CIP
di Sandra Ferracuti
Su invito di Pietro Clemente e Mario Turci, in vista del convegno Ci sono case che sono musei. Ci sono musei che sono case (Museo Ettore Guatelli, 20-21 ottobre 2023) sono stata insieme ad altri chiamata a riflettere sulle possibili relazioni immaginative tra ‘museo’ e ‘casa’. Tra le suggestioni che hanno a suo tempo condiviso con noi è la seguente: «in cosa ci aiuta a pensare il ruolo delle case quando diventano musei e dei musei quando diventano case?». La mia più recente, intensa e intensiva esperienza museale è stata quella dei cinque anni durante i quali sono stata responsabile del Dipartimento Africa del museo etnologico Linden-Museum Stuttgart (gennaio 2016 – ottobre 2020). In questi primi anni di ritorno in Italia dopo quest’esperienza ‘di frontiera’ (per un’antropologa abituata, sì, a ragionare sui musei e con i musei ma più ‘da fuori’ che non ‘da dentro’), la sto pezzettino per pezzettino rivedendo, ragionandoci in una varietà di occasioni e modi diversi in risposta a stimoli, come quello che mi ha raggiunto da Ozzano Taro, che sono piuttosto diversi da quelli che mi raggiungevano mentre lavoravo al museo di Stoccarda. E il caso che voglio condividere in questo quadro è quello dei musei (e delle collezioni: quelle etnologiche di matrice coloniale) che non diventano case.
Il mio arrivo in Germania nelle vesti di curatrice ha di pochi mesi preceduto il momento in cui, verso la metà del 2016, la sfera pubblica tedesca si è bruscamente ‘svegliata’ alla violenza della propria storia coloniale e ha iniziato a vedere, nelle collezioni come quella di cui ero responsabile, non più (o non più solo) un insieme di “capolavori” e “testimonianze culturali” provenienti da “terre lontane”, bensì una «eredità difficile» [1], o, per dirla con le parole, molto efficaci, di Ciraj Rassool, le «testimonianze di un crimine» [2]. Un crimine che in Germania risuona pesantemente con quello della Shoah, soprattutto a chi guardi al ‘problema’ a partire dai circa quattrocento oggetti acquisiti per la collezione stoccardese di von Linden nell’attuale Namibia tra il 1899 e il 1917: il periodo della «Africa sud-occidentale tedesca» durante il quale le truppe di occupazione consumarono massacri che portarono alla quasi totale scomparsa delle popolazioni nama ed herero. Durante la guerra 1904-1907, per sedare la loro ribellione su ordine del Kaiser Guglielmo II, il generale Lothar Von Trotha (1848-1920), comandante delle truppe coloniali, emise uno specifico ordine di sterminio della popolazione herero [3] che oggi qualifica il conflitto in termini di genocidio, per riconoscimento dello stesso governo tedesco [4].
Per il progetto di ricerca sulle “eredità difficili” presenti nelle collezioni del Linden-Museum Stuttgart che condividevamo con l’Università di Tübingen, Gesa Grimme, a partire dall’ottobre del 2016 e fino al marzo del 2018 è stata incaricata del primo lavoro di ricerca sulla provenienza degli oggetti acquisiti nei territori degli attuali Camerun, Namibia e Arcipelago di Bismarck durante il periodo delle occupazioni tedesche degli stessi. Poco prima di consegnare la sua relazione conclusiva [5], durante un incontro di laboratorio tra i membri del gruppo di ricerca ci presentò per la prima volta i suoi risultati. Si soffermò in particolare su uno dei diciassette oggetti per la cui acquisizione aveva stabilito un’incontrovertibile connessione con le azioni belliche. Si tratta di una collana composta di piccole rondelle di uovo di struzzo prelevata in Namibia (dove collane di questo tipo erano indossate tanto da donne quanto da uomini con funzione estetica e come segni di distinzione ed erano spesso oggetto di trasmissione tra generazioni) che il tenente Buttlar-Brandenfels aveva spedito a von Linden nel 1904 (Grimme 2018: 27). La didascalia originale così descrive il contesto della sua “acquisizione”: «einer Frau, welche während des Gefechts von Otjihinamaparero am 25. Februar 04 durch eine Granate getötet wurde, abgenommen» [presa da una donna uccisa da una granata durante la battaglia di Otjihinamaparero, il 25 febbraio 1904] (ibidem).
Avevo recentemente risposto a una call for papers per la conferenza internazionale dal titolo The Past, Present and Future of Namibian Heritage (University of Namibia – University of Basel – Museum Association of Namibia) che si sarebbe tenuta a Windhoek (capitale della Namibia) tra il 28 e il 30 agosto 2018 [6]. Con una presentazione dal titolo Does Colonial Heritage Have a Future? mi apprestavo a condividere con i partecipanti – tra cui sapevo essere i rappresentanti di associazioni culturali e attivisti herero e nama – la collezione di oggetti provenienti dalla Namibia che erano conservati a Stoccarda e il concept per la mostra permanente che avremmo inaugurato nel marzo del 2019 [7], con un focus sul ‘ruolo’ che avevo in mente di assegnare alla collana in quel progetto. Unico oggetto proveniente dalla Namibia in mostra, la collana si apprestava a farsi testimonianza, sul modello dell’uso fatto diffusamente nei memoriali della Shoah degli oggetti che erano stati in contatto con i corpi delle vittime, di quelle delle occupazioni coloniali europee nel continente africano. Negli stessi giorni del convegno, a Windhoek, ho anche assistito alle cerimonie ufficiali associate alla terza fase di un processo di rimpatrio di resti umani ossei (soprattutto crani, che erano stati prelevati per farsi materia, in Europa, di sperimentazioni eugenetiche e operazioni tassonomiche pseudoscientifiche d’impianto razzista) che era iniziato nel 2011 (si veda Kössler 2021). Questo il contesto della mia prima visita in Namibia.
Non lo sapevo, allora, ma sarei tornata a Windhoek l’anno successivo per partecipare a un’altra conferenza, Museum Conversations (Goethe-Institut Namibia e University of Namibia, Windhoek, 18-20 settembre 2019) [8], che questa volta si svolgeva in seguito al primo rimpatrio di “oggetti culturali” mai effettuato dal Linden-Museum Stuttgart. Si trattava di una copia in lingua nama del Nuovo Testamento e di un frustino che erano appartenuti al capitano Hendrik Witbooi (ca. 1834-1905) che, al momento della sua morte, era a capo dell’esercito nama in rivolta contro le truppe di occupazione coloniale. La proprietà del capitano Witbooi era stata inviata a von Linden per la sua collezione nel 1902 da Paul Wassmannsdorf (un membro dell’amministrazione coloniale tedesca). Era stata prelevata dagli alloggi del capitano durante il massacro di Hornkranz (12 aprile 1893), dove Witbooi aveva stabilito il suo principale centro operativo. Quel giorno, almeno 80 persone, per lo più donne e bambini, furono uccise dall’esercito coloniale.
A quanto mi risulta, già nel 2013 il governo del Baden-Württemberg aveva avviato un dialogo formale in tema di rimpatrio con l’Ambasciatore della Namibia in Germania e con lo Stato della Namibia in merito al caso della copia del Nuovo Testamento. Ho recentemente appreso da un articolo di Reinhart Kössler (2019) sul processo di rimpatrio (che sarebbe avvenuto nel febbraio del 2019; cfr. Ferracuti 2023b) che il suo primo germoglio potrebbe essere stato la pubblicazione di un’immagine del volume, insieme a chiare informazioni sulla sua origine, nel catalogo associato a una mostra realizzata nel 2007 da Hermann Forkl, in quegli anni e fino al 2014 responsabile delle collezioni africane al Linden-Museum (Forkl 2007).
In quell’occasione, a quanto pare, sia il volume che il frustino (inclusi nell’esposizione) riemersero per la prima volta dai depositi. Tuttavia, il momento cruciale di accelerazione del processo di rimpatrio, per l’aumento della vivacità e dell’ampiezza del dibattito pubblico che ne derivò, fu la sua inclusione, come prestito dal museo stoccardese, tra gli oggetti esposti a Berlino nella prima mostra sul colonialismo tedesco presentata al Museo di Storia della Germania (Deutscher Kolonialismus: Fragmente seiner Geschichte und Gegenwart, DHM, ottobre 2016 – maggio 2017). Questa mostra veniva infatti inaugurata in un momento di grande visibilità pubblica delle proteste herero e nama per il riconoscimento del genocidio e il corrispondente avvio di un processo di “riparazione” da parte del governo centrale tedesco. Una dimostrazione della diaspora namibiana in Germania non mancò, infatti, in occasione della sua stessa inaugurazione.
Ma torniamo a Museum Conversations (settembre 2019), a rimpatrio effettuato. In quell’occasione ero stata invitata a presenziare in vece della direttrice del museo, Inés de Castro, che a sua volta era stata invitata a sostituire la prima destinataria dell’invito: Petra Olschowski, all’epoca Segretaria di Stato del governo del Baden-Württemberg. Mi sono così trovata a rappresentare, anche stando alle questioni che mi sono state poste da molti (soprattutto durante conversazioni informali), un “punto di vista tedesco” sulle iniziative che avrebbero potuto far seguito a quell’iniziativa: da ulteriori rimpatri a possibili compensazioni economiche, al destino delle terre namibiane ancora in possesso dei discendenti di proprietari europei che li avevano acquisiti in epoca coloniale o di gruppi egemonici che, data l’esigua consistenza numerica nama ed herero, ne ‘conservavano’ la subalternità nella nazione indipendente, e così via. Di certo, e non solo dal punto di vista degli attivisti che, dalla diaspora (soprattutto in Europa e negli Stati Uniti), davano vita già da tempo a proteste legate al riconoscimento del genocidio, ma anche da quello espresso dalle autorità politiche competenti per il Baden-Württemberg e il governo centrale tedesco, quel primo rimpatrio non poteva essere che l’inizio [9] di un lungo difficile processo per la “restituzione” di oggetti, sì, ma anche di corpi, dignità e risorse.
Per parte mia, per la conferenza, in un intervento intitolato Looking for Home. “Becoming” Museum Objects as New Citizens, avevo messo insieme delle note di sintesi di alcuni pensieri in forma di metafora che avevano a che fare con un classico della letteratura antropologica: la struttura del rito di passaggio secondo Arnold van Gennep (1909). Immaginavo gli oggetti namibiani di ritorno dopo un processo di “separazione” che li aveva rimossi dal flusso della loro precedente vita sociale e una lunga fase di “transizione”, o “liminale”, durante la quale avevano sperimentato una condizione affatto peculiare, intermedia, e avevano sofferto di prove finalizzate a equipaggiarli delle nuove competenze e capacità ritenute necessarie per sostenere il nuovo status che la loro “riaggregazione” avrebbe certificato, attivandone il nuovo ruolo nella sfera pubblica. A ridosso della call ozzanese, mi tornano a mente anche le “case nel bosco” come riferimento fiabistico al periodo liminale in Vladimir Propp (1949), che ha assimilato la struttura dei racconti di fate a quella dei riti di iniziazione allo status di adulti.
Mi trovo, così, ad associare la (spesso violenta) acquisizione di “oggetti” simili al frustino e il volume di Witbooi e la loro forzata integrazione nella categoria-collezione “etnologica” all’esperienza di Hänsel e Gretel nella casa della strega. Le trasformazioni che la fase liminale nel museo ha imposto agli oggetti che appartenevano al capitano sono ‘certificate’ dai segni che questa esperienza ha impresso sui loro ‘corpi’ e gli stessi segni indicano di come si trovassero nelle grinfie di una (collezione etno-logica) “matrigna”.
Il loro “passaggio” forzato da proprietà privata e familiare a ‘bottino’ è stato ritualmente sancito dalla serie di passaggi canonici che hanno certificato la loro nuova identità di specimine museali [10]. Tra questi, l’impressione a inchiostro dei numeri di inventario e il timbro della biblioteca del museo sulle prime pagine del Nuovo Testamento – che hanno dato inizio al lungo periodo liminale che ha fatto seguito alla loro “separazione” dalla vita sociale originaria. Sul frustino, come per gli altri oggetti acquisiti nel periodo delle occupazioni coloniali, non è solo il numero di inventario a sancire la trasformazione ma anche il nome del ‘collezionista’ e l’attribuzione etnica (anch’essi impressi a inchiostro sul corpo dell’oggetto). In collezioni come questa, queste nuove ‘attribuzioni’ hanno di fatto ‘sostituito’ i nomi e le identità delle persone a cui gli oggetti precedentemente appartenevano e le denominazioni delle organizzazioni politiche nella cui (e per la cui) storia persone come Witbooi si muovevano.
Così, il frustino di Witbooi, era diventato un frustino «ottentotto»: una denominazione etnica offensiva creata e diffusa in Europa. Così si operavano, da un lato, la de-umanizzazione dei proprietari e, dall’altro, la rimozione della storia politica dei territori occupati e l’oggetto si faceva portatore della prospettiva ‘culturalista’, etno-logica, appunto, che andava costruendo la distinzione sociale dei collezionisti europei: questo il principale nuovo ruolo che questi oggetti erano stati equipaggiati per svolgere nella sfera pubblica europea durante le procedure di ‘iniziazione’ museal-etnologiche a cavallo tra Ottocento e Novecento. Negli anni Duemila, molti di questi oggetti sono diventati “testimonianze di un crimine” nella sfera pubblica globale e dalle collezioni matrigne stanno riuscendo a scappare [11]. Quali cerimonie e quali contesti di riaggregazione li attendano ora, dopo aver attraversato le ‘peripezie’ di cui portano i segni sul ‘corpo’, non è certamente una questione trascurabile.
Per il caso delle collezioni namibiane ‘nella diaspora’, ho condiviso riflessioni in questo senso soprattutto con Nzila Marina Libanda-Mubusisi, mia omologa di grado superiore (Chief Curator) per le collezioni del Museo Nazionale della Namibia afferenti alle scienze sociali, che comprendono anche collezioni etno-logiche di origine e “natura matrigna” coloniale. Sul destino, a casa, delle persone e degli oggetti rimpatriati ho ragionato con lei a partire dai nostri incontri a Stoccarda (aprile-maggio 2019) che hanno fatto seguito alla mia prima visita a Windhoek (quando la conobbi) e all’avvio di un progetto di ricerca e interpretazione collaborativa nato nel 2019 e ancora in corso.
Si tratta del progetto With Namibia: Engaging the Past, Sharing the Future [12] che il dolorosamente compianto Jeremy Silvester (1962 – 2021) [13] (MAN – Museums Association of Namibia) e la sottoscritta avevamo ideato nel 2018 per il Linden-Museum su finanziamento del Ministero per la ricerca, l’arte e la scienza del Baden-Württemberg. I miei incontri con Marina erano finalizzati a condividere informazioni e idee sulla sostanza e il futuro della collezione stoccardese di oggetti namibiani. Questi nostri incontri, naturalmente, andavano oltre questioni riguardanti “le cose del passato” e trovavano la loro fuga prospettica nelle questioni che sarebbero state sollevate a Museum Conversations e che riguardavano le persone, il presente e il futuro.
“Non è il loro posto”, mi sussurrò un giorno Marina, addolorata. E si riferiva ai resti umani che erano stati rimpatriati dalla Germania e che in quel momento si trovavano nei depositi del museo nazionale (si veda Andratschke – Libanda-Mubusisi 2023). Non solo era difficile comprendere come si sarebbe potuto garantire un riposo adeguato a quelle persone, di cui non si erano conservate informazioni biografiche, e pace ai loro antenati e discendenti a cui erano stati sottratti. Sfuggiti dalla casa di una “matrigna” in Germania, si erano ritrovati in quella di una sua omologa in Namibia. Il museo nazionale, sì, era a Windhoek ma restava, a causa della sua matrice coloniale, in un certo senso “lo stesso museo”. E, per quanto il caso del frustino e del Nuovo Testamento non sia affatto paragonabile al trauma storico incorporato e incessantemente riprodotto nei i resti umani “in cerca di casa” che stanno tornando in Namibia, neanche quello degli oggetti appartenuti al capitano Witbooi sembra un caso “risolto”.
Non solo gli oggetti portano impressi i segni del loro trattamento in Europa e anche le tracce dei trattamenti per la loro conservazione in uso nel primo Novecento, che sono tossici per gli esseri umani. Simbolicamente e concretamente “avvelenati”, il loro status resta anche controverso per quanto riguarda la loro proprietà, contesa tra diverse linee di discendenza diretta dal capitano e con la nazione (su questo si veda Kössler 2019). La distinzione terminologica tra «restituzione» e «rimpatrio» che si fa in questi casi richiama proprio questo dilemma [14], che deriva dalle trasformazioni politiche che hanno fatto seguito alle occupazioni coloniali. Entità politiche sradicate in quel periodo non possono, oggi, che indicarsi nei termini apolitici e vaghi di “comunità” (una delle tradizioni contemporanee del termine “etnia”).
Lo status di questi oggetti in Namibia, insomma, ci appare nuovamente “liminale”. Non solo dal punto di vista politico, economico, del diritto e della proprietà terriera ma anche dal punto di vista antropologico-culturale il loro rimpatrio non sembra essere che un inizio. In questa nuova fase di transizione, attività giocate sul piano di una loro re-politicizzazione, questa volta, in termini ‘interni’ alla Repubblica namibiana (ove le popolazioni herero e nama sono minoranze subalterne) si svolgono parallelamente a quelle della loro re-umanizzazione.
Se dal museo namibiano, questi oggetti potranno agire ed essere agiti in termini politici in modo piuttosto simile a quello fatto del museo ai fini della propaganda in Europa e altrove nel mondo, nel cercare la strada verso un museo-casa, qui potrebbero anche ‘costruirla’, mettendo la qualità di testimonianza che hanno “guadagnato” nel museo coloniale al servizio della trasformazione dell’idea stessa di museo. Per noi antropologhe e museologi, continuare a seguire e, qualora sia possibile e ben accetto, accompagnare il lungo e complesso percorso di ‘ritorno’ di oggetti come questi dalle macchine museal-enologiche europee [15] sta dentro, in primis, alle nostre responsabilità di discendenti dirette di coloro che le hanno costruite e abitate. In secondo luogo, potremmo da questi processi antropo-logici di re-umanizzazione, anche imparare.
Me lo ha confermato il documentario di Elena Shilling e Saitabao Kaiyare, If Objects Could Speak (2019) [16], incentrato sul viaggio di ritorno (virtuale) in Kenya di un oggetto conservato dal 1903 (ma, per quanto ne so, mai studiato e mai esposto in Germania) al Linden-Museum Stuttgart. Nel loro lungo viaggio di ricerca, Elena e Saitabao non solo sono venuti a conoscenza dell’originaria identità di quello che era stato originariamente classificato come keule (“bastone”) e del suo vero nome (lo ndorothi, un bastone utilizzato dai giovani kikuyu durante le cerimonie che li avrebbero accompagnati ad acquisire lo status di adulti; cfr. Barlow 1913 [17]), ma hanno anche potuto incontrare Baba Tai: una figura spirituale di riferimento in Kikuyuland che, piuttosto che sull’oggetto, si è concentrato sul ruolo che questo specifico ndorothi aveva avuto nel costruire una relazione così speciale, tra passato, presente e futuro e tra Africa ed Europa, tra i due giovani registi: Elena e Saitabao. Ecco, dal film, le sue parole:
«Vi stavo aspettando. Così che voi possiate avere la risposta. Trovare la strada. Era destino che veniste e mi guardaste negli occhi. Così che possiamo parlare. Avete sentito? Ragazzi, mi state ascoltando? Queste biglie mi dicono che state cercando qualcosa. Sono stati mandati a cercare risposte.
La notte prima della circoncisione le persone cantavano e facevano festa mentre i più anziani fabbricavano i bastoni ndorothi. Il bastone era fatto con un legno chiamato mucee. La mattina successiva, i ragazzi venivano allineati presso l’albero mugumo. Ogni ragazzo aveva il suo bastone ndorothi da lanciare. Il bastone doveva raggiungere l’altro lato dell’albero. Se lanciavi il bastone e rimaneva incastrato non eri pronto per la circoncisione.
Per il ritorno a casa, è questo il motivo del nostro incontro, la persona bianca e la persona nera, nati uguali per diventare uno. La persona nera per mostrare alla persona bianca la sua casa. Questo è bene» [18].
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Questa espressione deriva dal titolo scelto per il progetto di ricerca in cooperazione tra Università di Tübingen e Linden-Museum Stuttgart “Schwieriges Erbe: Zum Umgang mit kolonialzeitlichen Objekten in ethnologischen Museen” [Un’eredità difficile: sulla gestione degli oggetti coloniali nei musei etnologici] (2016-2018, coordinamento scientifico: Gabriele Alex (Asien-Orient-Institut der Universität Tübingen) e Thomas Thiemeyer (Ludwig-Uhland-Institut für Empirische Kulturwissenschaften der Universität Tübingen). Si veda: https://www.unimuseum.uni-tuebingen.de/de/infos/news/schwieriges-erbe-zum-umgang-mit-kolonialzeitlichen-objekten-in-ethnologischen-museen (visitato il 25 febbraio 2024).
[2] Questa prospettiva sulle collezioni europee acquisite durante le occupazioni coloniali è stata espressa da Ciraj Rassool (University of the Western Cape) durante la conferenza internazionale Schwieriges Erbe: Koloniale Objekte – Postkoloniales Wissen [Eredità difficile: oggetti coloniali – saperi postcoloniali] (Linden-Museum Stuttgart, 24 Aprile 2017), organizzata nell’ambito del progetto sopra menzionato.
[3] «Die Vernichtungsbefehle von Trotha sind juristische Dokumente, die dazu bestimmt waren, die Tat, die ein Völkermord gegen die Nama und die Ovaherero ist, rechtlich zu rechtfertigen und tatsächlich auszuführen» [“Gli ordini di sterminio di von Trotha sono documenti legali che avevano lo scopo di giustificare legalmente e realizzare effettivamente l'atto di genocidio contro i Nama e gli Ovaherero”]. (Nama Traditional Leaders Association, 2019). Si vedano anche: Zimmerer – Zeller 2003; https://www.sahistory.org.za/article/herero-revolt-1904-1907 (visitato il 12 aprile 2024); https://www.goethe.de/ins/lv/de/kul/sup/eri/ate/20750037.html (visitato il 25 febbraio 2024).
[4] Si veda: https://www.reuters.com/world/africa/germany-officially-calls-colonial-era-killings-namibia-genocide-2021-05-28/ (visitato il 12 aprile 2024).
[5] Pubblicata qui:
https://www.lindenmuseum.de/fileadmin/Dokumente/SchwierigesErbe_Provenienzforschung_Abschlussbericht.pdf (visitato il 25 febbraio 2024).
[6] si veda il programma della conferenza, qui:
https://www.museums.com.na/images/Past_Present_and_Future_Final_for_Email.pdf (visitato il 25 febbraio 2024).
[7] Sul concept e la struttura della mostra (Wo Ist Afrika? Storytelling a European Collection, 2019), si veda Ferracuti 2023a. Qui, nel contesto dei Dialoghi Mediterranei, non posso però esimermi dal citare l’installazione audiovisiva dal titolo Europe Begins in Lampedusa, creata in collaborazione con l’architetto Raimund Docmac (Stoccarda), Tareke Bhrane (Presidente di Comitato 3 ottobre, Roma), Mauro Buccarello e Maria Veronica Policardi (videomakers a Lampedusa) per la terza sezione della mostra: Objects to Connect, or of Joint Histories. Si tratta di un loop di un filmato di circa quaranta minuti ripreso verso il mare dalle coste dell’Isola di Lampedusa e ha voluto ‘aprire una finestra’ nel cuore dell’Europa su quello che accade nel Mar Mediterraneo.
[8] Si veda: https://www.youtube.com/watch?v=IixHV1CTF_k&t=45s (visitato il 12 aprile 2024).
[9] „Bei der Aufarbeitung unseres kolonialen Erbes stehen wir am Anfang und haben einiges nachzuholen“ [Nel fare i conti con la nostra eredità coloniale, siamo all’inizio e abbiamo molto terreno da recuperare]: estratto da un comunicato stampa di Theresia Bauer – Ministro per la Scienza, l’Arte e la Ricerca del Baden-Württemberg dal 2011 al 2022 – diramato in occasione della presentazione del progetto di rimpatrio e di un’installazione museale temporanea ad esso dedicata al Linden-Museum Stuttgart (11 Dicembre 2018 – 17 febbraio 2019).
[10] Questo processo di trasformazione è stato accuratamente descritto, in un quadro concettuale diverso, da Laura van Broekhoven nel suo contributo al volume Modernità e (post)colonialismo. I musei etnografici hanno bisogno di etnografia? (van Broekhoven 2023).
[11] A ridosso del nostro incontro a Ozzano Taro, Pietro Clemente mi ha ricordato che anche nel racconto a fumetti Il piffero fatato di Guatelli (2011 – storia: Pietro Clemente; Tavole: Antonio Mirizzi), gli oggetti che scappano dal museo di Ettore, seppure per motivi affatto diversi, anzi si può dire ‘contrari’ a quelli evocati qui, testimoniano di un «cattivo passato, negato e nascosto, che tornava» (Clemente – Mirizzi 2011: 7).
[12] Si veda: https://sammlung-digital.lindenmuseum.de/en/topic/with-namibia-engaging-the-past-sharing-the-future_3181 (visitato il 12 aprile 2024).
[13] Si veda: https://www.theguardian.com/culture/2021/jul/15/jeremy-silvester-obituary (visitato il 12 aprile 2024).
[14] «Restitution is the process by which cultural objects are returned to an individual or a community. Repatriation is the process by which cultural objects are returned to a nation or state at the request of a government» (https://collectionstrust.org.uk/cultural-property-advice/restitution-and-repatriation/, visitato il 12 aprile 2024).
[15] A questo è dedicato, ad esempio, il progetto multinazionale ReTours. Géopolitiques, économies et imaginaires de la restitution coordinato da Saskia Cousin (Université de Paris, CESSMA), finanziato dall’ANR (Agence Nationale de la Recherche) francese (2021-2024) e incentrato sulle geopolitiche del patrimonio culturale che interessano collezioni ‘diasporiche’ provenienti dal Mali, il Camerun, il Benin e il Senegal. La sua equipe di ricerca, di cui faccio parte, comprende colleghi incardinati nelle università dei 5 paesi francofoni. Cfr. https://retours.hypotheses.org/ (visitato il 12 aprile 2024).
[16] Si veda https://ifobjectscouldspeak.com/ (visitato il 12 aprile 2024).
[17] La mancata corretta interpretazione della funzione di quest’oggetto già descritto nel 1913 dal missionario scozzese Arthur Barlow, che allora si trovava a Kikuyuland per la Church of Scotland Mission, è sintomo evidente della qualità e quantità di ricerca sulle collezioni africane (che contano, oggi, ca. 40.000 unità) che è stato possibile condurre al museo di Stoccarda tra 1903 e 2019. Questa ‘mancata comunicazione’, però, è segnale di un altro problema che ci riguarda ancora oggi, così come purtroppo continua a riguardarci la scarsità di risorse umane e finanziarie da dedicare a questo importante ambito di ricerca. Il mancato recepimento delle informazioni pubblicate da Barlow per parte stoccardese sta anche nelle ‘difficoltà di comunicazione’ tra nazioni (o individui) in competizione o conflitto tra loro per status e/o risorse (il Kenya era una colonia britannica e l’oggetto fu spedito a von Linden da Dar Es Salaam, nel territorio oggi della Tanzania ma all’epoca occupato dalle truppe tedesche con il nome di “Africa Orientale Tedesca”). Rischiamo di correre gli stessi rischi di “cecità” o “provincialismo” ancora oggi, dal momento in cui spesso il dibattito scientifico (post)coloniale resta interno ai bacini linguistici corrispondenti alle occupazioni territoriali dell’epoca.
[18] Questa è la una traduzione in italiano dei sottotitoli in inglese dal kikuyu pubblicati nel documentario.
Riferimenti bibliografici
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Zimmerer, Jürgen – Zeller, Joachim (Hg., 2003) Völkermord in Deutsch-Südwestafrika. Der Kolonialkrieg (1904-1908) in Namibia und seine Folgen, Berlin, Ch. Links.
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Sandra Ferracuti, antropologa culturale, attualmente docente a contratto di Antropologia dell’arte all’Università di Udine, tra il 2010 e il 2021 ha insegnato, nella stessa veste, Antropologia Culturale, Antropologia dei Patrimoni Culturali e Museologia all’Università della Basilicata (Matera) e all’Università “Sapienza” di Roma. Dal 2005 al 2015 è stata membro del consiglio direttivo della Simbdea (Società italiana per la museografia e i beni demoetnoentropologici); ne è stata vice-presidente dal 2008 al 2013 e presidente dal 2013 al 2015. Tra il 2004 è il 2005 è stata curatrice per il Museo Guatelli di Ozzano Taro-Collecchio (Parma) e dal 2016 al 2020 ha diretto il dipartimento “Afrika” del museo etnografico statale Linden-Museum Stuttgart (Germania), per cui ha ideato e realizzato la mostra permanente delle collezioni africane Wo ist Afrika? Storytelling a European Collection” (2019).
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