E noi che pativamo il fascino delle nevi, del nord popolato di ragazze che ci sorridevano, che adescavano le nostre repressioni scure e assolate. Bionde, valchirie, ondulate di vita nelle disperate fantasie di quegli anni perduti e sognanti. Un loro bacio entrava nella cassaforte del cuore, e vi rimaneva eterno, nemmeno lenito dal rossetto. Immune dagli scialli neri, dal nero cupo dei capelli che impediva di distinguere un filo dall’altro. Sì, quella pelle anemica la cui peluria era invisibile per la distanza, nello spazio stradale e meningeo. Le ragazze che sembravano fuggire nelle strade, accompagnate dal fratello piccolo; a frotte di autodifesa nelle passeggiate universali sul lungomare.
Chissà se qualcuna dei sogni ora è ferma alla sua frontiera con in mano il borsellino da riempire della povertà dei migranti. Sì, come dice Matteo, «A chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Gli leveranno il logoro oro di famiglia e perquisiranno le loro tasche alla ricerca dei sempre lucidi trenta denari. E di fronte alle povertà estreme, ci sarà un cerusico che scipperà i denti d’oro? E potranno arrivare alla sanzione veneziana di chiedere una libbra di carne?
Un fantasma di svastica si aggira occhiuto lungo frontiere e frontiere che si credevano estinte, con brutte copie di angherie e soprusi che la Grande Europa studia di infliggere – un’altra volta – agli indifesi, ai poveri di spirito e di soldi, a popoli imprigionati da una nuova diaspora.
La moltitudine accalcata a Calais aspettando il traghetto di Godot, all’inglese è detta “branco di migranti”. Un vicepresidente UE lamenta che ci sono «serie carenze» alle frontiere esterne della Grecia: sì, lezioni di civiltà all’Ellade dagli eredi del Terzo Reich. L’Europa di questo vice vuole che Atene ributti in mare i superstiti ai naufragi, e che si mettano cavalli di frisia a galleggiare nell’Egeo e nel Mediterraneo siciliano. Un vizio antico. Doenitz ordinò che i silurati non fossero soccorsi; commessa rifiutata da Durand de la Penne: c’erano duemila anni di civiltà che gli impedivano di dire sì. E forse ci sono ancora in Grecia e nell’Italia redarguita perché «non vigila bene sugli arrivi a Lampedusa». A questa arroganza neo barbarica Matteo Renzi ha dato una risposta semplice: «Noi salviamo vite umane».
Usa il bastone e la carota Juncker, un signore che ha press’a poco il nome degli Stuka, gli aerei con la sirena terrifica, i “picchiatelli” che furono “nostri fratelli” nella grande sventura dei ’40 dello scorso secolo: gli Junkers che avevano il nome, e forse anche la forma, degli Jung Herr, i giovani signori dell’aristocrazia prussiana e terriera.
Espulsioni di massa, frontiere che si chiudono come trappole per topi, pogrom bianchi dalla Danimarca e bianco sporco in Svezia. Piazza Sergels Torrg, un centinaio di uomini mascherati aggredisce e picchia un gruppo di migranti. Prove di SA, di squadrismo del XXI secolo. Ci vogliono una decina di lanci del TG per convincermi che è vero. Non solo le aquile, cadono pure i barbagianni.
Herbert Friedlander, intellettuale svedese di Stoccolma, guardando il mare dalla piazza Mokarta di Mazara, contrattava con me un appuntamento pomeridiano. E io gli dissi: «Ci vediamo al bar Sardo verso le sette». Credo che lui veramente non abbia capito il senso della preposizione impropria “verso”. La sua mente ebraica e baltica non riusciva a percepire il relativismo assolato. Per lui le sette erano quelle del Conte di Montecristo, non immaginava nemmeno orari come a venti ore, che nel pidgin siciliano diventava un a bbinturi, vago, spesso affidato al passo della mula, orologio carovaniero “verso” una meta che sa attendere, fortemente assonante con abbintura: avventura nel tempo.
Una intransigenza cronometrica che probabilmente scandisce tutte le necessità di perfezione, urgenza, ineluttabilità che trasmutano nella gerarchia, la coscienza accecata, l’autorità infallibile, il Faust europeo che dagli abissi collettivi si manifesta in suoi cicli indifferibili. Nelle mie oramai labili ricordanze c’è una leggenda, un mito del mare mazarese che dalle acque buone fa emergere un Faust piccolo e salmastro. Due fratelli, non ricordo più se Tumbiolo o Asaro, dovevano dividere l’eredità di un peschereccio. Uno diceva «Tu ti pigghi la varca e je motori e armamentu», l’altro oscillando la testa significava il no; «Allura tu ti pigghi motori e armamentu e je la varca», ancora no; «Lu capii, la sirramu e je mi pigghiu la prua e tu la puppa, o puru a la riversa»; il fratello parlò, e disse «pi’ longu». I due spicchi di barca rimasero a lungo ad indicare ai marinai dove porta la rotta dell’odio, e ai fratelli venne appiccicata la ‘nciuria “Sirratu”.
Quando i sentimenti, individuali o collettivi, si estinguono uno dopo l’altro, rimane l’odio. Implacabile e padrone della persona sino a deformarne persino la figura. Seguono la medesima sorte le società avvelenate. Vi si giunge cadendo nell’assolutismo ideologico, un tragitto che parte dalla propalazione dell’ideologia della non ideologia. Una via crucis – ci ha avvertito Robert Jay Lifton – fatta di immiserimento del linguaggio imbottendolo di slogan, frasi fatte, imperativi, ridondanze vuote (detto questo – assolutamente sì – in buona sostanza – essere propositivi) sigle, acronimi, inglesismi incomprensibili dalla maggioranza della popolazione: stepchild adoption (adottare il figliastro), brand per marca, Rai news anziché Rai notizie o Notizie Rai, Zona 11 p. m. (troppo facile pomeriggio), work station (persino questo pur di non dire posto di lavoro); l’antico pseudonimo diventa nickname, e outlet, next opening, show room, street control stampato sulle auto dei vigili urbani, sino al fantastico Quartararo Shoes.
Non accade nelle altre lingue europee. Siamo noi italiani in solitaria vittime di un “riduzionismo” che ci fa credere l’inglese, meglio l’americano, più fondamentale della nostra lingua.L’antropologo francese René Girard afferma che tutte le azioni dell’uomo sono determinate dal desiderio di emulare e imitare (desiderio mimetico) qualcuno che gli appare felice, perché spera di arrivare alla stessa felicità. Siamo così immiseriti nello spirito?
Corrado Augias scrive in difesa dell’italiano, Guido Ceronetti compila elenchi di «frasi delle quali non ne possiamo più», ma i telefonini e la televisione vogano contro. Su Rai 2 c’è un programma che si chiama The voice of Italy. Chi avrebbe capito La voce dell’Italia? I titoli in italiano dei canali Rai si possono trovare con i cani da cerca. Incombe la lingua dei televisionari e quella dei messaggisti, tutt’e due senza radici e prive di scrittura con pagina e inchiostro: una sorta di stenografia anestetizzata, inodore, amputata di sillabe, senza niente.
Yuri Gagarin esortava ad inseguire le stelle, noi ci siamo impoveriti così tanto che il nostro arco visivo non va oltre il 70-80esimo level, i cui abitanti guardano giù e vedono formiche, sporcizie sulla road; noi, dal piano nobile, al massimo, scopriamo le caviglie degli uomini e ascoltiamo il rumore dei passi. Ma facciamo finta di vedere come dall’alto della Freedom Tower e aspiriamo al cheeseburger, all’hot dog e ad oceani di Coca Cola. Diamo ascolto solo ai neuroni specchio che vedono fare agli altri e copiano, riproducono anche nei gesti.
L’identità crivellata, buchi che si allargano e sprofondano, non distinguiamo più la differenza fra un gruppo di uomini e uno di grammofoni, scivoliamo verso uno spanglish nel quale la nostra lingua, come lo spagnolo tra Messico e Mississipi, viene crocifissa quasi non fosse più degna del nostro eloquio progredito. Anche i barbieri – roccaforte di socializzazione e sparlìo – si sono arresi: ora sono hair design, barber shop, hair style; che a volte tiri dritto e cerchi ancora le forbici di don Caloriu.
Che ci può essere di più vernacolo delle panelle, crocchè, mussu, frittola, pani ca’ meusa, stigghiola, che in un affaticato italiano si dicono cibo da strada? In tante insegne pubblicitarie, convegni, manifestazioni enogastronomiche e sagre, si chiamano street food. Tanto a Manhattan sul carrettino dell’hot dog ci sarà scritto caldo cane, oppure panini con wurstel. Non c’è da meravigliarsi se poi arriva qualcuno e dice che il bar si chiama mescita, bibitario, oppure qui si beve, il toast pantosto, il colore bordeaux color barolo, il cognac arzente. Tutto per legge.
Economia, medicina, moda, sport, commercio si sono dotati di un loro baccaglio estero non comunicante, che va per i fatti suoi, votato a una separazione disperata dalla vita che scorre su un lessico familiare e clandestino, che si parla a tu per tu e riesce ancora a trasferire pezzi di pensiero da una persona all’altra. Screening, ticket, cash, deadline, plot, random, soundtrack, work in progress, competitor, exit poll, gender, spending review, tutte idiomatiche lontane che persino il computer sottolinea in rosso. Siamo anime pigre, ammalate di un’isteria compulsiva che si compiace delle amputazioni all’identità, parola senza sinonimi, che significa ciò che si è perché somma di secoli. Tutti dimentichi del malridotto sapienziale che dice «cu vinni scinni».
In una finale di coppa dei campioni fra Juventus e Liverpool in uno stadio di Bruxelles, nel 1985, la furia degli hooligan inglesi provocò la morte di 39 persone (32 italiani, 2 francesi e un irlandese). Il 13 novembre scorso, in occasione di un’amichevole Italia-Belgio, la Figc con una cerimonia ha ritirato la maglia numero 39. Per ricordare quelle vittime, mai più un giocatore – italiano – la indosserà. Io credevo che la rendessero obbligatoria nei campi di gioco, magari assegnata al capitano, invece è diventata un simbolo fantasma votato all’oblio. La filosofia della sottrazione ha avuto ragione dell’ovvio.
A Casalecchio, il sindaco di sinistra Massimo Bosso, «secondo una linea di pensiero più legata alla laicità», ha deciso di non mettere la croce all’ingresso del nuovo cimitero. Un piccolo Editto di Saint Cloud che si meritò i versi di Foscolo «qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso/che distingua le mie dalle infinite/ossa che in terra e in mar semina morte». Nelle essenze dure dei legni, il bosso è secondo in classifica, dietro all’acero. Ma le marmellate culturali trovano sempre le loro mosche arroccate a cassetta.
Ma c’è pure Ezio Bosso, che dalla sua sedia a rotelle, con tenerezza, sofferenza e fatica, dice belle parole fascinose su presente e futuro e ci ammalia con la sua musica divina. Ossidiana contro il disordine mentale, che protegge i pensieri da influssi negativi. Bisognerebbe ascoltare questo Bosso o munirsi di amuleti d’ossidiana, e regalarne una manciata al Bosso sindaco.
Mentre la dannazione mittel e nord europea va verso il progresso a colpi di espulsioni, depredazioni, rifiuti che tutti insieme fanno sospettare un sotterraneo barbaro richiamo della razza, scrivo a penna. Per ritrovare il segno, la personalità delle lettere, le loro sinuosità e asprezze, le modifiche che la mia età attribuisce a esse, il trattino in fin di riga che mi ricorda la scansione delle sillabe, la memoria di accenti, apostrofi, elisioni e troncamenti. Perché la scrittura è memoria, un po’ di sapienza.
L’anno scorso, il 60 per cento degli italiani non ha letto un solo libro: disprezzo per l’inchiostro pensato, paura del contagio della pagina, avanzata del ri-analfabetismo. Quasi la metà dei ragazzini sino ai 13 anni sa usare lo smartphone, ma quasi l’altra metà ancora non sa allacciarsi le scarpe, lo fa la solerte mammina.
Il progresso. Non è inevitabile così come scriteriatamente si avanza, ma è frutto di scelte condivise. Bisogna respingere il tentativo di perdere l’uso delle mani, è necessario imparare ad allacciarsi le scarpe, tornare a parlarsi non in viva voce ma con il fervore della parola detta a tu per tu, ricordarsi che la frase «Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola» non è solo un rigo letterario di Hanns Johst ma anche un plagio di Baldur von Schirach – vent’anni a Spantau – e di tanti altri gauleiter e federali neri.
In Siria le aviazioni conglomerate bombardano scuole, ospedali e mercati; 470 mila morti nella guerra, 4 milioni e 600 mila profughi. Vogliono uccidere non solo il presente ma anche il passato, malgrado Faulkner ci abbia lasciato detto che «Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato». Dobbiamo considerare bene le parole del rivoluzionario monarchico Royer-Collard: «Le libertà pubbliche non sono altro che resistenze».
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
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