di Linda Armano
Il termine “gate” è una metafora ricorrente per riferirsi ai momenti di accesso e di negazione del lavoro etnografico sul campo. È stato particolarmente utilizzato nella ricerca sociale in relazione ai meccanismi delle strutture di potere soprattutto in contesti estrattivi (Straube 2020) oppure in determinati periodi storici come quello della pandemia di COVID-19.
È risaputo che l’etnografo ha più facilità nel processo di accesso al lavoro di campo se riesce ad stabilire legami di fiducia con i partecipanti alla ricerca e ancor di più con particolari gatekeepers. Per contro, la difficoltà di accesso al campo può avere numerose cause (Borchgrevink 2003) e le sfide per accedervi non costituiscono solo “porte” che aprono o precludono opportunità scientifiche. Piuttosto, esse possono spiegare il lavoro di campo come intriso di un insieme di pratiche di potere che segnano il processo di produzione della conoscenza antropologica e dell’antropologia come scienza sociale.
In tali situazioni, l’antropologo può addirittura essere considerato uno scienziato sociale che potrebbe essere “inseguito” dalle pratiche di potere che strutturano il suo luogo di lavoro etnografico. In questo modo, gli strumenti metodologici e teorici dell’antropologia si prestano ad illustrare le gerarchie di potere attraverso momenti transitori, costituiti da continue negoziazioni per ottenere l’accesso al campo e sforzi prolungati per mantenerlo (Straube 2020). Per fare fronte alle difficoltà di vedersi negato il contesto etnografico, negli ultimi anni gli studiosi hanno incluso maggiormente le emozioni nell’etnografia, comprese quelle dell’etnografo, poiché le risposte dei ricercatori alle situazioni o ai contesti possono fornire importanti intuizioni (Gallinat 2023).
Per contribuire a sviluppare la letteratura sulla metodologia etnografica dell’inaccesso al campo, questo articolo intende proporre tre casi studio ripresi sia da esperienze dirette di campo sia da lavori di altri ricercatori. In particolare, il presente contributo analizza due ricerche incentrate in siti estrattivi e una indagine di antropologia domestica. Lo studio muove dalla mia esperienza etnografica nei Northwest Territories (NWT) (2022; 2023b) in contesti minerari diamantiferi; prende in esame la monografia di Christian Straube (2020) sulle miniere di rame in Zambia, e in particolare presso Luanshya, dal 2015 al 2016; nonché la ricerca di Anselma Gallinat (2023) sulla trasmissione dei testi da parte della Chiesa Luterana nella Germania dell’Est nel periodo della pandemia da COVID-19.
Queste pagine tentano di rispondere essenzialmente ad una domanda: Come si può essere antropologi quando l’accesso al campo è negato? Rispondendo a tale questione, si vuol contribuire ad aumentare la nostra comprensione sulle possibili strategie utilizzate dal ricercatore in termini metodologici, teorici e di costruzione della conoscenza antropologica.
Caso di studio 1: Impossibilità di accesso al campo nei contesti diamantiferi dei NWT. Metodologia e costrutti concettuali per fare fronte all’inaccessibilità etnografica
Questo primo caso di studio raccoglie riflessioni sulla difficoltà di condurre una ricerca etnografica nei contesti minerari diamantiferi nei NWT canadesi. Seppur rispettando gli aspetti etici della ricerca e pur mantenendo una responsabilità personale nei confronti delle persone coinvolte, una delle motivazioni principali della reticenza di alcuni soggetti sembrava riguardare il fatto che alcuni argomenti affrontati nel mio studio etnografico potessero smuovere temi sensibili. Nello specifico, i possibili contenuti che potevano emergere dalla ricerca avrebbero potuto essere percepiti scomodi soprattutto agli occhi di multinazionali minerarie le quali basavano la loro reputazione pubblica a livello globale su una narrazione pubblicitaria di un brand sostenibile ed etico. Nonostante le difficoltà di raccolta dei dati, tale ricerca ha però consentito di delineare i limiti discorsivi imposti da un’ontologia che impone numerose difficoltà nell’intervenire su determinate tematiche (Gill 2017). Sono comunque emerse alcune importanti riflessioni metodologiche. Nello specifico, l’impossibilità di accedere al campo e la mia volontà di non rinunciare alla ricerca, hanno permesso di sviluppare riflessioni sull’indicibile (Dragojlovic, Samuels 2021), ossia su tentativi di stabilire impossibilità di dibattito.
Nel caso specifico della mia ricerca, era innegabile come le multinazionali con cui venni in contatto utilizzavano strategie di controllo delle informazioni rivolte ad un pubblico globale. Alcuni autori, a tal proposito, hanno sostenuto come tali strategie riescano a limitare possibilità di dissenso nell’interesse di promuovere, o per lo meno indurre a non disapprovare, obiettivi politici e finanziari attualmente dominanti su scala mondiale (Gill 2017; Benson, Kirsch 2010).
La ricerca sulle miniere diamantifere nei NWT è confluita in uno studio sulle interpretazioni culturali dello storytelling globale dei diamanti etici canadesi da parte di soggetti appartenenti a diversi contesti socioculturali e politico-economici. I diamanti canadesi sono accompagnati, nel mercato internazionale, da una certificazione di eticità che afferma di garantire che i lavoratori minerari siano pagati equamente e che le popolazioni locali siano rispettate. Oltre alla certificazione, i consumatori hanno anche la possibilità di tracciare la pietra, attraverso una tecnologia blockchain, lungo la filiera.
Nello specifico, la mia ricerca sul campo si è svolta all’interno dei due estremi opposti della filiera dei diamanti, ossia nei NWT dove si trovano le miniere di diamanti e le società minerarie e in due gioiellerie in Italia, una a Milano e una a Bologna, che vendono diamanti etici canadesi (Armano 2022; 2023b). Una volta arrivata a Yellowknife, la capitale del NWT, scoprii però che alcuni attori locali – minatori, molte persone appartenenti a comunità indigene e il personale delle multinazionali – non volevano parlare di estrazione di diamanti, presumibilmente per paura di esporsi su questioni che consideravano sensibili e contestabili. Nel frattempo, all’altra estremità della catena di fornitura, scoprii che i consumatori e i gioiellieri italiani acculturavano i diamanti canadesi, che rappresentano un prodotto di lusso di nicchia in Italia, richiamando logiche narrative riferite a peculiari categorie produttive relative al cibo biologico prodotto in Italia (Armano 2023a). Pertanto, ripercorrendo concettualmente la tracciabilità della pietra dal luogo produttivo al contesto di vendita, fu possibile notare come la narrazione relativa a pratiche di eticità dell’industria e alla corporate social responsibility funzionasse in maniera direttamente proporzionale alla distanza dal luogo di produzione (Armano 2022).
Yellowknife venne fondata, come città mineraria, nel 1934 grazie all’apertura di miniere d’oro. Le miniere diamantifere vennero però aperte solo nel 1998. Ekati fu la prima miniera di diamanti della regione. Nel 2003 vennero messe in produzione anche Diavik, Gahcho Kué Diamond Mine e Snap Lake Mine. Le miniere di diamanti nei NWT si trovano nel mezzo del Lac the Gras e sono accessibili solo in aereo da Yellowknife o da Edmonton, o tramite una strada ghiacciata durante i mesi più freddi dell’anno.
La presunzione nell’esistenza di giudizi neutri, oggettivi, riguardo a dibattiti sulla sostenibilità e l’eticità, soprattutto in relazione a particolari settori produttivi (es. le risorse non rinnovabili), sprona a sviluppare nuovi dibattiti, a formulare costrutti teorici e metodologie etnografici ad hoc. Intuizioni che sorgono negli incontri tra contesti locali, in cui sono presenti interpretazioni culturali di eticità e di sostenibilità, e narrazioni globali degli stessi concetti possono fare emergere nuove riflessioni che sono il risultato di esperienze etnografiche sempre inedite. Nota, per esempio, Hannah Appel (2019) come i “mondi etici” siano molteplici e sovrapposti, a volte in accordo reciproco e altre volte in contrasto, a dimostrazione del motivo per cui è importante elaborare sempre nuove chiavi di lettura e approcci più capienti per pensare alla pluralità, alla complessità, all’idiosincrasia che nasce all’incrocio tra temi etico-sostenibili e determinati tipi di produzione davanti ai quali spesso gli studiosi vengono colti impreparati. Non si tratta tuttavia di difendere o contestare questi “mondi etici”, quanto piuttosto di esplorare una sorta di territorio grigio che, come studiosi, ci obbliga a ripensare a concetti che diamo per scontati.
La ricerca etnografica sulle interpretazioni culturali dei diamanti canadesi da parte di soggetti nei contesti estrattivi e di vendita, mirava a rispondere alla seguente domanda: come produrre un’interpretazione ancorata all’esperienza sul campo, se il ricercatore si trova in un contesto condizionato da agenti che impediscono o frenano i processi di interazione che stanno alla base della ricerca etnografica? I limiti dell’incontro etnografico, si sa, dipendono sempre dalla disponibilità dei campi ad aprirsi e a lasciarsi attraversare dalla ricerca antropologica. In tal senso, la validità etnografica è costruita sulla sintesi tra pratica e riflessione teorica (Matera 2020). Dal punto di vista metodologico ed interpretativo sorgono però non pochi problemi quando la partecipazione del ricercatore è fortemente limitata come è accaduto nel contesto di indagine dei NWT. La riflessione sul valore e sul senso delle informazioni che accompagnano i diamanti canadesi all’interno di un contesto di indagine globale che interconnette due realtà locali, interroga sulla necessità di uno sforzo collettivo ed interdisciplinare, anche degli antropologi.
Non solo come produttori critici di conoscenza ottenuta in quanto osservatori esterni, ma anche come produttori di conoscenza sull’ambiente e su pratiche etiche, gli antropologi hanno l’importante compito di partecipare dall’interno alla comprensione sulla validità degli schemi di certificazione per la domanda di senso che questi sollevano (Eriksen 2017). Nel caso specifico, queste riflessioni vanno inquadrate partendo dal luogo estrattivo sul quale è costruita la narrazione sui diamanti etici canadesi, ovvero i NWT, e Yellowknife, fino a giungere alle gioiellerie italiane.
Dall’esperienza di campo di questo studio etnografico e dalle difficoltà dovute all’inaccessibilità al campo, ho sviluppato due nuovi concetti che spiegano sia l’impossibilità teorica di svolgere una ricerca, sia di comprendere più da vicino come possano crearsi pratiche di silenzio da parte di determinati soggetti. Nello specifico, per spiegare metaforicamente come la narrazione sul diamante etico canadese riesca ad adattarsi a contesti specifici lungo la filiera, mi sono ispirata ad un problema fisiologico della vista formulando un costrutto teorico che ho chiamato “concetto di presbiopia” (Armano 2022), il quale mi ha guidato lungo il seguente ragionamento. Considerando l’“ecosistema della tracciabilità” (Herian 2017) come percorso che connette i luoghi di estrazione a quelli di vendita, è possibile sostenere che più ci si allontana dal contesto estrattivo canadese, più il concetto di eticità in relazione a pratiche etiche dell’industria mineraria canadese si fa nitido grazie a specifiche narrazioni pubblicitarie e a strategie di marketing che incrementano una reputazione aziendale positiva, mentre più ci si avvicina al contesto minerario più il concetto di eticità diventa offuscato, eterogeneo, frammentato e difficilmente comprensibile.
Questa riflessione solleva un’altra fondamentale questione relativa alla fiducia dei consumatori globali sulla veridicità di narrazioni pubblicitarie che esaltano pratiche etiche delle multinazionali operanti nei NWT e del governo canadese. Tale presupposto pone la cruciale questione della separazione tra conoscenza e contesto reale (Hayek 1937) la cui distanza sembra essere colmata dalla fiducia nei confronti di narrazioni in cui la tracciabilità e la certificazione del diamante canadese assumono un ruolo centrale. Nello specifico, ho sviluppato il “Concetto di Presbiopia” partendo dal concetto di “anthropology in the meantime” di Michael Fisher (2018), il quale concettualizza una metodologia per fare etnografia che analizza come i pezzi del mondo interagiscono, si incastrano o si scontrano, rafforzando immaginari e causando rotture sociali.
Le riflessioni di Fisher confluite nel “Concetto di Presbiopia” e in particolare sul ragionamento di come «mettere assieme pezzi di mondo» (ivi: 8), anche contrapposti tra di loro, mi hanno consentito di pensare alle persone incontrate sul campo come all’interno di reti globali (Souleles 2018) che si materializzano attraverso una loro particolare relazione con il diamante estratto in Canada. Oltre alle riflessioni di Fisher, per formulare il “Concetto di Presbiopia” è stato utile ragionare anche sul concetto di eterotopia di Foucault (2010). In particolare, quest’ultimo mi ha aiutato, dal punto di vista concettuale, a giustapporre immaginari etici applicati a determinate categorie sociali e professionali, da parte di soggetti che, lontani dal contesto produttivo, sono impossibilitati a cogliere il timore, la riluttanza o in generale il rifiuto di esporsi da parte di specifici attori residenti nei NWT. In questo senso, il “Concetto di Presbiopia” nasce all’interno di un paradosso (Norgaard 2011) tra narrazioni del diamante canadese connesse a pratiche industriali etiche e sostenibili diffuse globalmente e le reticenze incontrate nel contesto produttivo emerse durante l’esperienza etnografica.
Attraverso il concetto di “Processo di Afasia Argumentativa”, ho potuto invece analizzare come i discorsi pubblicitari globali sui diamanti etici canadesi vengono riorganizzati all’interno dei contesti minerari e di vendita in sotto-discorsi locali. Da un punto di vista teorico, il quadro analitico del “Processo di Afasia Argomentativa” è costruito interconnettendo i concetti di afasia in linguistica, vale a dire l’incapacità di esprimere i propri pensieri e sentimenti (Jakobson 1971); il concetto di “afasia coloniale” di Stoler (2011) che spiega, all’interno dei dibattiti postcoloniali, il misconoscimento dei resoconti dei gruppi sociali emarginati in relazione alle retoriche dominanti del potere; e friction (Tsing 2005), inteso come «incontri globali attraverso le differenze» (ivi:3).
Concettualmente, il “Processo di Afasia Argomentativa”, che studia gli allineamenti o i disallineamenti discorsivi rispetto alla retorica ufficiale sui diamanti etici canadesi da parte di soggetti nei contesti culturali studiati, mi ha consentito di mettere in luce come le reticenze nel parlare di determinati argomenti possono formarsi nella zona di incontro frizionale tra le narrazioni globali dominanti, spesso supportate e accettate dalle élite (Stoler 2011), e le loro interpretazioni locali. Tali forme di acculturazione possono quindi assumere la forma di totale adesione ai contenuti di tali narrazioni o di critica o di varie forme di inibizione nel discutere gli argomenti principali dello storytelling ufficiale. Nello specifico, in questo studio, la narrazione sull’etica delle pratiche minerarie canadesi che accompagnano i diamanti nel mercato globale dà luogo a disallineamenti argomentativi rispetto allo storytelling ufficiale di marketing che diventano più marcati man mano che ci si avvicina al contesto minerario. Mentre più ci si avvicina al contesto della vendita al dettaglio, le argomentazioni sui diamanti canadesi dei gioiellieri e dei loro clienti sono più in linea con la narrazione pubblicitaria globale.
Caso di studio 2: Speak, Friend, and Enter? Fieldwork Access and Anthropological Knowledge Production on the Copperbelt
Basandosi sul lavoro sul campo a Luanshya nel 2015-2016, Christian Straube (2020) analizza i meta-testi in riferimento a ricerche etnografiche sulle miniere di rame dello Zambia, a documenti d’archivio e a colloqui tra il ricercatore e altri studiosi del Copperbelt. Dall’esperienza di campo, Straube ha messo in luce come il lavoro sul campo etnografico sia stato in grado di sfidare le persistenti strutture di potere e le gerarchie sociali in epoca coloniale e post-coloniale nello Zambia. Contemporaneamente però Straube sostiene come, in tali circostanze, lo stesso lavoro sul campo etnografico può rendere l’antropologo uno scienziato sociale “inseguito” dalle pratiche di potere che strutturano il suo luogo di lavoro principale: cioè il campo. Nell’usare la parola “inseguimento”, lo studioso si riferisce alla fretta intrinseca di condurre il lavoro sul campo in contesti avversi, accessibili solo temporaneamente attraverso “gates”; alla necessaria resistenza dello scienziato sociale durante prolungati processi di contrattazione per l’accesso al lavoro sul campo; e alla resilienza necessaria per trovare metodologie adeguate a fronteggiare meccanismi di tutela aziendale, possibili cause dell’inaccessibilità al campo per l’antropologo. Portando l’accesso al lavoro sul campo al centro di un’indagine epistemologica, Straube mostra come la negazione all’indagine etnografica rappresenti un prisma che infrange il processo di produzione della conoscenza antropologica rivelando le interazioni sottostanti tra pratiche etnografiche e imperiali, il locale e il globale, e la natura dell’antropologia come scienza sociale.
Lo studioso si pone inoltre come storico dell’antropologia sociale e ripercorre il modo in cui gli antropologi del Copperbelt ottennero o fu loro negato l’accesso ai loro siti sul campo. Dal punto di vista teorico, riprendendo la definizione di Schumaker (2001: 32) di “campo” come «a constructed and negotiated space for the production of knowledge rather than […] a mere source of data», Straube sostiene che la costruzione e la negoziazione del campo derivino da modelli imperiali che regnavano sul campo stesso assieme a pratiche strutturate in posizione dominante. Vari studiosi hanno dimostrato come questa modalità fosse particolarmente onnicomprensiva nel caso delle miniere dell’Africa meridionale (Peša 2020). Grazie ad un’astrazione dal lavoro sul campo e dalle gerarchie di potere rispetto alle loro pratiche sottostanti, Straube è riuscito a svelare la relazione reciproca tra lo scienziato sociale e il contesto particolare del suo campo di ricerca in cui produce conoscenza. L’antropologia come scienza sociale e il lavoro sul campo come pratica scientifica sono cambiati nel tempo ma, come afferma il ricercatore, le connessioni tra l’accesso al campo e i suoi possibili effetti sul processo di produzione della conoscenza sono persistite nel tempo.
L’accesso al lavoro sul campo è stato un problema nella ricerca antropologica nelle aree minerarie urbane dello Zambia da quando il Paese era conosciuto come Rhodesia del Nord sotto il colonialismo britannico (1924-1964). Brown (1998) ha mostrato come la sua ricerca focalizzata sul cambiamento sociale nelle aree urbane indotto dall’industrializzazione aziendale e dai metodi etnografici, con al centro l’osservazione partecipante, abbiano portato a negoziati in corso sull’accesso ai siti urbani e ai loro abitanti in contesti africani. L’industria del rame si era sviluppata dalla fine degli anni ‘20 e aveva dato il nome al Copperbelt. Da allora si sono incrementate le ricerche sociali. Fino alla riprivatizzazione del settore nel 1997, i contesti estrattivi comprendevano non solo il sito di estrazione e di produzione del minerale – cioè i pozzi, le fonderie, gli impianti e gli uffici – ma anche le aree residenziali e le strutture sociali dove i minatori vivevano con le loro famiglie. Ogni studio sulle città minerarie di recente sviluppo richiedeva allora il permesso di ricerca della direzione mineraria competente. Inoltre, l’industria mineraria e la ricerca sociale nel Copperbelt erano finanziariamente intrecciate.
Importanti documenti di antropologi che testimoniano l’accesso al campo in contesto minerario a Luanshya, sono le lettere di risposta a Audrey I. Richards da parte della Roan Antelope Copper Mines (RACM) di Luanshya nei primi anni ‘30. Queste lettere rivelano come Richards avesse negoziato l’accesso al campo direttamente con i top manager per un progetto di ricerca, alla fine mai realizzato, nei complessi aziendali. Questi primi interventi di indagine sociale illustrano come le visite alle miniere del Copperbelt, per non parlare del lavoro sul campo, richiedessero un approccio dall’alto verso il basso. L’accesso al lavoro sul campo presupponeva un “entrée di alto livello” che, sostiene Straube, continua ad essere un approccio all’entrata nel campo che caratterizza la produzione di conoscenza antropologica nel Copperbelt.
Nel 1969-70, l’industria del rame dello Zambia fu nazionalizzata e successivamente accorpata nella società statale Zambia Consolidated Copper Mines (ZCCM), costituita nel 1982. Questa transizione di proprietà spostò l’autorità allo Stato dello Zambia per l’accesso al campo etnografico agli scienziati sociali. Lo Stato ereditò il potere su chi poteva entrare nelle miniere, nei loro impianti di produzione, negli uffici, negli archivi e nelle città aziendali. Fino a quel momento, gli archivi minerari aziendali erano stati i siti più accessibili per la maggior parte dei ricercatori. Tuttavia, e cosa più importante, la ZCCM aprì le sue township minerarie per la ricerca sociale. A tal proposito, James Ferguson (1999) ha sottolineato l’atteggiamento di sostegno della direzione dell’ente parastatale nel contesto della sua ricerca sul campo nel 1985-86: «[t]he research was also made possible through the kind cooperation of the officers of […] ZCCM […] who have maintained over the years a commendable policy of not only permitting but facilitating social research» (ivi: xv). Questa “cooperazione” comprendeva una procedura standardizzata di affiliazione accademica locale e un permesso di ricerca rilasciato dallo Stato per svolgere ricerche sul campo e risiedere nelle township minerarie della divisione Nkana della ZCCM a Kitwe. Inoltre, a Ferguson fu offerto l’uso di un ufficio nel dipartimento dei servizi alla comunità. Ferguson poté così osservare i minatori nel loro ambiente lavorativo e partecipare alla loro vita quotidiana.
Nel 1997 le miniere di rame dello Zambia furono riprivatizzate. La vendita di ZCCM comportò la separazione dell’impresa parastatale e di ciascuna delle sue miniere. Quelle che erano state diverse divisioni della stessa azienda statale diventarono miniere separate gestite da diverse società possedute da una moltitudine di azionisti. Gli investitori si concentrarono nuovamente sulle miniere come siti di estrazione mineraria. Le estensioni sociali delle miniere nelle aree residenziali, dagli alloggi aziendali e dalle infrastrutture di base alle strutture assistenziali, furono abbandonate. I comuni minerari divennero enti municipali con le loro diverse infrastrutture spesso dismesse. Questo ritiro delle miniere determinò ulteriori barriere per l’accesso dei ricercatori sul campo nelle aree residenziali accanto ai siti estrattivi. Allo stesso tempo, i rimanenti spazi aziendali – gli impianti di produzione e gli uffici – furono fortificati contro qualsiasi tipo di penetrazione scientifica. Di lì in poi, ottenere l’accesso al lavoro sul campo divenne sempre più difficile. L’industria era sotto pressione per rilanciare le miniere nonostante il basso prezzo del rame. Era necessario tagliare i costi e tale processo comportò una diminuzione della spesa sociale e un aumento della precarietà e dell’outsourcing. Gli operatori minerari proteggevano i loro siti dall’esame etnografico, che rischiava di scoprire gli aspetti negativi e le rotture sociali del processo di riprivatizzazione e i conseguenti cambiamenti di proprietà nel settore. Seguirono quindi misure aziendali per controllare gli scienziati sociali. Come ha specificato Hertz e Imber (1995) con riferimento alla ricerca sul settore imprenditoriale in generale:
«Social-scientific study of business requires the most special kinds of introductions in order to establish confidence that the research will not undermine the organization’s competitive edge and goals. In its most extreme form, individual researchers may be asked to submit background checks. In less extreme circumstances, letters of entrée and personalistic ties are often essential» (ivi: x).
Meccanismi di protezione – come controlli dell’intero processo di ricerca dei ricercatori, lettere di presentazione, legami personali con i manager, accordi di riservatezza, sono alcune sfide di accesso al lavoro sul campo per i successori di ZCCM evidenziate da Straube. Queste pratiche di protezione aziendale contro gli scienziati sociali sono state sperimentate nella maggior parte delle compagnie minerarie dopo la riprivatizzazione. Tuttavia, i successori di ZCCM sono stati valutati diversamente dai politici e dall’opinione pubblica zambiana riguardo al loro segreto aziendale.
Straube porta l’esempio dell’etnografa Ching Kwan Lee (2017) che riuscì ad ottenere l’accesso al campo alle filiali della CNMC e a intervistare il loro top manager tra il 2008 e il 2012. Nessuno scienziato sociale era riuscito ad ottenere il permesso di ricerca e a svolgere ricerche etnografiche sul campo nelle miniere di rame gestite dallo Stato cinese o nei loro complessi residenziali sul Copperbelt. A Luanshya, nel giugno 1998, la filiale di China Nonferrous Metal Mining (Group) Corporation (CNMC) nel Copperbelt acquistò quote di ZCCM sulla miniera di Chambishi. Per condurre la sua ricerca etnografica, Lee non era in grado di ottenere direttamente l’accesso al sito minerario di Non-Ferrous China Africa (NFCA), che era una filiale della CNMC a Chambishi. La studiosa fece quindi domanda per un lavoro presso Chambishi Copper Smelter che costituiva un altro dei progetti di investimento della CNMC sul Copperbelt. Tuttavia, la sua ricerca “nascosta” venne scoperta durante un colloquio di lavoro dal segretario e direttore generale il quale venne a conoscenza di un articolo pubblicato dall’antropologa. Lee aveva pianificato di “inseguire” il capitale dello Stato cinese nelle miniere in Africa. Al contrario però lei stessa venne “inseguita” dai rappresentanti dell’azienda mineraria. Lee fu così costretta a rinunciare alle sue ricerche sulle miniere della CNMC e si concentrò sul settore edile in Zambia.
Quando Straube andò in Zambia, non esistevano procedure standardizzate per ottenerne l’accesso sul campo. Gli scienziati sociali continuavano a dipendere fortemente dai loro agganci con la gerarchia del potere locale. Queste condizioni contribuirono certamente alla mancanza di studio all’interno del settore estrattivo in Zambia. Lo studioso sostene però come queste impasse provochino lacune nelle ricerche antropologiche in contesti minerari di cui sempre più antropologi iniziano a parlarne (Gilberthorpe, Rajak 2017).
Caso di studio 3: I am anthropologist – But where is the field? On fieldwork, intimacy, and home
Lo studio di Anselma Gallinat (2023) riguarda il ruolo delle emozioni e un approccio antropologico verso l’intimità nel lavoro sul campo. Il suo studio pertanto esplora la questione di come l’intimità, possa entrare in gioco nell’antropologia domestica e come possa essere utilizzata in una situazione in cui il campo diventa inaccessibile a causa della pandemia di COVID-19. Per molto tempo, l’antropologia domestica ha costituito un ossimoro della disciplina. L’antropologia è stata a lungo condizionata dall’esplorazione di altre culture attraverso l’applicazione di strutture concettuali sviluppate nelle università occidentali. Pertanto, c’è stata una lunga permanenza dell’idea che la familiarità esistente con il proprio luogo di acculturazione avrebbe precluso la distanza analitica necessaria per un’esplorazione antropologica di successo (Jackson 1987). Negli ultimi anni però questi argomenti sono stati messi in discussione in molteplici modi.
All’indomani della diffusione del COVID-19, gli studiosi hanno osservato che il contesto della pandemia ha portato a un aumento di metodi etnografici virtuali, come interviste online, ricerca digitale (Mwambari et al. 2022; Giacomelli, Walker 2022), nonché al ricorso ad enti locali per raccogliere i dati (Baczko, Dorronsoro 2020). La letteratura disponibile ha incrementato, negli ultimi anni, le riflessioni sul modo in cui le risposte affettive del ricercatore possono informare, integrare o espandere il lavoro sul campo (Kuiper 2021). Tuttavia, Gallinat (2023) si interroga su come l’intimità e il significato di casa possano fornire risonanze che consentano ad un etnografo di cogliere il senso del campo quando viene escluso da esso. La studiosa non sostiene che possiamo fare a meno del lavoro etnografico, dell’immersione locale, e nemmeno afferma che i ricordi siano sufficienti a compensare la mancanza dell’“esserci”. Piuttosto, il suo contributo esplora come in un momento di lontananza forzata dal campo e di perdita di elaborazione, l’intimità abbia fatto emergere frammenti di memoria che sono venuti in soccorso quando sia il progetto di ricerca che la sua identità di antropologa sembravano in pericolo. Il suo lavoro quindi sprona a prestare una maggiore attenzione a tali emozioni, poiché esse entrano senza dubbio in gioco durante la raccolta dei dati e la produzione di conoscenza.
Il progetto che fa da sfondo al lavoro di Gallinat riguarda la questione di cosa potessero sapere i cittadini della Germania dell’Est sulla Stasi, Polizia di Sicurezza di Stato. Quest’ultima operava spesso in segreto. Molte ricerche hanno esplorato le strategie, le pratiche e le strutture che hanno consentito alla Stasi di osservare e opprimere ampie parti della società (Kowalczuk 2013). Il progetto di Gallinat “Knowing the Secret Police” ha però ribaltato la questione e ha cercato di esplorare, in quattro ambiti sociali, cosa è possibile sapere sulla Stasi. La studiosa si è concentrata sugli autori letterari, su contesti di lavoro, sui membri della resistenza antifascista del Terzo Reich e sulla Chiesa luterana tedesca. Il progetto di Gallinat era iniziato proprio da quest’ultimo ambito, quando, durante una telefonata nel 2015, suo padre le disse che la Chiesa luterana aveva raccolto informazioni sulle tattiche della Stasi e le aveva trasmesse. Suo padre poteva parlarne in quanto ex pastore ed ex direttore di un piccolo istituto di formazione continua per pastori nella provincia ecclesiastica della Sassonia. La Chiesa qui rivestiva un interesse accademico poiché esisteva in modo relativamente indipendente nella DDR, purché limitasse il suo lavoro alle questioni religiose. Questa posizione consentì alla Chiesa protestante di fornire spazi ai gruppi di opposizione che guidarono le manifestazioni di massa del 1989.
Il progetto di Gallinat era interdisciplinare poiché utilizzava una combinazione di ricerche d’archivio e interviste. Lo studio sulla Chiesa doveva inoltre essere un’etnografia storica. La pandemia scoppiò però proprio quando iniziò il suo lavoro sul campo. I ripetuti lockdown tra il 2020 e il 2021 fecero sì che la ricercatrice non potesse recarsi in Germania. A differenza di altri progetti (Berg et al. 2022), né le interviste né il lavoro d’archivio vennero spostati online e ripresero, con notevoli precauzioni, soltanto quando il blocco in Germania fu revocato. Nel 2020, Gallinat fu quindi costretta a far raccogliere le informazioni sulla rete religiosa a persone che erano in loco. Bloccata nel Regno Unito, la sua attenzione si concentrò nel frattempo sulla letteratura esistente che conteneva anche interviste ad ex chierici e auto-biografie, oltre che pubblicazioni di testi teologici e rapporti della leadership della Chiesa. Usufruì anche di cinque interviste pilota condotte nel 2017 effettuate appena prima dell’assegnazione della sovvenzione del suo progetto.
Nel 2018 e nel 2019 Gallinat perse entrambi i genitori. La sua famiglia, e soprattutto suo padre, fu sempre parte integrante dei suoi progetti di studio. La Chiesa toccava direttamente una parte intima della sua vita. Il focolare della sua infanzia era costituito da preghiere durante i pasti, decorazioni religiose, servizi domenicali, bibbie e libri teologici. Questo era il suo mondo che andava oltre gli obiettivi del suo progetto. Essendo cresciuta letteralmente nella Chiesa, sentiva di avere questa ricerca nelle ossa. Dopotutto, essere antropologo in qualsiasi contesto culturale significa sempre utilizzare in vari modi sé stessi. Il metodo di raccolta di dati attraverso l’osservazione partecipante significa che le informazioni viaggiano attraverso di noi in un modo molto più profondo che nelle interviste semi-strutturate o nelle ricerche tramite sondaggi. Osserviamo, ascoltiamo, ci uniamo, usciamo, chiacchieriamo, sperimentiamo e prendiamo nota di ciò che ricordiamo. Anche i nostri ricordi sono i nostri dati. A tal proposito, sostengono Stodulka et al. (2018) che lo strumento principale di raccolta di informazioni per un antropologo è il corpo-mente e il suo apparato sensoriale. Non esiste quindi metodologia che potrebbe essere più intima.
Sono trascorsi circa 40 anni da quando il volume curato da Jackson (1987) esplorò il concetto di “anthropology at home”. Il termine “native anthropology” ha ancora più anni. Sebbene siano termini che vengono usati come sinonimi, descrivono situazioni distinte. Quest’ultima si applicava quando un “nativo”, ossia un membro di un gruppo indigeno solitamente osservato dagli antropologi occidentali, si era formato, attraverso un’istruzione universitaria, in metodi antropologici e conduceva ricerche sui suoi compagni “nativi”. Il termine deriva dall’antropologia che precede Writing Culture (Clifford e Marcus 1986 ) e veniva usato per distinguere tra popolazioni indigene ed accademici occidentali il cui lavoro è stato possibile dal colonialismo. Il concetto di “anthropology at home” è invece diventato popolare negli anni ‘80 quando, a causa dei tagli ai finanziamenti all’istruzione superiore del Regno Unito, un numero crescente di antropologi iniziò a rivolgere il proprio sguardo antropologico alla società britannica (Rapport 2002). Nel suo volume Jackson (1987) afferma che l’antropologia in patria può essere utile solo se l’antropologo ha precedentemente svolto ricerche sul campo all’estero. In questo modo, sostiene lo studioso, si è più preparati al processo di distanziamento epistemologicamente necessario nella ricerca antropologica. Le riflessioni di Jackson sono quindi ancora ancorate ad una concezione dell’antropologia come esplorazione di “mondi altri”.
Negli ultimi trenta anni queste discussioni sono diventate più complesse. Numerosi autori hanno iniziato ad affermare l’impossibilità di conoscere tutti gli aspetti della nostra cultura. Tali riflessioni portarono a chiedersi fino a che punto un antropologo che lavora nella società di origine è effettivamente “at home”. Più recentemente però, le preoccupazioni sulla potenziale mancanza di obiettività nello svolgere la ricerca presso il contesto di origine dell’antropologo si son ridimensionate considerevolmente. L’internazionalizzazione accademica, il numero crescente di dottorati di ricerca, le ristrettezze dei finanziamenti nonché il cambiamento tecnologico e socio-culturale hanno fatto sì che coloro che svolgono ricerca nel proprio Paese, o che in qualche modo sono “nativi” del luogo in cui lavorano, sono cresciuti molto. In effetti, lavori recenti suggeriscono che, piuttosto che costituire un’esplorazione dell’Altro, l’antropologia si trova sempre più ad affrontare una «sfida del contemporaneo» (Dalsgaard 2013: 213).
Queste osservazioni si inseriscono nella crescente letteratura sulla svolta affettiva che vede il lavoro sul campo come performativo e come derivante da relazioni emergenti. In questa prospettiva, le emozioni contano come «embodied social communicators between anthropologists and their interlocutors» (Stodulka 2018: 520). Le emozioni possono quindi trasportare conoscenza. Parte di questa conoscenza riguarda le relazioni con gli interlocutori, che creano il percorso conoscitivo del lavoro sul campo. Riformulando le riflessioni di Bourdieu (2003) – dando un’enfasi sulla conoscenza e sulla percezione dei sensi (in modo simile Rosaldo 1989: 8) – il nostro corpo-mente incapsula una moltitudine di comprensioni sensoriali e concettuali, esperienze e sensi che si formano nel corso della nostra vita. Molti di questi fattori entrano quindi in gioco anche durante il lavoro sul campo.
Nonostante l’importanza di queste riflessioni, per Gallinat il problema risiedeva ancora nella sua impossibilità ad “esserci” nel campo durante il periodo di pandemia. Mentre nel 2020 si profilavano decisioni difficili riguardo al suo lasciare andare il lavoro etnografico, si chiedeva se il COVID-19 non l’avesse trasformata in un’antropologa “armchair”.
I tre casi di studio presentati descrivono, in vario modo, difficoltà di accesso al campo. Svolgere una ricerca etnografica è parte integrante dell’essere un antropologo. Tuttavia, nell’impossibilità di interagire con gli interlocutori, secondo i modelli canonici dell’antropologia, si sollevano granelli di esperienza che ci invitano a costruire nuove riflessioni e a non negare rievocazioni di emozioni personali che si collegano ad episodi di vita del ricercatore stesso. Intuizioni ed emozioni personali si annidano negli interstizi della conoscenza accademica. Il senso di sé quindi non suggerisce frammentazioni, ma piuttosto può costruire interpretazioni più complete che derivano dall’interrogazione delle nostre categorie concettuali, dalla loro decostruzione e dall’intimità che contrasta la preoccupazione di ritornare ad un antropologo “armchair”. Ciononostante, come scienziati sociali, si cerca di mantenere una prospettiva autocritica ricordandoci che tali intuizioni, pur essendo punti ricchi (Piasere 2007), costituiscono frammenti di esperienza. A loro volta però, tali approcci invitano a riflettere sull’utilità, sul ruolo e sul posto della conoscenza antropologica.
L’esplorazione dei tre casi di studio qui presentati dovrebbe far riflettere su quanto, man mano che aumenta l’impossibilità di accesso al campo, le nostre intuizioni devono farsi lucide e capaci di decostruire le premesse concettuali su cui l’antropologia, come disciplina sul campo, si basa. Se quindi come antropologi accettiamo che dentro di noi abbiamo intime percezioni ed emozioni, dobbiamo anche accettare che esse avranno sempre un ruolo nel nostro lavoro etnografico, sia che svolgiamo ricerche sul campo in patria o all’estero. Come sostiene Gallinat, le argomentazioni degli antropologi sono il risultato dell’esperienza personale che si aggrappa ai costrutti concettuali. I concetti non sono infatti semplicemente una fuga dalle nostre fantasie intellettuali e dalle nostre emozioni, ma appartengono al pensiero su ciò che il corpo-mente è arrivato a conoscere (Das 2017b).
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali. Ha pubblicato recentemente la monografia Esplorare valore e comprendere i limiti, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 3, Cisu editore (2022).
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