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La processione delle Torce a Sonnino: i fuochi di una tradizione viva

La processione notturna delle Torce sopra il paese di Sonnino

La processione notturna delle Torce sopra il paese di Sonnino

CIP

di Giuseppe Lattanzi, Nicola Martellozzo [*]

Introduzione 

Non è un caso che il principale museo di Sonnino sia stato chiamato “delle terre di confine”. Il piccolo comune della provincia di Latina si trova alle estreme propaggini dei Monti Ausoni, verso il Mar Tirreno (Lattanzi 1991: 94), e da secoli costituisce un territorio segnato da molteplici frontiere, su tutte quella tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie. Qui, soprattutto, ogni anno ha luogo una processione in cui gli antichi confini comunitari vengono ripercorsi alla luce delle torce, da cui questo evento trae il suo nome.

Anno dopo anno, la comunità sonninese riafferma se stessa e il proprio spazio, attraverso un rituale in cui troviamo sedimentate pratiche e simboli di epoche diverse ma parti integranti della storia del paese. Questo contributo si propone di avanzare alcune riflessioni in merito alla processione delle Torce, alla luce – è il caso di dirlo – dei significati che essa riveste per la comunità odierna. Paese di montagna con poco più di 7000 abitanti, Sonnino dimostra una vitalità sociale che trova espressione proprio nelle Torce. 

Il rito della ricognizione dei confini inizia ogni anno nel primo pomeriggio della vigilia della solennità dell’Ascensione, ma è preceduto da una celebrazione religiosa al mattino che si tiene nell’antica chiesa di San Michele Arcangelo situata nel borgo medievale (Lattanzi 1996: 78). Dopo il rito religioso, la benedizione e la consegna delle torce ai caporali, un folto gruppo di sonninesi lascia il paese e si dirige verso i confini del proprio territorio affrontando un lungo cammino che si conclude alle prime luci dell’alba del giorno seguente, dopo aver segnato di notte l’intero perimetro comunale. Sono guidati da quattro caporali, mentre molti uomini sono armati di fucile e sparano continuamente a salve. La presenza di fucilieri può apparire in contraddizione con una processione che attualmente riveste un forte significato religioso, ma in parte dell’Ottocento il territorio di Sonnino era interessato al fenomeno del brigantaggio. L’editto del cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato di Papa Pio VII, del 20 agosto 1817 stabiliva la perlustrazione armata dei confini comunali. In particolare «si formeranno immediatamente in ogni paese delle provincie di Marittima e Campagna dei distaccamenti de’ Cacciatori locali, comandati da uno de’ primi possidenti della stessa Comune per dare la caccia ai malviventi ritirati nelle macchie, e nelle Montagne» [1].

Particolare cura veniva dedicata alla scelta di colui che doveva comandare gli stessi Cacciatori. Costui «fra i migliori del primo Ceto, sarà scelto senza dimora da reverendi Parrochi, e dalle Magistrature insieme di cadauna Città o terra compresa nella Comarca un Individuo, il quale per la sua buona condotta, per la sua conosciuta prudenza, per la fermezza, pel suo coraggio, per la sua attitudine al maneggio delle Armi, e per i suoi lumi sia fra tutti il più idoneo a condurre, e ben dirigere la Forza dei Cacciatori» [2]. Queste prescrizioni sono presenti ancora oggi. Conoscendo personalmente da lungo tempo l’attuale comandante dei fucilieri, posso affermare che quanto è stato indicato nel 1817 è ancora in vigore [3]. La tradizione vuole che le munizioni da esplodere con i fucili siano preparate manualmente dagli stessi cacciatori nei mesi antecedenti la ricorrenza dell’Ascensione. Lungo tutto il percorso il corteo dei fedeli si fermerà più volte in luoghi dove sono avvenute morti violente. «Ad ogni stazione ci si inginocchia e si riprende il cammino solo dopo aver recitato un Pater, un’Ave, un Gloria ed un Requiem, e dopo il grido Evviva Maria! E gli spari dei fucilieri» (Lattanzi 1996: 81).

Mappa di Sonnino, in evidenza i due percorsi in cui si snoda la processione]

Mappa di Sonnino, in evidenza i due percorsi in cui si snoda la processione

La processione parte da piazza San Pietro, in prossimità di una delle porte della città medievale e procede compatta fino alle propaggini di monte Ceraso chiamato dialettalmente “La Cona” dove i pellegrini si dividono in due gruppi. I torciaroli della cosiddetta “via di sopra” percorrono i confini con i comuni di Monte San Biagio, Amaseno, fino a Roccasecca dei Volsci. Qui attendono che il sole tramonti. L’obiettivo è di spuntare con le torce accese di fronte a Sonnino, facendosi ben vedere da quanti si sono raccolti sulla piazza principale del paese: da lì tutti possono osservare la striscia di fuoco che avanza lungo il costone della formazione montuosa antistante detta “Le Serre” ed assistere all’impervia discesa verso Priverno. I torciaroli che percorrono la “via di sotto” seguono, invece, i confini con i comuni di Monte S. Biagio, Terracina, Pontinia e Priverno; ad osservare la discesa verso la contrada del Frasso ci sono gli abitanti della pianura pontina. Qui, lungo la costa della Traglia, i caporali avvertono con un “Chi sa salva sa salva” (chi si salva si salva) della difficoltà del percorso. Il ricongiungimento tra i due gruppi in contrada La Sassa sancisce la chiusura del cerchio e l’inizio della risalita verso il centro abitato di Sonnino (Lanni 2020: 96-116). 

«[…] La processione rientra nel paese. L’ingresso è fragoroso, scandito da una più partecipata recitazione delle litanie, che enfatizzano la già esasperata concitazione dei torciaroli, esausti e inebriati dalla stessa stanchezza, dai canti e dall’odore acre della polvere da sparo. Nel centro abitato chi dorme è svegliato da questa trionfale irruzione attraverso la Porta di Tocco, poiché i fucilieri non lesinano le ultime cartucce e gli spari rimbombano alti tra gli angusti e ripidi vicoli medievali» (Lattanzi 1995: 85).  

Le Torce di Sonnino: aspetti storici e rituali 

Non sappiamo molto sulle origini di Sonnino e la sua storia è piuttosto mal conosciuta. In ogni caso la presenza romana o persino preromana è accertata nel suo territorio, ma non esiste una documentazione sul borgo anteriore alla fine del X secolo. In questo periodo esisteva un nucleo abitato e non è difficile collegare la sua apparizione al processo di “incastellamento” in corso nello Stato della Chiesa (Toubert 1973). Il borgo fortificato sonninese era retto da una famiglia cavalleresca di origine longobarda, i Sompnino, meno noti dei loro omologhi Pagano di Ceprano, i Ceccano e i d’Aquino. Non sappiamo tuttavia se essi avessero esercitato un potere completo sul borgo, dal momento che questa era l’epoca delle consorterie feudali, un sistema dove un castello poteva essere diviso in quote tra diversi proprietari e il caso di Sonnino era certamente uno di questi. Comunque sia, il castrum de Sompnino è documentato nella bolla di Papa Silvestro III del 1000 che delimitava i limiti del dominio di Terracina e dalle successive fonti del XII e XIII secolo (Moroni 1842: 298).

Durante la prima metà del dodicesimo secolo, le terre delle province di Marittima e Campagna che formavano il confine meridionale dello Stato della Chiesa vissero momenti drammatici, contrassegnati da una assoluta incertezza sotto il profilo istituzionale e da una bellicosità esasperata dai continui cambiamenti di fronte (Caciorgna 2003: 258). Con il governo papale, spesso incapace di affermare la sua autorità e regolamentare il libero transito lungo la strada consolare Appia e i corsi d’acqua, le comunità continuarono le dispute territoriali e a confrontarsi a mano armata, finché il sangue versato non imponeva la stipula di una tregua e di un accordo. La sacralità e la intangibilità del territorio comunale venivano quindi sancite con l’apposizione di cippi lapidei, su cui restava incisa una croce. Si evidenziavano in tal modo veri e propri recinti, infranti i quali nulla poteva impedire la maledizione divina e la immediata punizione terrena. I patti ed ogni decisione che impegnavano la comunità si dovevano solennizzare in adunanze pubbliche, all’interno della chiesa madre o nella piazza principale. Poi, alla presenza degli emblemi del Comune e dei rappresentanti del clero regolare e di quello secolare, in qualità di garanti e testimoni, la popolazione intera sfilava a mano armata lungo i confini.

All’inizio del XIII secolo anche i Frangipane di Roma si consideravano signori di Sonnino e in un momento imprecisato nel corso del Duecento il castello è passato sotto la diretta autorità della Sede Apostolica. Infine con il Plebiscito del 2 ottobre 1870 la cittadinanza sonninese scelse di aderire al Regno d’Italia. In ogni caso il rito praticato dai sonninesi lungo il perimetro dei confini comunali ostentando le torce di cera vergine come vessillo identitario è documentato nelle spese del Comune sin dal Seicento. Addirittura nel 1872 nel bilancio del Comune di Sonnino (Categoria VIII Culti e Cimiteri) compaiono contributi per le spese dovute alle torce dell’Ascensione.

Lavorazione della cera vergine per la realizzazione delle torce]

Lavorazione della cera vergine per la realizzazione delle torce

Il rito delle Torce rientra senza dubbio tra i riti del fuoco, elemento centrale per i sonninesi in quanto esprime la rifondazione ciclica dello spazio, del tempo, della comunità e dei singoli individui. È il momento in cui la comunità si ritrova e si riappropria del suo spazio culturale. Il fuoco è utile e devastante, è santo e maledetto. Esso è forza trasformatrice per eccellenza, detiene il valore della purificazione: distrugge i mali e le colpe accumulate e difende dalle forze ambigue e pericolose. In questo contesto il rito si compone di sequenze significative. Come si accennava precedentemente nel mese di febbraio i cacciatori iniziano a fabbricare le cartucce per i loro fucili, ma non sono i soli a preparare l’evento. Lo stesso mese è anche quello del reperimento del lino grezzo e della cera vergine necessaria per le torce. Il lino si lava con la candeggina e una volta asciugato con l’utilizzo dell’arcolaio si ottengono i gomitoli di lino bianco detti “Pirie”. Una settimana prima dell’Ascensione utilizzando le “scarsette”, strumento tradizionale di canna per la produzione degli stoppini, si prepara l’anima di lino della torcia. Una volta fatta a pezzi la cera vergine viene fatta sciogliere in una casseruola. In questa viene calato il lino che si impregna della stessa cera, quindi viene stirato con un particolare strumento dotato di anello e messo ad asciugare. Raffreddandosi la cera si solidifica dando alle matasse la consistenza e la rigidità necessarie per poter essere legate con le altre. La torcia dei caporali, che condurranno i fedeli nelle impervie zone di montagna, è composta da quattro lunghe matasse di 150 cm. Queste imbevute di cera, unite insieme, formano una grande torcia. I quattro pezzi vengono tenuti insieme con l’utilizzo di cera vergine colata con un barattolo e quindi appesi a raffreddare. 

Vale la pena soffermarsi sul valore simbolico di questa sostanza, ottenuta fondendo la cera d’api con acqua calda, senza l’aggiunta di altre sostanze. Nei miti montani sull’Uomo selvatico, questo essere ambiguamente situato tra mondo umano e ferino conosce la tecnica per ottenere varie sostanze preziose dalla lavorazione del latte, tra cui la cera (Bonato 2019: 38); tuttavia si rifiuta di comunicarla agli uomini, che devono così ricorrere al lavoro delle api per ottenerla. In questo senso la cera vergine, come il miele, è una sostanza naturale che l’uomo trova “già pronta” per il proprio consumo, ma che proprio per questa sua condizione ambigua dev’essere trasformata culturalmente, ad esempio rimodellandola nella preparazione delle candele. Parafrasando il titolo della famosa opera di Lévi-Strauss (1966), a Sonnino si passa “dalla cera al fuoco”. Come vedremo, quest’ultimo elemento torna in tre differenti forme all’interno del rituale: come strumento per sciogliere e “addomesticare” la cera; come fonte di luce e comunicazione tra attori del rito e spettatori; come scintilla nell’innesco dei fucili.

Benedizione delle torce nella chiesa di S. Michele Arcangelo

Benedizione delle torce nella chiesa di S. Michele Arcangelo

La processione inizia con la benedizione di queste torce (Lattanzi 1996: 75-78).  Indubbiamente tale processione ridisegna ritualmente i confini dello spazio del Comune di Sonnino. Gli studiosi che si sono occupati dei rituali con camminata (parata, corteo, processione) ne hanno individuato diverse tipologie: il primo è la processione che, nel caso specifico di questo Comune, si svolge con cadenza settennale e venticinquennale in onore della Icona di Madonna Santissima delle Grazie (Manicone 1985). Essa si snoda tra le vie del paese fino a Monte di Pietà. La seconda ritualità con camminata che coinvolge i sonninesi è il pellegrinaggio al santuario della Santissima Trinità nel comune di Vallepietra. In questo caso esaudire un voto implica un viaggio con un «giro di boa» che segna la fine e un nuovo inizio. Nel Lazio meridionale sono presenti anche percorsi che mirano ad una meta come la via Francigena o Romea, che dall’Europa occidentale, in particolare dalla Francia, portavano i pellegrini fino a Roma e da qui verso la Puglia dove erano presenti gli imbarchi per la Terra Santa.

Sonnino era un punto importante di questo percorso perché rappresentava gli ultimi cento chilometri per chi era diretto a Roma o i primi cento per chi si allontanava dalla sede del papato per raggiungere Gerusalemme e il Santo Sepolcro. Lo scopo di questo pellegrinaggio era soprattutto purificatorio. Esistono infine i percorsi a circuito chiuso denominati Rogazioni; questi seguono un movimento che, trascurando i valori specifici della partenza e dell’arrivo, delimitano un ben determinato spazio territoriale. Introdotte in Europa dal Cristianesimo nel V-VI secolo, le Rogazioni erano riti che precedevano la festa dell’Ascensione, e constavano di processioni circumambulatorie del territorio comunitario con particolare riferimento ai campi coltivati. Durante il cammino si effettuavano soste in punti simbolici, mentre nell’ultima stazione si celebrava la Messa. Lo scopo delle Rogazioni era quello di invocare attraverso le Litanie la benedizione divina sul lavoro e sui prodotti della terra. Le Rogazioni avevano origine negli Ambarvalia praticati nella Roma antica (Lattanzi 1996: 65), riti purificatori che si tenevano alla fine di maggio in una località che, in periodo regio, indicava il confine della città; analogo è lo scopo di queste due pratiche cerimoniali, ovvero propiziare la fertilità dei campi. Anche se non tutti gli studiosi concordano (Caciorgna 2003: 258), le Torce appartengono con buona ragione a questa tipologia di riti, e vale per esse quanto Lombardi Satriani ha scritto riguardo le processioni quaresimali: «attraverso l’itinerario processionale si realizza una sacralizzazione e una riappropriazione simbolica dello spazio che lo libera dalla sua rischiosità immanente» (Lombardi Satriani e Meligrana 1996: 80-81).

546-3Certamente le Torce traggono origine dalla necessità di difendere il proprio territorio dai “mali” che lo affliggevano, alcuni di natura strettamente politica. Tra questi spicca il contenzioso con Priverno in merito alla definizione dei confini territoriali e il cosiddetto “tributo di San Pietro”: con la Bolla di Gregorio IX del 13 luglio 1227 si stabilivano i confini fluviali tra Sonnino e Priverno (Marocco 1934: 28). Il fiume Amaseno, confine naturale, a causa del suo percorso variabile alimentava contenziosi territoriali. Una disputa durata almeno sei secoli prevedeva il versamento da parte dei sonninesi di un tributo di 11 scudi e 62 baj e una torcia di cera zaura (vergine) da versarsi ai privernati il 29 giugno, festa del Santo Patrono, di ogni anno [4]. Fin dal Basso Medioevo era frequente, infatti, che le comunità versassero un tributo annuale – sotto forma di drappi preziosi e ceri – alla chiesa del patrono protettore della città dominatrice o verso cui vigeva un accordo; un segno tangibile di devozione religiosa e al contempo di negoziazione politica (Moroni 1951: 53).

Il tema dell’allontanamento dei nemici tramite la circumambulazione è particolarmente presente nelle Torce. Guerre territoriali, rivalità paesane, vicende banditesche sono riferimenti alla cultura e storia locale. La presenza dei fucilieri è connessa alla necessità di allontanare un nemico contro cui far valere la forza di una barriera eretta definendo lo spazio territoriale. A questo proposito vale la pena di sottolineare, ancora una volta, l’importanza dell’Editto del 20 agosto del 1817 del Segretario di Stato Cardinal Consalvi in cui si fa esplicito riferimento alla fondamentale funzione dei cacciatori per la difesa del territorio. Per questo motivo la presenza dei fucilieri è una caratteristica specifica del rito.

Ridisegnare i confini di uno spazio con un rito circumambulatorio, compiendo un percorso a circuito chiuso com’è quello delle Torce, significa, quindi, appropriarsi di quello spazio sottraendolo all’indistinto, differenziandolo rispetto ad altro, così da assegnargli il valore di universo ordinato per l’intera collettività che lo abita o, in una parola, il senso di “mondo”. Come già anticipato, dal punto di vista tipologico e calendariale le Torce possono essere riferite anzitutto alle Rogazioni; sia che si effettuassero intorno ai campi o lungo i confini della parrocchia, lo scopo delle Rogazioni era sempre quello di invocare mediante suppliche – le litanie minori – la benedizione sul lavoro e sui prodotti della terra. Il carattere agrario, genericamente propiziatorio di questi riti, ha spinto diversi autori (Ristuccia 2018: 64-70; Forni 2001; Cattabiani 1998) a coglierne gli antecedenti in culti agrari pagani; su tutti, i già citati Ambarvalia romani, legati al famoso frammento del Carmen Arvale riportato in una lapide scoperta nel 1778: 

enos Lases iuvate
neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
semunis alterni advocapit conctos
enos Marmor iuvato
triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe
(Mommsen 1863: 9-10)
Lari aiutateci, 
non permettere, Marte, che rovina
cada su molti. 
Sii sazio, crudele Marte.
Balza oltre la soglia. Rimani lì.
Invocate a turno tutti gli dèi delle sementi.
Aiutaci Marte.
Trionfo, trionfo, trionfo, trionfo, trionfo
riproduzione del Carmen Arvale, conservato al Museo della Civiltà Romana]

Riproduzione del Carmen Arvale, conservato al Museo della Civiltà Romana]

Secondo Cattabiani, Ambarvalia e Rogazioni sono ambedue «circumambulazioni lungo il perimetro delle […] terre coltivabili di una città, con la funzione di rendere il territorio compreso in esso invalicabile sia dai nemici umani, sia dalle potenze malefiche che provocano malattie» (Cattabiani 1988: 231). A questo ordine di riti, le lustrationes, appartenevano le lustratio pagi (purificazione dei campi coltivati), processione intorno ai confini di un territorio agricolo oppure l’amburbium, intorno alle mura della città. Caratteristica comune di questi era l’uso di mezzi rituali quali l’acqua o il fuoco (Lattanzi 1996: 126). La particolare combinazione sonora che marca in modo singolare l’evento, rendendolo riconoscibile a tutte le comunità vicine, è composta dall’esecuzione ripetitiva delle Litanie Lauretane e dalle fragorose e reiterate scariche di spari da parte dei fucilieri che affiancano i caporali. L’uso delle armi da fuoco è connesso alla funzione di marcare il territorio, per mostrare la propria presenza e potenza. Lo sparo diviene in questo caso un efficace strumento di comunicazione. La processione, di giorno e di notte, è “sentita” attraverso le scariche di fucile che permettono di avvertire a distanza la presenza dei torciaroli.

È grazie al fuoco, e alla scia luminosa che i torciaroli creano al calar del sole, che si instaura la comunicazione visiva tra i partecipanti al rito e coloro che osservano la processione dai centri abitati. In questo senso, la notte è lo schermo necessario per instaurare tale rapporto tra attori e spettatori: le fiaccole, accese col sopraggiungere del buio, permettono a tutti di vedere la peregrinazione lungo i confini comunali; con esse i torciaroli comunicano alla loro comunità che il rito si sta svolgendo, che il confine è ripercorso e riconquistato. Le quattro torce di cera zaura (ossia, vergine) sono l’oggetto-simbolo della processione. Realizzate a mano dagli stessi caporali, non vengono accese durante il pellegrinaggio. I fucilieri le fanno a pezzi, quelli di sotto a Monte Romano, quelli di sopra al confine con Roccasecca in contrada La Sassa, e le distribuiscono agli abitanti. Una volta tagliate entrano nelle case dei sonninesi per essere accese, recitando preghiere, in particolari circostanze critiche come tempeste o temporali. La cera benedetta bruciata dal singolo abitante o dalla singola famiglia permette di riattualizzare simbolicamente il rito vissuto collettivamente, ricollegandosi al precedente atto della circumambulazione con il suo tracciare un cerchio di difesa intorno alle case, agli animali, ai luoghi e alle persone da purificare. 

71mdf6xomkl-_ac_uf10001000_ql80_Il valore delle Torce per l’odierna comunità sonninese 

Benché non manchino gli studi in merito (Lattanzi 1996, 2008; Lanni 2020), non è stata ancora organizzata una vera e propria ricerca per comprendere il valore attuale delle Torce. La comunità sonninese le percepisce come cosa propria, ma non sempre riesce a esplicitarne i valori rituali ed i significati profondi. «Le torce sono le Torce» si sente ripetere quasi a sottolineare un vissuto viscerale di cui non sempre si comprende il senso. Le Torce nascono, sono e rimangono un tipo di pratica “introversiva”, ovvero «orientata verso i membri stessi della comunità e per loro esplicitamente pensata» (Zanini 2013: 4), come d’altronde è lecito aspettarsi da un rituale rifondativo profondamente radicato nel territorio fisico. Ciò tuttavia non significa che esso sia rimasto sempre uguale nel tempo: già la sola analisi dei suoi principali aspetti simbolici e performativi mostra la lunga stratificazione storica di significati, valori e pratiche. In tempi non molto distanti come gli anni Settanta la processione era praticata come rito di espiazione o di risoluzione di un voto. Alcune donne affrontavano il percorso scalze per sottolineare la sofferenza, e la preghiera delle litanie lauretane era molto più incalzante e sentita. In una parola, la modalità di partecipazione era diversa, basata su una separazione netta tra uomini e donne: «le femmene annante e gl’ommini areto” (Le donne avanti e gli uomini dietro), in questo modo i caporali avvertivano i torciaroli che il percorso doveva compiersi secondo criteri strettamente religiosi. Fece scandalo la definizione di passeggiata ecologica tra i monti data da alcuni organi di stampa. La fatica del cammino purificava il corpo e dava un senso compiuto alla onnipresente preghiera. Attualmente l’elemento trainante è il senso di percorrere una notte nella storia della comunità.

Altro grande elemento di diversità rispetto al passato è la presenza femminile sia tra i caporali che tra i fucilieri. Sebbene un tempo il rito fosse compiuto esclusivamente da uomini, la presenza di cacciatrici o di caporalesse non è in contraddizione con la storia secolare delle Torce, perché in realtà ogni anno questa processione cambia in qualche suo aspetto, e per un motivo molto semplice: sono una cosa viva. Non a caso, Vittorio Lanternari prendeva proprio la processione di Sonnino come esempio della «ambivalenza di significati e funzioni del rito, visto nella sua potenzialità di convalida forte di tratti tradizionali e insieme nel suo potere di solenne inaugurazione di significati nuovi storicamente determinati» (Lanternari 1997: 253). Il rituale delle Torce non è, dunque, una riproduzione nostalgica del passato, bensì un laboratorio performativo in cui vengono prodotti ed espressi nuovi valori, aggiornati al contemporaneo e, sempre secondo Lanternari, «indipendenti da qualsiasi base mitica» (ivi: 253).

La processione notturna delle Torce sopra il paese di Sonnino

La processione notturna delle Torce sopra il paese di Sonnino

Sono i sonninesi e le sonninesi a compiere il rito circumambulatorio, e lo fanno attraverso una passione e una scelta personale che li porta ad essere se stessi nella notte alla luce del fuoco, quasi a sottolineare un collegamento tra il presente e il passato in una dimensione unica e irripetibile. Chi affronta il cammino, oggi lo fa con lo spirito di colui che mette in gioco se stesso contro la fatica, affascinato, però, dal paesaggio e dalle storie che in esso si sono vissute. Il mito dei briganti sopravvive assieme ai racconti di fatti di sangue in un contesto palpitante di emozioni e carico di ricordi che gli anziani torciaroli trasmettono ai sempre più numerosi giovani. Il fatto identitario oggi è forte al punto che non ci si può definire sonninesi senza aver superato la prova delle Torce. E così anche la tradizione di caporali o fucilieri esclusivamente uomini può essere rotta senza traumi, perché questa rappresenta la continuità su cui si è fondata la secolare storia della notte dell’Ascensione. Sono i padri che insegnano alle figlie come preparare le cartucce per il fucile ed è il padre che consegna alla figlia la responsabilità della conduzione del rito benedetta addirittura dal Vescovo di Latina: è il caso di Agnese Lanni, succeduta al padre Francesco dopo tre decenni diventando la prima caporalessa, e che inoltre ha dedicato la propria tesi di laurea proprio alle Torce del suo paese (Lanni 2020).

Più che mai paiono adatte le parole del compositore Gustav Mahler, per cui «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri». I sonninesi, in questo, si stanno dimostrando custodi attenti del fuoco delle loro torce, e soprattutto capaci di non congelare questa tradizione viva in una forma definitiva, e pertanto incapace di relazionarsi alla storia e ai valori in cambiamento della comunità. Oggi il nemico da cui difendere i confini di Sonnino non è più il paese vicino, ma l’oblio e la velocità con cui tutto passa. Immobilizzare la tradizione, cristallizzarla attraverso pratiche di patrimonializzazione, è una delle reazioni possibili per rispondere al cambiamento. Più difficile, ma anche più coerente, è la scelta della comunità sonninese, di accogliere e accompagnare queste trasformazioni, lì tra le terre di confine. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
[*] L’elaborazione del testo e la scrittura di buona parte di esso sono da attribuire a Giuseppe Lattanzi, mentre Martellozzo si è occupato della revisione, di alcuni paragrafi di dettaglio, e dei riferimenti bibliografici.
Note
[1] Archivio di Stato di Roma, Commissione Speciale repressione Brigantaggio, Bandi, busta 168, Editto 20 agosto 1817, art.1 e 7.
[2] Archivio di Stato di Roma, Commissione Speciale Repressione Brigantaggio, Regolamento per l’attivazione del sistema dè Cacciatori contro il brigantaggio in conformità degli editti pubblicati, Bandi, busta 175.
[3] Dei due autori, qui è Giuseppe Lattanzi ad esprimersi.
[4] Archivio di Stato di Frosinone, Delegazione Apostolica, Lettera del Governatore di Priverno al Delegato Apostolico del 17 luglio 1828, Busta 1262, Tit. VI, f. 3307. 
Riferimenti bibliografici 
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Cattabiani, Alfredo, 1988, Calendario, Milano: Rusconi. 
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Giuseppe Lattanzi, svolge la sua opera di ricerca nel settore della storia sociale. Ha pubblicato saggi sulla storia della bonifica della campagna romana e sugli scavi archeologici dell’Istituto Svedese di Studi Classici nel comune di Blera (VT). Attualmente si occupa di antropologia storica dirigendo dal 2014 il Museo delle Terre di Confine di Sonnino (LT). In questo ambito è Socio Fondatore e Consigliere dell’Associazione Museo del Tevere ed ha redatto il progetto di massima di tale museo. Nel 2023 ha pubblicato Garibaldi e il Tevere. L’ultima battaglia del Generale, Palombi Editori. Coniugando studi e passione sportiva, nel quadriennio olimpico 2012/2016 è stato Addetto Stampa della Federazione Italiana Canottaggio. 
Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT). Ha pubblicato recentemente la monografia Traduzioni del potere, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 2, Cisu editore (2022).

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