconti di fondazione che ci rendono umani. E per me, come per Enea, chiamato da Didone a ricordare: «infandum regina iubes renovare dolorem», è memoria del dolore che si fa racconto. Come nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, che Primo Levi e Gregory Bateson hanno assunto come emblema del narrare oltre l’orrore, come chiave della memoria dei campi di sterminio, l’uno, e della distruzione moderna della natura, l’altro.
Eccone i versi finali – nella traduzione di Fenoglio – dopo il lungo racconto dell’empietà dei marinai per l’uccisione dell’albatros, della punizione da parte del mondo della natura, e della sopravvivenza del solo ‘vecchio marinaio’, salvato perché possa testimoniare:
Da quel momento A un’ora imprecisa, Quell’agonia mi torna; E fino a che non ho detto la mia storia Di morti, dentro il cuore mi bruciaChi lotta per la memoria lo fa perché sceglie che la propria vita non sia indifferente alla morte . E così non consente che il vuoto sia riempito, la ferita cauterizzata, il colpevole impunito, il sospettato dimenticato, la verità rimossa, come una di quelle tante verità locali indifferenti al mondo del potere. Così vuole che la nuda vita sia testimoniata, che la fratellanza sia possibile, che nella vita ordinaria costruita nella dimenticanza si instauri un principio che va controvento, significa lottare contro l’indifferenza alla guerra, alla morte, alle stragi, ai disastri, al dolore degli altri, ed è il modo concreto di trasformare in antenati tutti i cadaveri del nostro mondo: che restino nelle nostre genealogie di ricordi, nella costruzione del nostro mondo morale, nella nostra diffidenza verso il potere, nella nostra paura per la fragilità della democrazia, nel nostro opporci alla guerra, nella nostra volontà di vita e di pace, speranza di futuro, desiderio di solidarietà.
Mi capita ogni tanto di usare nella vita quotidiana parole di Dina o di altre ‘informatrici’ e ‘informatori’, uomini e donne che hanno regalato racconti, che abbiamo ascoltato. Il loro ricordo abita le mie parole.
Le parole si perdono nel vento?
Ma ho davvero svolto la mia missione di ascoltatore di storie, ho davvero raccontato a mia volta come comanda il vecchio marinaio di Coleridge? Ho fatto entrare nella storia le loro voci? O le ho sepolte dentro di me, dove esse abitano, ma solo come mio mondo morale, mia fonte di insegnamento, mio piacere e accoglimento? Solo raccontare dà senso alla vita, sottrae peso alla colpa. Forse non ho trasmesso abbastanza i racconti che mi sono stati affidati. Il mio corpo abitato dalle memorie vive una esperienza di terra del rimorso [18]. Da un po’ di anni penso che dovrei ripubblicare la biografia di Dina, nella collana Finzioni vere [19]. Il libro di Dina è esaurito senza avere una notorietà adeguata, senza essere riconosciuto come una grande opera di narrativa autobiografica orale in toscano. Non è avarizia tenere dentro di me quelle storie, non raccontarle al mondo? O forse è pigrizia, mancanza di tenacia? O è il mondo che non le vuole sentire? Diceva Saverio Tutino che in Italia non c’è interesse né consumo per le storie di vita, in Inghilterra sì. Qui forse non c’è nessuno che vuole ascoltare le storie della gente comune e delle mie grandi maestre di mezzadria.
La mia vita di studioso nel senese e in Toscana è stata tutta basata sul raccogliere le voci degli altri, fare mie testimonianze di dolore e di lotta. In questa terra, io che venivo dalla Sardegna dei minatori e dei pastori, ho imparato il valore della memoria dei contadini. Ne ho scritto largamente, ma ho ancora un debito di restituzione perché questa memoria, che ho avuto l’opportunità di ascoltare per le caratteristiche del mio mestiere di antropologo ‘ascoltatore di voci’ si è inabissata nella dimenticanza collettiva ed è ancora circondata da una palude di oblio prodotta dai mezzadri stessi, che hanno avuto vergogna e volontà di oblio della condizione da cui accedevano al moderno.
Ma come riattivarle? E forse anche: perché riattivarle, se ai protagonisti stessi non erano gradite come memorie? Occorre ricordare forse che questo è il sale della terra? Non c’è memoria senza frattura, non c’è memoria senza dolore, non c’è futuro senza passato.
Per ognuno di noi che dimentica c’e’ un operaio della Ruhr che cancella lentamente se stesso e le cifre che gli incisero sul braccio i suoi signori e nostriCominciava così Complicità, una poesia di Franco Fortini del 1955, che fa parte del mio corredo di antropologo della o per la memoria. Leggo le storie di vita come ‘monumenti’ che connettono il nostro tempo con quello che sta oltre il muro del ‘great divide’ che con il benessere ci ha separati dalla memoria degli ‘antenati’ [20]. Ma ho fatto poco, i risultati sono davvero di scarsa ampiezza. Negli anni successivi al lavoro su Dina gli studi hanno messo in risalto il valore conoscitivo dell’autobiografia, definito forme adeguate per la trascrizione dell’oralità, e – anche in dialogo con le neuroscienze – messo in evidenza il valore della narrazione e della memoria nei processi di ominazione e di evoluzione. Ci sono le condizioni perché l’autobiografia sia valorizzata a pieno nel sapere umanistico, ma anche nell’antropologia classica per il valore che ha nella comprensione dei contesti in quanto legata all’agire la cultura e non al cercare regole statiche di essa. Ma devo riconoscere che nonostante queste evidenza il metodo autobiografico non ha ancora pieno riconoscimento nei nostri studi. Forse la cosa più significativa degli anni recenti è legata alle tecnologie digitali, alla nascita di archivi on line delle fonti orali come strumento di raccolta e di studio internazionale. In Francia il caso più significativo è l’Archivio sonoro della MMSH (Maison Méditerranéenne de Sciences de l’Homme) di Aix en Provence, in Italia è Grafo dell’Università di Pisa. Queste due iniziative sanciscono un cambiamento in atto nel mondo delle testimonianze e del loro uso pubblico. Ma Dina non avrà fortuna in questo nuovo mondo, rimangono infatti pochissimi nastri della sua lunga narrazione, perché la ricercatrice, Valeria Di Piazza, per ragioni economiche, via via che li trascriveva, li riusava. Così da quando Dina è tornata a farsi leggere sul web, pur nella forma antica della pagina e del libro, spero che altri accolgano la sua storia e si dispongano a trasmetterla verso il futuro.
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] 1984, Per l’edizione critica di testi biografici orali. Appunti, «Fonti orali. Studi e ricerche», IV, 1: 20-25.
[2] 1988, Autobiografia al magnetofono. Una introduzione, in V. Di Piazza, D. Mugnaini, Io so’ nata a Santa Lucia, Castelfiorentino, Società storica valdelsana: 12-45.
[3] 1987, Mezzadri in lotta: tra l’effervescenza della ribellione e i tempi lunghi della storia rurale, in Il mondo a metà. Sondaggi antropologici sulla mezzadria classica, “Annali Istituto Alcide Cervi”, Bologna, Il Mulino, 9: 285-305.
[4] 1986, L’oliva del tempo. Frammenti d’idee sulle fonti orali, sul passato e sul ricordo nella ricerca storica e demologica, «Uomo e cultura» 33/6: 17-34.
[5] F. Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Roma-Bari, 1981b,: F. Ferrarotti, La storia e il quotidiano, Laterza, Roma-Bari,1986; F. Ferrarotti, Il ricordo e la temporalità, Laterza, Roma-Bari, 1987.
[6] In E. De Martino, Furore simbolo valore, Milano, Feltrinelli, 1980 (ed. orig. 1962),
[7] E. De Martino, (1975) Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in R. Brienza, a cura di, Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera, Basilicata editrice: 55.
[8] Una raccolta dei miei testi a cura di tre giovanni allievi è Pietro Clemente, Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pisa, Pacini, 2013.
[9] Bertaux D., (ed) Biography and Society. The Life History Approach in the Social Science, London, Sage, 1981, e Bertaux D., L’approche biographique in “ Cahiers Internationaux de Sociologie”, LXIX, 1980. Importante anche sul piano del metodo di edizione e per la dichiarazione di co-autorialità è Catani M., Mazé S., Tante Su zanne, Paris, Librairie des Meridiens, 1982, in particolare Philippe Lejeune, Le pact autobiographique, Paris, Ed. du Seuil, 1975, tradotto in italiano nel 1986 da Il Mulino, e Je Est un Autre, Paris, Ed.du Seuil, 1980.
[10] G. Marcus, J. Clifford, Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi, 1997 (ed. orig. 1986).
[11] P. Clemente, Gli antropologi e i racconti della vita, in “Pedagogika”, III, 11, 1999.
[12] Dopo la morte di Saverio Tutino, fondatore dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve, si chiama Premio Saverio Tutino, http://archiviodiari.org/ .
[13] Z. A. Franceschi, a cura di, Storie di vita, numero monografico della rivista Antropologia, XI, 14: 307- 324.
[14] F. Mugnaini, Buone feste, Dina. In ricordo di Dina Mugnaini, in “Lares”, 1, 2003. L’articolo di memoria si concludeva così: «Dina potrà dire molto, a chi saprà leggerla e ascoltarla. Non facciamola morire».
[15] Paragrafi da 8.1 a 8.10
[16] 8.1, 8.2: 260- 265
[17] Per incontrare il lettore non si è fatta una trascrizione resa fedele dai segni diacritici, ma una trascrizione legata all’italiano vernacolare, per cui sono più i segni di caduta di vocali nel parlato e termini locali a caratterizzare il testo. La teoria di questa trascrizione è enunciata nella prefazione dal glottologo Luciano Giannelli.
[18] Il gioco di parole è con il libro di De Martino La terra del rimorso, dedicato al tarantismo pugliese
[19] Casa editrice CISU di Roma, la collana è diretta da me, finora sono stati pubblicati, E. Mileo, La luna nel risciaquo, 2004; C. Sanguineti, Le nostre memorie proibite, 2007; Il canto del Nord a cura di P. Clemente, E. Bachiddu, A. Iuso, 2007; E. Benaim, La vita in cinque atti, 2008; T. Mele, Addio Orgosolo. Memorie di una barbaricina , 2011.
[20] P. Clemente, La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta, in L’ospite ingrato, II, 1999; Id. Vite esposte: scritture autobiografiche in libri, archivi, coscienze, in Q. Antonelli, A. Iuso, Vite di carta, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2001; ma vedi anche il sintetico Id., Gli antropologi e i racconti della vita, in “Pedagogika”, 11, 1999 : 22-23
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014)
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La storia di Dina Mugnaini mi ha interessato molto perché, pur essendo fiorentino dalla nascita (1930), i miei nonni materni, erano nel primo novecento, mezzadri nei pressi di Santa Lucia a San Gimignano.
Cordiali saluti.
Virgilio Giorgetti