di Sergio Todesco
C’era una volta la cultura pastorale. Era una cultura povera, elaborata dagli uomini che di essa erano partecipi per meglio affrontare regimi esistenziali di incredibile durezza e precarietà. Ma si trattava di una cultura genuina, fiera dei propri codici comportamentali e condivisa solidalmente dai suoi storici portatori. Era inoltre una cultura muta e silenziosa, in quanto priva del controllo dei mezzi di comunicazione di massa gestiti dalla cultura egemone; e di fatto, quale messaggio “universale” avrebbe essa potuto propagandare se non quello della fatica quotidiana, dell’intenso lavorìo di addomesticamento della natura?
Gli oggetti di cui tale universo si sostanziava, i modelli culturali che lungo le sue coordinate trovavano il loro senso, non si inscrivevano nell’ordine dell’avere o del prestigio, trattandosi di oggetti e di modelli il cui possesso e uso più pertinentemente rientravano nell’ordine dell’essere, o del dover essere.
La cultura pastorale oggi non esiste più, ovvero viene progressivamente fagocitata dal progresso, dalla moderna società dei consumi (e del profitto che dai consumi si trae) che come una macchina schiacciasassi distrugge al suo passaggio ogni specificità, appiattendo e omologando tutto quanto è diversità culturale, o anche memoria di tale diversità.
Eppure essa, in Sicilia come nel resto del Mediterraneo, ha costituito forse la prima realtà antropologicamente rilevante che abbia interessato, lungo l’arco di millenni, la civiltà euro-asiatica. Già riscontrabile nella Bibbia e nei poemi omerici, la percezione sociale del pastore è stata infatti sempre fortemente caratterizzata nei vari contesti economici, rituali, mitici, leggendari. Le attività pastorali hanno perciò espresso sotto qualunque latitudine profonde corrispondenze a livello tecnologico, e rivelato una sostanziale unitarietà di fondo all’interno delle culture mediterranee e medio-orientali; tali attività hanno inoltre veicolato, a livello ideologico-simbolico, la persistenza di alcune rappresentazioni quali le figure del buon pastore e della pecorella smarrita, dell’agnello sacrificale e del capro espiatorio, che hanno attraversato l’intera storia del mondo antico e della cultura occidentale che di tale mondo è oggi l’erede. Altre caratteristiche comuni a tutte le comunità pastorali quali il nomadismo, ossia il mutamento continuo degli spazi del lavoro, il ricorso a tecnologie essenziali e l’adozione di forme di gestione collettiva dei fattori di produzione, i pascoli e il gregge, hanno ricoperto un ruolo non secondario nella storia sociale ed economica del mondo, quale esso si è mantenuto fino alle soglie della modernità.
Secondo una prospettiva più generale, è utile infine sottolineare come la cultura pastorale abbia storicamente improntato dei suoi modelli il tipo di “trattamento del reale” da parte dell’uomo occidentale: un atteggiamento di tipo diretto-positivo, proprio come diretta e positiva è l’azione del pastore nei confronti dell’animale; e come viceversa nell’uomo orientale tale atteggiamento si sia configurato piuttosto come approccio di tipo indiretto-negativo, analoga all’azione dell’agricoltore nei confronti della pianta (Giacomarra 1983).
Le cosiddette “tradizioni silvo-pastorali” costituiscono, seppure al giorno d’oggi in forme ormai residuali, espressioni di cultura elaborate da gruppi e comunità la cui esistenza si è dispiegata attraverso un continuo rapporto dialettico tra natura e cultura nelle loro diverse determinazioni storiche e territoriali (bosco vs campi aperti, terreni incolti vs campi coltivati, montagna vs pianura, campagna vs centro abitato etc.).
Nelle zone interne di antropizzazione dell’isola le culture pastorali che in essa si sono avvicendate hanno prodotto dei modelli di insediamento rimasti per secoli fortemente radicati nel peculiare ecosistema creatosi in forza dei cicli connessi alle forme di produzione proprie di tali culture. Ne offrono testimonianza alcuni “segni nel territorio” ancora visibili, rimasti a rappresentare uno dei percorsi antropologici più densi di memoria all’interno del mondo euro-mediterraneo.
In provincia di Messina è stata accertata l’esistenza di un ricco e variegato patrimonio che illustra esemplarmente quanto prodotto, in termini di monumenta, dall’antica cultura pastorale che ha per secoli connotato le comunità e le storie locali. Si tratta di significative presenze territoriali che rivestono al contempo interesse naturalistico ed etno-antropologico, mostrando non equivoci segni di antropizzazione che rinviano a forme di utilizzazione, tanto produttiva che religioso-cultuale, dei siti da esse interessati.
I beni in questione, dislocati entro un’area di grande suggestione paesaggistica posta tra le catene montuose dei Peloritani e dei Nebrodi, sono costituiti dai numerosissimi cubburi, ricoveri in pietra risalenti in gran parte a epoca arcaica e disseminati in tutto il comprensorio (ne sono stati calcolati circa 500, di varie dimensioni); dall’ovile megalitico, seppure forse edificato nel XX secolo, denominato localmente a màndura d’u Gesuittu o a mànnara; dall’intera area dell’Argimusco, caratterizzata dalla presenza di ciclopiche formazioni rocciose che per la loro conformazione sono state verosimilmente, in un passato assai remoto, elette a sedi di osservazioni astronomiche, e presentano tuttora segni evidenti di trascorse frequentazioni, se non di stanziamento, a opera di gruppi umani, nonché dal non distante fòndaco di probabile epoca sveva, e infine dal borgo pastorale “Stidda”, ancora esistente sulle pendici delle Rocche del Crasto, imponente formazione calcarea dell’era mesozoica che sovrasta il paese di Alcara Li Fusi.
Tralasciando i mulini ad acqua a ruota idraulica orizzontale, pure presenti benché ormai allo stato di ruderi lungo il corso dell’Elicona, è degna di approfondimento la singolare compresenza, nel primo areale preso in esame, di numerose strutture in pietra, alcune delle quali sono con tutta evidenza il prodotto di attività edificatorie, altre testimoniano viceversa di singolari e oltremodo interessanti strategie di antropizzazione di preesistenze naturali.
I cubburi sono costruzioni in pietra arenaria a pianta circolare caratterizzate da muri a secco con funzione portante e da una copertura a cupola ottenuta tramite progressivo restringimento degli anelli di coronamento verso la sommità ottenuto con sbalzi dei conci di pietra sovrapposti, ognuno dei quali sporgente a mensola su quelli posti inferiormente. Le strutture vengono concluse nella parte sommitale rimasta cava da un’unica lastra di pietra a mò di “tappo”. Probabilmente risalenti (almeno alcuni di essi) a epoca megalitica e utilizzati lungo l’arco di millenni da tutte le culture silvo-pastorali che si sono avvicendate nel territorio, essi hanno costituito una rete capillare di ricoveri pastorali fino alla seconda metà del XX secolo, entrando in rapida dismissione e in pressoché completo abbandono negli ultimi decenni.
Non è da escludere, in linea di principio, un arcaico impiego funerario dei cubburi, come l’impianto a thòlos indurrebbe a ipotizzare, soprattutto per la presenza di manufatti di scala ridotta, inadatti a ospitare persone. Sono altresì rilevabili nella zona altre tipologie di cubburi, differenti per forma della pianta (quadrata o rettangolare) e della copertura (a falde, ovvero di coppi siciliani). La loro dislocazione comprende una vasta area ricadente nei comuni di Basicò, Montalbano Elicona, Floresta, Raccuja, San Piero Patti, Santa Domenica Vittoria, Ucria. Secondo lo storico del territorio oggi scomparso Nicola Terranova, citato da Giuseppe Todaro:
«I cuburi stessi, disposti come appaiono lungo gli itinerari che da sempre hanno collegato i vari versanti, possono rappresentare le pietre miliari dei grandi passaggi di popoli (di eserciti), i luoghi scelti per le soste, i presidî, il raduno delle vettovaglie, l’impianto dei nuclei abitativi. Su questi percorsi è possibile rintracciare le orme della penetrazione dei Siculi, dei Punici, dei Mamertini, dei Romani, dalla costa settentrionale verso l’entroterra e le orme delle spedizioni di Dionisio, Agatocle, Gerone, da Siracusa verso la costa settentrionale, contro gli stessi Siculi, Punici, Mamertini, Romani, nonché più tardi, le tracce di Vandali, Bizantini, Arabi, Normanni, Aragonesi e via di seguito. Così attuandosi, si direbbe, una legge di perenne flusso e riflusso» (Terranova 1981, cit. da Todaro 1992: 21-22).
L’origine del vocabolo “cubburu” è propria del dialetto locale, le cui radici sono linguisticamente riconducibili alle svariate culture avvicendatesi in Sicilia, dai Greci ai Latini, agli Arabi. In tale prospettiva, il termine potrebbe altrettanto verosimilmente derivare dal greco kype (“capanna”), dal latino cupa (“botte”, con riferimento alla volta) o infine dall’arabo qubba (“costruzione a cupola”) (Todaro 1992: 13). Cubburo potrebbe infine alludere alla particolare forma di copertura del manufatto. Ancora oggi a Montalbano Elicona cubura è il termine usato per indicare la cupola della Chiesa Madre.
L’apertura di accesso al cubburo è quasi sempre rivolta a oriente, in direzione del sorgere del sole. Il pavimento è sovente in terra battuta, poggiando la costruzione sul nudo terreno opportunamente spianato. In qualche caso i cubburi sorgono poggiati su piattaforme circolari esternamente ricoperte da lastre di pietra.
Sotto il profilo orografico la loro collocazione è quasi sempre in contesti contrassegnati da pendii, ma non mancano cubburi costruiti su terreni pianeggianti. La tipologia più comune presenta un diametro di base da poco più di 1 mt. agli 8-12 mt., altezza corrispondente a circa la metà del diametro, i muri perimetrali spessi da 50 a 100 cm., la forma troncoconica con copertura fortemente ribassata, l’ingresso con un’altezza che va dalle poche decine di cm. ai circa 2 mt., a pianta trapezoidale slargata verso l’esterno, e pareti interne costruite con blocchi squadrati sovrapposti regolarmente in sequenza sfalsata e formanti un cilindro fino al piede della volta, laddove iniziano a stringersi progressivamente. Gli interstizi tra i blocchi sono chiusi con malta. Spesso lungo le pareti e sulla volta sono visibili annerimenti dovuti a fuochi accesi all’interno della capanna a fini di riscaldamento o di cottura ovvero per tener lontani gli animali.
Capanne a tholos assai analoghe a queste costruzioni sono state rilevate anche alle Isole Eolie, in particolare ad Alicudi, dove vengono denominati pagghiari, con annessi ricoveri per ovini, mànniri (Lo Castro 1995). Gerhard Rohlfs, che pure esamina nel suo libro l’amplissima tipologia di costruzioni a cupola dislocate in Europa, stranamente non dovette venire a conoscenza degli esemplari peloritani-nebroidei, limitandosi a riportare nell’atlante fotografico a corredo del testo l’immagine di una capanna di blocchi di lava esistente nel territorio di Bronte, da lui direttamente visionata: «Sporadicamente si incontrano tali capanne (di blocchi di lava) sulle pendici occidentali dell’Etna (zona Randazzo-Bronte)» (Rohlfs 1963: 53). Un modello in scala di una costruzione analoga si trova esposto all’interno del Museo Regionale delle Tradizioni Silvo-pastorali “Giuseppe Cocchiara” di Mistretta.
L’ovile megalitico o màndura d’u Gesuittu (mandra del Gesuita?) è uno straordinario impianto che pur riproducendo le caratteristiche formali della tradizionale mandra o recinto per animali da pascolo, ne amplifica a dismisura le dimensioni finendo con l’assumere la configurazione di struttura “ciclopica” dai tratti marcatamente arcaici; i muri perimetrali che delimitano il recinto, grossomodo di forma quadrangolare, alti oltre 1,5 mt. e lunghi da 30 a 40 mt. per lato, sono formati da enormi blocchi di pietra squadrata sormontati da lastroni rettangolari, alcuni di peso superiore alle due tonnellate, mentre una grande apertura – oggi chiusa con assi di legno – con architrave formato da due lastroni sovrapposti ne consente l’accesso; l’ovile ingloba quattro blocchi naturali di roccia, di cui tre ricadenti all’interno mentre il quarto, posto a un angolo dell’ovile e proiettato verso l’esterno, forma una costruzione pastorale, adibita a ricovero dei mandriani, che mantiene marcate caratteristiche di dolmen, pur con integrazioni nelle murature con pietre a secco e nelle aperture (porta e finestra) con mensole, stipiti e architravi in pietra. All’interno del recinto, muri interni delimitano gli zàccani, spazi di custodia separati fra loro da passatoi (vadìli), strettoie nelle quali venivano collocati gli animali per le operazioni di mungitura. A onta del suo aspetto trogloditico, secondo una tradizione locale l’ovile sarebbe stato fatto costruire dopo la Grande Guerra da Antonino D’Amico, allevatore di Montalbano e nonno dell’attuale proprietario, probabilmente trasportando e riutilizzando le pietre di un edificio megalitico esistente nelle vicinanze.
Ulteriori tracce di antropizzazione sono rilevabili in una rupe poco distante dal complesso, sulla quale sono incisi alcuni scalini e una griglia composta da tre cornici rettangolari concentriche, intersecate nella parte mediana delle due fasce esterne da rette come nel gioco della Tria. Nonostante il suo apparente stato di abbandono la màndura continuava alla fine del secolo scorso a rivestire una funzione, ancorché sporadica, connessa all’allevamento, in quanto nel corso di un sopralluogo chi scrive ebbe ad imbattersi in un vitellino che vi si aggirava all’interno ricoperto dalla pelle di altro giovane bovino evidentemente postagli addosso ad essiccare.
Lungo la rotabile Montalbano-Polverello, in prossimità del bivio per il bosco Malabotta, si ergono i resti di una costruzione a pianta quadrata, oggi a un solo piano ma in passato certamente parte di una torre a piani sovrapposti come starebbe a indicare il passaggio murato rilevabile all’interno dell’unico vano rimasto, caratterizzato da un’interessante volta a botte di circa 4,5 mt. di altezza. Le caratteristiche formali, i dati d’archivio ancora disponibili e infine la memoria locale ce ne hanno tramandato la originaria natura di fondaco (dall’arabo funduq = locanda, ostello), al contempo stalla pubblica con possibilità di pernottamento, magazzino di stoccaggio per merci e documenti postali e dogana. Il fondaco dell’Argimusco, derivante dalle antiche stationes presenti lungo le strade romane, e qui alla sommità del crinale che separa il versante tirrenico da quello ionico dei Peloritani, è citato negli Acta siculo-aragonensia come luogo in cui perfino l’Imperatore Federico II si trovò nell’anno 1308 a soggiornare. La spettacolare concentrazione di menhir (pietre lunghe) nella medesima località ha conferito a questo sito una nomea e un fascino che nel giro degli ultimi vent’anni lo hanno fatto diventare meta obbligata dell’escursionismo culturale praticato nell’intero territorio del Valdemone.
Le Rocche dell’Argimusco, al cui pianoro – ubicato a circa 1.200 mt. di altitudine s.l.m. – si accede dalla strada Montalbano-Polverello in direzione Malabotta, sono formazioni arenarie di ciclopiche dimensioni le cui forme hanno stimolato la curiosità e la fantasia degli studiosi; oltre agli aspetti formali delle rocche, che hanno nel tempo suggerito toponimi quali l’Aquila, il Grande Teschio, l’Orante, la Schiena d’Asino, etc., la loro disposizione nel pianoro e numerosi segni che testimoniano di un’assidua frequentazione in epoca certamente arcaica (gradini scavati nella roccia, vaschette e bacinetti idrici, dolmen di tipo funerario, simboli solari etc.) hanno fatto ipotizzare che l’Argimusco sia stato, in un’epoca non si sa quanto retrodatabile nel tempo, un luogo sacro adibito a rilevamenti di tipo astronomico e al contempo a riti sacerdotali e/o pratiche d’iniziazione (Pantano 1994).
Al di là del fascino del complesso megalitico, anche in forza dei segni di indubbia antropizzazione in esso rilevabili, la mancanza di indagini archeologiche e di campagne di scavo mirate ha fin qui impedito che si potesse pervenire alla formulazione di più circostanziate ipotesi sulla natura e la storia del sito, tenuto altresì conto che altre aree limitrofe del comprensorio (Fontana Scavi, Roccaincavalcata, Portella Calcagna) sono tutte fortemente interessate dalla presenza di reperti megalitici.
Per tutto quanto esposto, chi scrive ha ritenuto che le aree connotate dalla presenza delle emergenze sopra richiamate dovessero essere sottoposte a regime di tutela anche nella particolare prospettiva etno-antropologica, delineando i beni descritti, nel loro complesso, una storia stratificata di questa particolare porzione di territorio, al cui interno vicende relative agli antichi insediamenti nell’isola, fatti di cultura materiale nella lunga durata ed eventi della histoire evénémentielle si sono saldamente intrecciati, connotandosi come vero e proprio palinsesto territoriale. Ai fini di un’azione di tutela volta a impedire che questa porzione di territorio potesse venire deturpata da improprie installazioni, come pareva risultare da progetti miranti alla collocazione di pale eoliche proprio nella zona, nel 2003 l’U. O. Etno-antropologica della Soprintendenza dei Beni Culturali di Messina ha emanato, congiuntamente alle consorelle Unità Operative Paesistica e Archeologica, un provvedimento formale con il quale è stato dichiarato il rilevante interesse etno-antropologico e paesaggistico dei beni sopra descritti ai sensi della normativa vigente.
Un ulteriore, pregnante esempio di ciò che in questa sede si è definito Rock Art Museum, ossia un museo di pietra a cielo aperto, è costituito dal borgo pastorale “Stidda” esistente nel territorio di Alcara Li Fusi alle pendici delle Rocche del Crasto, anch’esso sottoposto a vincolo etno-antropologico per il suo valore documentario in ordine alla conoscenza degli insediamenti pastorali in provincia di Messina nonché per la testimonianza dei saperi relativi alla lavorazione della pietra. Si tratta di un vero e proprio villaggio rurale, composto da pagghiari, con base in pietra a secco e copertura con frasche di ginestra, e da mànnare, spesso ad essi annesse, utilizzate come spazi di stabulazione per ovini. Il villaggio costituisce un esempio degli insediamenti, quasi sempre temporanei, utilizzati da pastori come stazioni durante la transumanza o come spazi nei quali effettuare le operazioni connesse alla caseificazione.
Ad eccezione degli imponenti megaliti dell’Argimusco e dell’altrettanto imponente Mànnara d’u Gesuìttu, tutte queste costruzioni si caratterizzano per la loro straordinaria capacità mimetica, che le rende elementi integranti del paesaggio. Ciò mi pare costituisca un ulteriore esempio di come la cultura pastorale, sviluppatasi nel corso di millenni ma ancora in grado di esibire elementi strutturali mantenutisi inalterati nel tempo, abbia sempre mantenuto un rapporto di forte sintonia con la natura circostante, obbedendo in qualche modo alle caratteristiche geo-morfologiche degli angoli di mondo che veniva via via antropizzando.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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