Introduzione: un po’ di storia
I movimenti migratori di massa, come è ormai ampiamente noto, non hanno nulla di eccezionale o straordinario nella storia dell’umanità, né sono unicamente appannaggio dell’età contemporanea. Il progressivo popolamento del pianeta Terra sta a ricordarci che sono state proprio le grandi migrazioni a dare origine alla diffusione dell’essere umano in tutti i continenti. A questo proposito, Massimo Livi Bacci torna indietro addirittura fino agli antichi Romani, ricordandoci che già Seneca, forte dell’esperienza dei movimenti di popolazioni all’interno dell’impero romano, aveva elencato diversi fattori all’origine delle migrazioni. Fra questi ve ne sono alcuni che rimandano alla categoria dei migranti ambientali, o rifugiati climatici, come ad esempio i terremoti o l’infertilità del suolo [1].
Se è obiettivamente arduo far risalire la nascita di tali categorie all’antichità, è altrettanto vero che esse non sono poi così recenti come la mancanza, a tutt’oggi, di una loro regolamentazione giuridica potrebbe far supporre. È infatti ormai mezzo secolo che la categoria è in uso nella letteratura scientifica, anche se solo più di recente è approdata nel più vasto mondo dei media internazionali. Già quasi cinquant’anni fa infatti, nel 1985, tale definizione si ritrova in un saggio di Essam El-Hinnawi, che fa riferimento a diverse categorie di rifugiati ambientali, ampliando la definizione tuttora contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1951 [2] e proponendo una sua definizione, sulla quale avremo modo di tornare più avanti.
A questo punto è invece necessario aprire una breve parentesi, e notare che, se negli anni ’70 del secolo scorso il concetto di rifugiati ambientali muoveva i suoi primi passi, anche i concetti di “ambiente” tout court, di inquinamento e tutela ambientale, erano stati di fatto appena “scoperti”. Ci era voluto infatti tutto il rigore scientifico e il coraggio civile di Rachel Carson, con la pubblicazione di Primavera silenziosa, perché la parola “ambiente” diventasse di uso comune, acquisendo il senso che oggi le viene universalmente attribuito. Una parola che fino ad allora, come nota Al Gore nella prefazione al libro, semplicemente «non faceva parte del vocabolario politico» [3].
Tornando alla categoria dei rifugiati ambientali, in tempi a noi più vicini il nesso ambiente/migrazioni è stato rilanciato a livello di opinione pubblica internazionale dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo [4] che con il suo rapporto ha posto in termini chiari il nesso fra ambiente e migrazioni:
«Povertà, ingiustizia, degrado ambientale e conflitti sociali interagiscono in modi complessi e profondi. Uno dei motivi della crescente preoccupazione della comunità internazionale è costituito dal fenomeno dei profughi ambientali. Potrà sembrare che la causa immediata di ogni movimento di massa di profughi vada attribuita a sovvertimenti politici e a violenze militari, ma molto spesso tra le ragioni sottese sono il deterioramento della base delle risorse naturali e la sua incapacità di sopperire ai bisogni della popolazione» [5].
Una nuova categoria di profughi viene così a costituirsi accanto a quelle tradizionalmente previste dalla citata Convenzione di Ginevra del 1951, il cui campo di osservazione era focalizzato sugli sconvolgimenti provocati dalla Seconda guerra mondiale.
Non possiamo chiudere questa introduzione storica senza fare un passo indietro nel tempo e ricordare altri due momenti fondamentali, nel cammino verso la consapevolezza del nesso ambiente/migrazioni, che hanno preceduto la pubblicazione di Our Common Future. Nel 1971 viene infatti presentato il Rapporto del Massachusetts Institute of Technology (MIT) al Club di Roma, presieduto da Aurelio Peccei. Per la prima volta si dimostra e si afferma, in un documento che avrà un’enorme diffusione e risonanza in tutto il mondo, che le risorse del pianeta non sono infinite, e che è necessario rivedere il dogma della crescita illimitata, se si vuole che la Terra abbia un futuro. A brevissima distanza di tempo (giugno 1972), la Dichiarazione di Stoccolma, approvata a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, proclama, fra l’altro, la necessità di «mantenere la capacità della Terra di produrre risorse naturali rinnovabili» (art. 3) e, soprattutto, che «le risorse non rinnovabili della Terra devono essere utilizzate in modo da evitarne l’esaurimento futuro ed assicurare che i benefici del loro sfruttamento siano condivisi da tutta l’umanità» (art. 5).
Riassumendo: negli anni del secondo dopoguerra, accanto alla decolonizzazione e allo sviluppo impetuoso impresso dalla ricostruzione a molte economie del Nord del mondo (il cosiddetto “boom economico”), si affaccia anche la consapevolezza che quest’ultimo è irresponsabilmente realizzato a spese della natura, e che lo stravolgimento degli equilibri naturali costruiti in centinaia di milioni di anni può diventare un fattore scatenante di movimenti migratori di massa dettati dall’istinto di sopravvivenza che ogni essere vivente persegue. L’essere umano diventa quindi allo stesso tempo artefice e vittima del degrado ambientale e del cambiamento climatico, e le conseguenze delle sue azioni gli si ritorcono inevitabilmente contro.
Volendo schematizzare un po’ (con il rischio di approssimazione che ogni schematizzazione comporta) si potrebbe dire che artefici e vittime non sono soggettivamente sovrapponibili (almeno non del tutto), dato che, come è stato in più occasioni sottolineato, le maggiori conseguenze della crisi climatica ricadono proprio sui popoli e sui territori che meno hanno contribuito a crearla. E qui arriviamo ai nodi della questione, che si vogliono affrontare in questo articolo: se il genere umano è responsabile e vittima in maniera differenziata al proprio interno del cambiamento climatico in atto, in quali termini possiamo pervenire a ristabilire una sorta di “giustizia climatica” evidentemente compromessa? E la via d’uscita dalla crisi climatica passa attraverso una strategia di adattamento “darwiniano” oppure attraverso la ricerca di soluzioni di cambiamento più coraggiose?
Le migrazioni forzate nel mondo
Partiamo da un dato fondamentale, quello sui migranti a livello mondiale. Nel 2020, le persone che vivono in un Paese diverso da quello di nascita (i cd. foreign-born) erano, secondo le Nazioni Unite, 281 milioni, ossia il 3,6% della popolazione mondiale [6]. Seguendo il trend di crescita degli ultimi cinque anni, è plausibile affermare che nel 2023 questo dato abbia raggiunto i 300 milioni. All’interno di questo gruppo, però, troviamo anche coloro che, pur nati all’estero, hanno acquisito la cittadinanza del Paese di insediamento, e godono quindi di tutti i diritti dei cittadini per nascita. Si tratta, in altri termini, dei cd. “immigrati non stranieri” [7]. Il dato reale degli immigrati, intesi come persone in possesso di un passaporto diverso da quello del Paese di residenza, ce lo dà invece la Banca Mondiale, nel suo ultimo World Development Report, che stima il numero di immigrati nel mondo a 183 milioni nel 2022 [8]. Secondo i dati più recenti pubblicati dall’UNHCR (metà 2023), poi, il numero degli sfollati forzati (“forcibly displaced”) si aggira intorno ai 110 milioni, che comprendono oltre 36 milioni di rifugiati, poco più di 6 milioni di richiedenti asilo, oltre 5 milioni di persone che avrebbero bisogno di protezione internazionale, ma anche 62,5 milioni di sfollati interni (quest’ultimo dato relativo alla fine del 2022).
Questi, grosso modo, i dati sugli spostamenti forzati di popolazione. Va anche notato che, contrariamente a teorie maggiormente in voga nel passato, le migrazioni non sono o volontarie, o forzate. La distinzione fra migranti economici (cui di fatto i migranti ambientali vengono assimilati, con l’obiettivo di negarne le esigenze di protezione) e migranti forzati (utilizzata per tracciare un’ideale linea di demarcazione tra chi “ha diritto” alla protezione internazionale e chi no) perde di significato di fronte ad una realtà in cui le disuguaglianze crescono e i contorni delle motivazioni sfumano. Fra i due estremi (migrazioni volontarie e migrazioni forzate) è ormai chiara l’esistenza di un’amplissima gamma di sfumature di motivazioni, che rendono molto difficile (e tendenzialmente arbitrario) “etichettare” la natura di ogni particolare movimento migratorio. Non a caso più di recente si tende piuttosto a parlare di “flussi misti” o “mixed migration” (ossia persone che, pur di sfuggire al destino di essere nate nel “paese sbagliato”, tentano in qualsiasi modo – compresa la richiesta di asilo – di rifarsi una vita in un Paese del Nord ricco del mondo), accomunati dalle medesime ragioni di sopravvivenza che caratterizzano gran parte delle migrazioni attuali. Queste persone spesso utilizzato le stesse rotte, dato che è loro precluso, dalla maggioranza degli ordinamenti dei Paesi riceventi, di fare normalmente ingresso per i canali regolari e cercare lavoro.
Da tempo, a questo proposito, si parla in letteratura di “sostituzione di categorie”, e cioè del «riorientamento verso altri canali (legali o illegali) quando l’entrata attraverso un particolare canale diventi troppo difficoltosa» [9]. Ad esempio, in riferimento alla rotta del Mediterraneo centrale (che fa capo a Lampedusa), distinguiamo grosso modo tre diverse categorie [10]: coloro che hanno concreti motivi per rientrare nella protezione internazionale (come ad esempio siriani ed eritrei); coloro che fuggono da instabilità e violenze nel Paese di origine, ma che difficilmente riusciranno ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato; infine, quanti sono alla (legittima) ricerca di un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie, ma che non hanno altra speranza che quella di vedersi riconoscere una qualche forma di protezione internazionale [11].
È importante notare che, dalle cifre sopra riportate, risulta che in oltre la metà dei casi si tratta di persone che non hanno lasciato il proprio Paese, ma sono semplicemente sfollati in una regione limitrofa, presumibilmente in attesa di un miglioramento delle condizioni, che consenta loro di far ritorno alle proprie case.
Chi sono, e quanti sono i rifugiati climatici?
Si sarà senz’altro notato che, fra tutti i dati finora indicati (e molti di più se ne potrebbero fornire), a mancare è proprio una quantificazione, sia pur stimata, della consistenza attuale dei rifugiati climatici. Curiosamente, esistono previsioni per il futuro, ma mancano stime per il passato e il presente. «Conosciamo il numero preciso dei rifugiati climatici?» – si chiedono Calzolaio e Pievani. «No» è la risposta. «Il numero non poteva e non può essere conosciuto. Negli ultimi anni la loro esistenza è nota, evocata come una qualità certa, ma una quantità indefinibile» [12]. Per quanto riguarda il futuro, invece, già da tempo è infatti noto che entro il 2030 almeno 250 milioni di persone potrebbero diventare rifugiati climatici [13]. Se invece ci limitiamo alle sole migrazioni interne nei Paesi in via di sviluppo, queste vengono stimate, al 2050, fra 44 e 216 milioni, a seconda dello scenario considerato [14].
A livello di definizione, invece, la confusione è massima. Non sembra opportuno in questa sede dar conto dell’elefantiaco dibattito che si è scatenato attorno alle variamente combinate definizioni di rifugiato/migrante e ambientale/climatico, se non per sommi capi e per sottolineare, oltre la confusione concettuale cui si è accennato, anche la divaricazione di interessi sulle necessarie politiche da mettere in atto. Quasi cinquant’anni fa, come accennato sopra, El-Hinnawi indicò i rifugiati ambientali come «those people who have been forced to leave their traditional habitat, temporarily or permanently, because of a marked environmental disruption (natural and/or triggered by people) that jeopardized their existence and/or seriously affected the quality of their life. By “environmental disruption” in this definition is meant any physical, chemical and/or biological changes in the ecosystem (or the resource base) that render it, temporarily or permanently, unsuitable to support human life» («coloro che sono stati costretti a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o in modo permanente, a causa di uno sconvolgimento di natura ambientale (naturale e/o causato dall’essere umano) che ha messo a repentaglio la loro esistenza e/o seriamente compromesso la loro qualità di vita. Per “sconvolgimento di natura ambientale” in questa definizione si intende ogni cambiamento fisico, chimico e/o biologico dell’ecosistema (o delle risorse di base) che lo rendono, temporaneamente o in modo permanente, non adatto a garantire la vita umana») [15].
Alcuni anni dopo è stata proposta un’altra definizione, più snella, secondo cui i rifugiati ambientali sono «people who can no longer gain a secure livelihood in the homelands because of drought, soil erosion, desertification and other environmental problems, together with associated problems of population pressures and profound poverty» («persone non più in grado di guadagnarsi da vivere nei Paesi di origine a causa di siccità, erosione dei suoli, desertificazione e altri problemi ambientali, uniti ai problemi, considerati nel loro insieme, della pressione demografica e di acuta povertà») [16]. L’OIM, dal canto suo, suggerisce di abbandonare il termine “rifugiati”, in quanto esso evocherebbe una categoria del diritto internazionale che non comprende gli sconvolgimenti di natura ambientale fra gli eventi che possono dare origine all’applicazione della Convezione di Ginevra, e lo considera perciò “fuorviante”.
L’utilizzo del termine “rifugiato”, accanto al sostantivo “ambientale”, potrebbe infatti suggerire che il soggetto che viene a trovarsi in tale situazione possa quasi “rivendicare” l’asilo contemplato dalla Convenzione di Ginevra, che di quel termine fa appunto uso. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, quindi, propone di sostituirlo con la locuzione “migrante ambientale”, la quale non crea di per sé alcun diritto in capo al soggetto sulla base della Convenzione di Ginevra, e introduce l’elemento della volontarietà nella definizione: «A person or group(s) of persons who, predominantly for reasons of sudden or progressive changes in the environment that adversely affect their lives or living conditions, are forced to leave their places of habitual residence, or choose to do so, either temporarily or permanently, and who move within or outside their country of origin or habitual residence» («una persona o gruppo(i) di persone che, prevalentemente a causa di cambiamenti ambientali improvvisi o progressivi che incidono negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare i luoghi di residenza abituale, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e si spostano all’interno o all’esterno del loro Paese di origine o di residenza abituale»).
Già da un primo sguardo a questa definizione, si intuisce la sua valenza relativizzante e quasi “minimizzatrice” del fenomeno (come è infatti stato notato da alcuni studiosi), in quanto prima di tutto la amplia introducendo l’elemento della volontarietà (il migrante ambientale non è infatti “costretto” ad abbandonare il proprio habitat, ma può anche “scegliere di farlo”) e quello della non esclusività delle ragioni di carattere ambientale (“predominantly”). Oltre a ciò, secondo tale definizione, il soggetto può anche rimanere all’interno del proprio Paese (cosa che in effetti si verifica in molti casi). Una delle ragioni per cui l’OIM ritiene inappropriato l’uso del termine “rifugiato” è infatti proprio legata alla circostanza che la Convenzione di Ginevra esige che lo spostamento abbia carattere internazionale per conferire al soggetto tale qualifica. Fra l’altro, argomenta da ultimo l’OIM, «a parte alcuni casi eccezionali, il loro governo è in genere disposto ad assicurare la propria protezione, ed essi non subiscono una persecuzione sulla base di alcuno dei motivi indicati dalla Convenzione» [17].
Come appena evidenziato, in letteratura (come pure fra le organizzazioni internazionali) non esiste attualmente una definizione unitaria per le persone che lasciano (costrette o meno) la propria casa (o il proprio Paese) a seguito di un evento riconducibile al deterioramento dell’ambiente o alla crisi climatica. Per contro, un aspetto (forse l’unico) sul quale sembra esserci accordo è quello secondo cui i migranti climatici costituirebbero un “sottoinsieme” più specifico della più ampia categoria dei migranti ambientali.
La disputa sulle definizioni è solo apparentemente di carattere terminologico, in quanto la questione (dirimente) che essa sottende riguarda proprio le misure da prendere per contrastare tale situazione e le loro conseguenze sulla vita delle persone. Attualmente, la persona che lascia la propria casa o il proprio Paese in conseguenza di un evento climatico non dispone di un apparato di protezione giuridica analogo a quello che la Convenzione di Ginevra appronta per chi fugge da guerre e persecuzioni. Da una parte c’è chi tende a ridimensionare il carattere di necessità e di inevitabilità che tali spostamenti avrebbero, insistendo sulla loro volontarietà e, in definitiva, sul fatto che si tratterebbe di una strategia di adattamento che il migrante ambientale (o climatico) porrebbe in essere. Dall’altra ci sono invece quanti ritengono necessario che il diritto internazionale, a fronte di una violazione di diritti, metta precise garanzie a disposizione di quanti dovessero trovarsi in tale situazione, analoghe appunto a quelle previste dalla Convenzione di Ginevra per i rifugiati. Va da sé che l’intento di fornire protezione giuridica (a riparazione, come si è detto, di un diritto violato) [18] necessita di una definizione precisa delle fattispecie, con caratteristiche e limiti ben definiti, per poter stabilire chi vi rientra e chi no.
Anche se esistesse un consenso generalizzato sulla necessità che le vittime (variamente definite) degli sconvolgimenti climatico-ambientali abbiano diritto ad una forma specifica di protezione, è necessario stabilire se sia più vantaggioso modificare ed ampliare l’ambito di applicazione della Convenzione di Ginevra, oppure predisporre uno strumento ad hoc, una sorta di “Convenzione sulla protezione dei diritti dei rifugiati ambientali e climatici”. La persistente condizione di incertezza rispetto a termini e strumenti, che risalta chiaramente anche da queste brevi considerazioni, rimanda inevitabilmente al limite intrinseco del diritto internazionale, che, non disponendo di un apparato coercitivo (come quelli degli ordinamenti nazionali) atto a farne rispettare le norme, deve necessariamente fare leva sull’adesione volontaria degli Stati a tali norme, che presuppone faticosi e spesso interminabili processi negoziali (non di rado conditi da prevedibili strategie dilatorie), a fronte di una situazione che si fa di anno in anno più urgente ed improcrastinabile. Se infatti è necessario approntare strumenti di protezione delle persone dalle conseguenze cui il cambiamento climatico le espone, è ancora più improcrastinabile porre un freno a livello globale alle cause scatenanti di tale cambiamento, mettendo in atto una strategia preventiva, senza limitarsi alla riparazione ex post dei danni.
Quali prospettive per la crisi climatica?
Il cambiamento climatico attualmente in atto, come abbiamo visto, provoca sia eventi ad insorgenza rapida (come frane, alluvioni, inondazioni, cicloni, etc.) che il progressivo intensificarsi di fenomeni come l’innalzamento del livello dei mari (con la conseguenza di rendere inadatte alla vita umana diverse zone costiere, compresi gli estuari dei grandi fiumi, soprattutto in Asia meridionale) e la siccità, a sua volta responsabile di accresciuti conflitti fra pastori ed agricoltori, soprattutto in Africa, della perdita di raccolti e, in concomitanza di altri eventi (come i conflitti armati), di ripetute carestie (come ad esempio nel Corno d’Africa). Tutti eventi che danno luogo a movimenti migratori e a flussi crescenti di sfollati interni e di rifugiati internazionali. Peraltro, non poche persone decidono di intraprendere un percorso migratorio a causa della combinazione di più fattori, la cui portata viene acuita dal cambiamento climatico.
Come si vedrà meglio più avanti, pur essendo la comunità internazionale (o almeno, una parte di essa) assolutamente consapevole di tali eventi, delle loro cause e conseguenze (e ciò da diversi decenni), pur avendo messo in campo un cospicuo apparato di organizzazioni ad hoc, studi, monitoraggi, convenzioni internazionali, incontri globali a cadenza annuale, e nonostante la poderosa spinta della società civile organizzata a livello planetario, ancora oggi fatica a trovare una soluzione condivisa e durevole a quella che costituisce probabilmente la più decisiva sfida a cui l’umanità è mai stata confrontata fino ad ora.
Gli interessi in gioco, come si può facilmente immaginare, sono enormi: non solo, infatti, all’interno del mondo industrializzato, esiste un robusto negazionismo (spesso interessato) del fenomeno in quanto tale, ma la discussione su “chi paga il conto” dell’improcrastinabile difesa dei Paesi minacciati più da vicino come pure della necessaria trasformazione del sistema produttivo globale ha riattizzato la mai sopita controversia fra il Nord del mondo (ricco, industrializzato, spesso con un passato di sfruttamento coloniale, in declino demografico) e il Sud globale (povero, in parte legato ad un’economia agricola che non di rado è di sussistenza, spesso con un passato di colonia), che è apparso subito chiaro già all’indomani della grande stagione delle indipendenze degli anni ’60 del secolo scorso. La crisi climatica (figlia, come si è visto, del degrado ambientale in gran parte legato proprio alla società industriale) è soltanto l’ultimo atto di quella spaccatura geopolitica che, dopo la fine della contrapposizione Est-Ovest (almeno quella storica, conclusasi con la dissoluzione dell’URSS) assume contorni ben più frammentati e di difficile e spesso contraddittoria lettura.
Se queste sono le premesse (pur schizzate qui in maniera sommaria ed incompleta), non stupisce che la conclusione dell’ultimo (in ordine di tempo) incontro annuale mondiale della Conferenza delle parti, la COP28 di Dubai, sia stata salutata da non pochi attori con «una profonda delusione» [19], mentre altri, comprensibilmente hanno dichiarato «oggi abbiamo fatto la storia» [20], e altri ancora considerano «il compromesso raggiunto come bilanciato e accettabile per questa fase storica, caratterizzata da forti tensioni internazionali che pesano sul processo di transizione» [21].
Come è noto, la misura del cambiamento del clima è data dall’innalzamento della temperatura globale, prendendo come riferimento quella dell’era pre-industriale. Attualmente, secondo il più recente rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) [22], nel periodo 2011-2020, la temperatura globale della superficie terrestre è cresciuta di 1,1° rispetto a quella del periodo 1850-1900. Le attività umane hanno certamente influenzato questi sviluppi, e a partire almeno dal 1971 ne sono state la causa maggiore. Secondo le stime dell’IPCC, circa tre miliardi e mezzo di abitanti della Terra (quasi la metà del totale) vivono in contesti territoriali fortemente esposti al cambiamento climatico, che ha causato, nel decennio 2010-2020, una mortalità superiore di 15 volte rispetto alle zone meno interessate dal fenomeno. Nonostante il rafforzamento delle politiche di mitigazione adottate negli ultimi anni, appare «plausibile che nel corso del 21° secolo il riscaldamento superi 1,5°, e sarà difficile limitarlo a 2°» [23].
«Alcuni cambiamenti futuri appaiono inevitabili o irreversibili, ma possono essere limitati con una riduzione profonda, rapida e sostenuta delle emissioni globali di gas serra» [24]. Il fattore tempo a questo proposito è cruciale, in quanto le misure di adattamento che sono ancora possibili oggi verranno limitate anche nei loro effetti da un ulteriore riscaldamento. Se si vuole limitare il riscaldamento a 1,5° o anche 2°, le necessarie riduzioni di gas serra vanno raggiunte entro il decennio attuale, cioè nei prossimi sei anni. In buona sostanza, conclude l’IPCC, «una rapida ed estesa transizione in tutti i settori appare necessaria per (…) assicurare un futuro vivibile e sostenibile per tutti» [25].
La (debole) risposta della comunità internazionale e delle sue organizzazioni
Come si vede, le previsioni e le indicazioni fornite dalla scienza difficilmente potrebbero essere più chiare. Come accennato nel paragrafo precedente, però, la risposta della comunità internazionale (anche lasciando da parte la quota dei “negazionisti climatici”) è ben lontana dall’essere all’altezza della situazione, anche (e forse soprattutto) in quel ruolo di sensibilizzazione e di spinta delle rispettive opinioni pubbliche ad adottare quei cambiamenti nello stile di vita e di consumo che potrebbero avere certamente un peso nella svolta. Un atteggiamento probabilmente dettato, com’è ovvio, dal timore di perdere consensi, tanto che, paradossalmente, tocca alla parte più avvertita e consapevole della società civile organizzata pungolare i propri rispettivi decisori politici ad un maggiore coraggio. La stessa ritrosia ad un’azione più decisa si ritrova nel contesto internazionale, dove i comportamenti negoziali di molti governi sembrano essere soprattutto improntati ad un ristretto interesse economico. Ripercorrere brevemente la storia dei negoziati internazionali può meglio chiarire quanto appena detto.
La COP28 (la 28° edizione della conferenza annuale delle Parti contraenti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico-UNFCCC), tenutasi nel dicembre 2023 a Dubai, con i suoi negoziati defatiganti e (nonostante i ben studiati colpi di scena dell’ultimo minuto) i suoi magri risultati concreti, rappresenta a questo proposito un esempio paradigmatico [26]. A partire dalla scelta del luogo e della presidenza, che hanno ovviamente esercitato una forte influenza su tutto lo svolgimento dell’incontro. Già prima dell’avvio dei lavori sono state notate «la pessima situazione dei diritti umani degli Emirati Arabi Uniti [che] minaccia la riuscita della Conferenza» e la circostanza che «la COP28 è presieduta da Sultan Al Jaber, (…) amministratore delegato della compagnia petrolifera e del gas di stato degli EAU», noto, fra l’altro, per aver negato le evidenze scientifiche alla base nella necessità di abbandonare l’utilizzo di combustibili fossili [27].
Il livello attuale (2023) di riscaldamento globale ha raggiunto un aumento di 1,45° rispetto al periodo pre-industriale, un valore pericolosamente vicino all’1,5°, concordato nella COP21 di Parigi (2015) come il limite massimo da non superare. Il 2023 è stato il più caldo dei 174 anni passati finora osservati. Mentre le stime dell’IPCC (v. sopra) ci dicono che alla fine del secolo potremmo arrivare ad un aumento superiore a 2°, alcuni governi, come ad esempio quello francese, stanno già prendendo in considerazione l’eventualità di dover fare i conti con un aumento di addirittura 4°, che avrebbe conseguenze catastrofiche sull’intero pianeta [28]. Alla COP28, inoltre, già in apertura dei lavori, è stato annunciato l’inizio della fase operativa del cd. “Fondo per le perdite e i danni” (Loss and Damage Fund) lanciato in occasione della precedente COP27 in Egitto. Il fondo si basa sull’idea che le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico pesano in maniera sproporzionata sulle economie più povere del pianeta che, oltre ad essere maggiormente colpite da tali eventi, sono anche quelle che hanno una minore responsabilità storica rispetto ad essi e, infine, anche quelle che fanno maggior fatica a risollevarsi dalle loro conseguenze.
Si tratta del principio «common but differentiated responsibilities and respective capabilities», un ampliamento storicizzato del noto “chi inquina paga”: le responsabilità sono sì comuni, ma non uguali per tutti, e le capacità di risposta sono ovviamente diverse da Paese a Paese. Però, come nota giustamente la Fondazione Rosa Luxemburg, «Il Fondo c’è, ma dove sono i soldi?» [29]. Come è facile immaginare, i contributi nazionali ad un tale fondo sono puramente volontari, e i singoli Stati sono ovviamente sovrani nel determinarne l’entità. Mentre le organizzazioni non governative presenti rilevano il rischio insito nell’aver affidato la gestione provvisoria del Fondo alla Banca Mondiale, va notato che finora i contributi totali ammontano a circa 700 milioni di dollari (fra cui quelli, di 100 milioni ciascuno, provenienti da Germania ed EAU). Poca cosa, rispetto alla stima di un fabbisogno annuo di circa 400 miliardi di dollari.
L’Italia, per parte sua, ha dichiarato di voler contribuire con 108 milioni, e un pari contributo è stato offerto dalla Francia [30]. Peraltro, la discussione sul lato finanziario non iniziava certo sotto il migliore degli auspici: ancora nella COP15 tenutasi nel 2009 a Copenaghen era stato istituito il cd. Green Climate Fund, che avrebbe dovuto essere dotato, entro il 2020, di 100 miliardi l’anno, obiettivo per ora disatteso. Anche sul fronte delle dichiarazioni finali (peraltro sempre non vincolanti) la COP28 è rimasta ampiamente al di sotto dalle aspettative. Il testo finale si limita infatti a raccomandare il “transitioning away” (traducibile come una sorta di transizione in direzione dell’abbandono) dalle fonti fossili (che pure la COP28 riconosce essere all’origine del cambiamento climatico), invece di un più incisivo “phasing out” (che rimanda ad un’eliminazione graduale e programmata). Per di più, la riduzione dei gas serra viene affidata a tecnologie oggetto di dubbi e discussioni, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS), «che al momento coprono solo lo 0,21% delle emissioni globali» [31], o addirittura lo sviluppo dell’energia nucleare. Ben 22 Paesi hanno infatti sottoscritto una Dichiarazione per triplicare la produzione di energia nucleare entro il 2050, riconoscendole un «ruolo chiave nel raggiungimento delle emissioni zero di gas climalteranti» [32].
Italia, se ci sei batti un colpo
Se queste sono le (contraddittorie e provvisorie) conclusioni di Dubai, vediamo brevemente il posizionamento dell’Italia in proposito e i passi necessari nel prossimo futuro. Innanzitutto è da notare che l’Italia è scesa dal 29° al 44° posto nella classifica mondiale dei Paesi più attivi dal punto di vista delle politiche climatiche. È quanto si legge nel rapporto annuale di Germanwatch, Climate Action Network e New Climate Institute, realizzato, per l’Italia, in collaborazione con Legambiente e presentato nel corso della COP28 a Dubai. Il “balzo all’indietro” dell’Italia nella classifica dei Paesi più “volenterosi” nel contrasto alla crisi climatica è da attribuire soprattutto al rallentamento nella riduzione delle emissioni climalteranti (37° posto) e all’inadeguatezza delle politiche nazionali rispetto all’emergenza climatica. La deludente performance dell’Italia risalta ancor di più in un contesto globale in cui l’Unione europea, considerata nel suo complesso, arriva al 16° posto, guadagnando tre posizioni rispetto al precedente rapporto. Indicativa è comunque la circostanza che anche quest’anno i primi tre posti nella classifica siano risultati vacanti, in quanto nessuno dei Paesi ha raggiunto i risultati necessari a centrare l’obiettivo di 1,5°. Al quarto, quinto e sesto posto si sono classificati rispettivamente Danimarca, Estonia e Filippine. Agli ultimi tre posti troviamo invece gli Emirati Arabi Uniti (65°), l’Iran (66°) e l’Arabia Saudita (67°), non a caso fra i maggiori produttori ed esportatori di idrocarburi [33].
Nella scheda del Rapporto dedicata all’Italia (a cura di Legambiente e del Kyoto Club) [34], si evidenzia innanzitutto la mancanza di chiare politiche di decarbonizzazione, soprattutto nel settore dei trasporti (mancano infatti chiare previsioni sulla realizzazione del divieto di vendita di veicoli a combustione interna entro il 2035). Nonostante l’Italia abbia aderito alla Carbon Neutrality Coalition [35], il Paese «non assume un ruolo di primo piano nella politica climatica internazionale» (V. nota 34). Nel giugno 2023, inoltre, l’Italia ha annunciato una revisione del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che rimanda al 2028 la data limite per l’utilizzo del carbone. Come si desume da queste pur succinte indicazioni, l’Italia non è esattamente all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico. Se ci fosse bisogno di ulteriori prove in proposito, basterebbe ricordare il recentissimo voto al Consiglio europeo Economia e Finanza (Ecofin), con il quale l’Italia ha (invano) cercato di opporsi, insieme alla sola Ungheria, all’approvazione della Direttiva EPBD (Energy Performance of Buildings Directive, più nota in Italia come “direttiva sulla case green”). La direttiva, che è stata approvata con una maggioranza di 20 voti, prevede fra l’altro che entro il 2050 il patrimonio edilizio dell’UE sia a emissioni zero, ma lascia comunque agli Stati membri la facoltà di modulare al proprio interno diversi aspetti del processo di cambiamento (36).
Va peraltro detto che anche a livello di Unione europea, il cd. “Green Deal”, fiore all’occhiello della Commissione von der Leyen, negli ultimi anni ha subìto diversi riaggiustamenti, sotto le pressioni delle varie lobbies politico-economiche del continente. Preoccupata dal vento di destra che soffia sull’Europa e dalle proteste degli agricoltori, la Presidente della Commissione ha rinunciato, in rapida successione, a diversi buoni propositi del Green Deal. Dalle proposte per la riduzione della CO2 al 2040 scompare il taglio del 30% delle emissioni di azoto e metano, notoriamente legate alle attività agricole. Anche il previsto dimezzamento dell’utilizzo di pesticidi entro il 2030 è improvvisamente diventato carta staccia, in quanto “simbolo di polarizzazione”. Fra l’altro, a riprova del mutato clima politico, la proposta era già stata respinta dal Parlamento europeo [37]. Da ultimo (ma l’elenco non è esaustivo) viene anche sensibilmente edulcorato l’obbligo di mettere a riposo il 4% dei seminativi aziendali, precedentemente deliberato 38]. Se questo è il nuovo trend in materia di ambiente e salvaguardia del clima, la gestione del fenomeno migratorio (climatico o meno che sia) non appare molto diversa, a livello europeo come pure nazionale.
La strategia che prende sempre più piede è infatti quella dell’esternalizzazione inaugurata dal Regno Unito con il Rwanda (ma, come si ricorderà, era già una strada tentata da Tony Blair oltre vent’anni fa) e proseguita dall’Italia con l’accordo con l’Albania per delocalizzare oltre Adriatico l’esame delle richieste di protezione internazionale [39]. Purtroppo, la categoria principale che informa i ragionamenti e le pratiche politiche sull’immigrazione è ancora (in Italia e non solo) quella del necessario contenimento di un male inevitabile, quasi si trattasse, data la sua inevitabilità, di limitarne almeno gli effetti più nefasti, tenendolo il più lontano possibile (come fa appunto, nella pratica, il recente accordo Italia-Albania) [40].
Conclusioni: a quando una vera “giustizia ambientale e climatica”? Abbiamo fin qui cercato di esplorare per sommi capi (come inevitabile in una tematica talmente complessa) la questione riguardante le “nuove” migrazioni ambientali, che prendono le mosse dagli stravolgimenti climatici che tutto il pianeta Terra sta vivendo in modo sempre più rilevante. Nulla di particolarmente nuovo, dato che, in realtà, la consapevolezza sul saccheggio cui viene sottoposto l’ambiente naturale dalla rivoluzione industriale in poi data di almeno mezzo secolo, quando venne lanciato il primo allarme sui “limiti dello sviluppo” e alla Conferenza di Stoccolma si parlò, per la prima volta in ambito istituzionale, del «diritto a vivere in un ambiente sano», evocando in nuce la possibilità che grandi masse di persone si spostassero per vedersi riconosciuto proprio quel diritto. La vera novità è forse proprio la saldatura fra il grande spauracchio di questo inizio di XXI secolo (le migrazioni di massa incontrollate – dopo l’era della migrazione gestita – in direzione Sud-Nord ed Est-Ovest) e la crisi ambientale/climatica.
Finora, mezzo secolo di avvertimenti e di appelli della parte più consapevole della comunità scientifica e della società civile sono scivolati, di conferenza internazionale in conferenza internazionale, come acqua sulla roccia. Fino a non molto tempo fa, i due temi (il “collasso ambientale” evocato da Antonio Guterres e le migrazioni di massa) sono rimasti ben separati nel discorso pubblico. Ora non è più così. Non solo c’è la consapevolezza che il tempo sta per scadere, ma anche la coscienza che il collasso climatico potrebbe (molto probabilmente) essere accompagnato da ciò che è in grado di terrorizzare il Nord del mondo (o l’Occidente, come si ama dire oggi, vagheggiando una comunità di valori più o meno immaginata) molto più della morte della natura: l’assalto di masse di poveri al nostro stile di vita, faticosamente conquistato con l’industrializzazione e il colonialismo (che l’ha in gran parte reso possibile). Forse non è un caso che il dibattito sulle misure di contenimento del riscaldamento planetario si faccia più aspro quanto più si avvicini alla nostra vita quotidiana, insidiando le nostre abitudini, le nostre comodità, la nostra illimitata libertà di viaggiare. In una parola, il nostro stile di vita, di cui tanto andiamo fieri, e che tanto ci viene invidiato dal resto del mondo [41].
Come si è cercato di mostrare fin qui, le misure concretamente adottate finora per contrastare il cambiamento climatico (e, più in generale, il degrado ambientale dovuto al sovrasfruttamento delle risorse naturali) non sono in grado non solo di invertire la rotta, ma neppure di modificarla in maniera rilevante. Alcune vagheggiano un improbabile ricorso all’energia nucleare come panacea di tutti i mali (v. sopra), mentre soluzioni come quella della discutibile pratica della cattura e stoccaggio delle emissioni di carbonio (CCS) sono state evocate nei documenti ufficiali della COP 28. La dichiarazione di Antonio Guterres, secondo cui «l’era dei combustibili fossili deve finire con giustizia ed equità», evoca senza ombra di dubbio le responsabilità storiche dei Paesi ricchi, ed entra chiaramente in contrasto con i loro interessi, provocando forti resistenze. La questione si pone apparentemente in termini molto semplici: come contrastare la crisi climatica [42], aiutando allo stesso tempo quella parte di mondo che, pur non avendola provocata, rischia di soccombervi?
Il nodo è quello della giustizia internazionale climatica. A questo punto le proposte e le soluzioni si dividono, anche rimanendo nel campo di quanti condividono questa analisi. Da varie parti si invoca niente di meno che «una rinuncia positiva alla frenesia capitalistica» [43]. Altre analisi individuano il centro del problema nel «modello produttivo estrattivistico (…), sistema di controllo sociale, culturale ed economico», che «tiene in scacco i popoli più poveri e le aree del Pianeta più vulnerabili, traducendosi in forme di controllo del territorio che ricordano l’esperienza coloniale». Secondo tale analisi, si dovrebbe «stabilire un legame fra la quantità di CO2 emessa da ciascun Paese e il numero di migranti ambientali che quel Paese è tenuto a risarcire o ad ospitare». La conclusione è che «è necessario innanzitutto uno stravolgimento dei sistemi di potere politico ed economico» [44]. Pur in una condivisione ideale di tale punto di vista, è fuor di dubbio che si sta parlando di una radicalizzazione estrema del conflitto che richiederebbe, dati gli interessi in gioco, né più né meno che una rivoluzione mondiale. Sorge quindi il dubbio su quanto possa essere realistica e realizzabile una tale opzione. Le soluzioni ideali, purtroppo, spesso sono difficilmente praticabili.
Parrebbero invece più traducibili in pratica soluzioni più limitate, anche se, inevitabilmente, si trovano a volare più basso. Se costringere alcuni Stati ad una perequazione finanziaria obbligatoria (che attualmente non sussiste) dei torti inflitti a gran parte dell’umanità negli ultimi secoli non appare realistico, molto più percorribile sarebbe la strada di convincere alcuni Paesi ad abbandonare la logica antistorica del contenimento delle migrazioni e iniziare a ragionare in termini di inserimento prioritario nel proprio tessuto economico-sociale di persone che hanno lasciato il proprio Paese a seguito di stravolgimenti ambientali e climatici. È infatti noto che molti Paesi del Nord del mondo, a causa del trend demografico e di altri aspetti che qui sarebbe troppo lungo esaminare, versa attualmente in una situazione di grave deficit di forza lavoro, nei più disparati settori. Basterebbe che questi Paesi (fra cui l’Italia), considerassero il fenomeno migratorio con uno spirito più pragmatico.
Appare infatti assolutamente anti-economico l’investimento di somme ingenti (si pensi al recente accordo Italia-Albania) per tenere fuori dai confini queste persone, rassicurando l’opinione pubblica nazionale che si sta facendo il possibile per porre un freno all’“invasione”. Ben più opportuno sarebbe quindi avviarsi verso una paziente decostruzione (questa forse sarebbe una piccola utopia alla nostra portata) dell’immagine del migrante come nemico e usurpatore, facendo risaltare la realtà di una persona che, aiutando se stessa e il proprio Paese (si pensi all’enorme valore delle rimesse), è allo stesso tempo in grado di dare nuova linfa vitale alla società di inserimento. È poco, senza dubbio (e qualcuno potrebbe dire che non si aggredisce il problema alla radice), e già questo percorso appare irto di difficoltà e prevedibili resistenze. Ma sono talvolta i piccoli passi quelli che indicano la strada da seguire.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] M. Livi Bacci, Is Homo sapiens a growingly mobile species (in the very long run)? in E. Recchi, M. Safi, Handbook on Human Mobility and Migration, Edward Elgar Publishing, 2024.
[2] La definizione di rifugiato, contenuta nell’art. 1, lett. A, co. 2, della Convenzione di Ginevra del 1951, ricomprende chi «a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1°gennaio 1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra».
[3] R. Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 2016: 7.
[4] Anche nota come “Commissione Brundtland”, dal nome della presidente della commissione stessa, Gro Harlem Brundtland, all’epoca capo del governo norvegese. Come si ricorderà, si trattava della terza commissione internazionale (Common Future) voluta dalle Nazioni Unite per gettare luce sulle tre grandi problematiche dell’epoca (e che oggi conservano purtroppo tutta la loro attualità): i rapporti Nord-Sud (la Common Crisis della Commissione Brandt) e la questione degli armamenti e della sicurezza globale (la Common Security della Commissione Palme).
[5] Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano, 1988: 355.
[6] Per i dati United Nations Population Division, v. https://population.un.org/wpp/
[7] Che si contrappongono ai cd. “stranieri non immigrati”, vale a dire tutti i bambini e i giovani che, nati in un determinato paese da genitori stranieri, sono legati alla cittadinanza del paese di nascita dei genitori, e non possiedono il passaporto de paese in cui sono nati e vivono. Un caso esemplare, a questo proposito, almeno fra i Paesi di immigrazione, è proprio quello dell’Italia, dove l’anacronistica legge sulla cittadinanza del 1992 impedisce ai bambini nati in Italia da genitori stranieri di possedere la cittadinanza italiana, almeno fino al compimento del 18° anno di età.
[8] Per un’analisi più approfondita dei dati riportati, si veda A. Ricci, Migrazioni globali, demografia e sviluppo, in IDOS, Dossier Statistico Immigrazione, Roma 2023: 25 e ss.
[9] H. De Haas, The Determinants of International Migration, International Migration Institute, University of Oxford, 2011: 27.
[10] La classificazione è ripresa da: L. Wittenberg, Managing Mixed Migration: the Central Mediterranean Route to Europe, International Peace Institute, New York, April 2017.
[11] «Nascere nella merda non vuol dire restare nella merda», come chiarisce senza troppi giri di parole Claudia Yamileth Mejia Segura, richiedente asilo salvadoregna a Napoli: R. Staglianò, Claudia. Non mi lamento. Mai, in Il Venerdi di Repubblica, n. 1878, 15 marzo 2024: 54.
[12] V. Calzolaio, T. Pievani, Libertà di migrare, Einaudi, Torino, 2016: 110.
[13] Ibidem: 113.
[14] World Bank, Migrants, Refugees and Societies, World Development Report 2023: 78.
[15] E. El- Hinnawi, Environmental Refugees, UNEP, Nairobi, 1985: 7.
[16] N. Myers, Environmental Refugees in a Globally Warmed World, BioScience Vol. 43, No. 11: 752-761, Dicembre 1993: 752.
[17] Le definizioni riportate sono tratte da: IOM, International Migration Law, N. 34, Glossary on Migration, 2019.
[18] Si fa qui riferimento in particolare ai diritti elencati nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
[19] D. Williams, T. Lauron,. N. Charaby, Rosa Luxemburg Foundation, Socio-ecological Transformation – Climate Justice- COP28 Loopholes, False Solutions and Empty Promises, in https://www.rosalux.de/en/news/id/51466/loopholes-false-solutions-and-empty-promises.
[20] Conclusioni della presidenza della COP28, in https://www.youtube.com/watch?v=VMzKlzWdkvA.
[21] Dichiarazione del Ministro italiano per l’Ambiente, Pichetto Fratin, inhttps://www.mase.gov.it/comunicati/cop28-pichetto-intesa-bilanciata-da-italia-impegno-miglior-risultato.
[22] L’Intergovernmental Panel on Climate Change è il foro scientifico creato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale del pianeta. L’IPCC ha di recente pubblicato il 6° Rapporto di valutazione: IPCC, 2023: Summary for Policymakers, in: Climate Change 2023: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Core Writing Team, H. Lee and J. Romero (eds.)]. IPCC, Geneva, Switzerland: 1-34, doi: 10.59327/IPCC/AR6-9789291691647.001.
[23] IPCC, op. cit.: 10.
[24] IPCC, op. cit.: 18.
[25] IPCC, op. cit.: 28.
[26] Una Conferenza come la COP28 (come peraltro le 27 che l’hanno preceduta) partorisce in primo luogo un profluvio di documenti e decisioni nel quale è tutt’altro che facile raccapezzarsi, alla ricerca di quelle che davvero contano, annegate in un oceano di parole che fa ripensare al celebre intervento in cui Greta Thunberg stigmatizzava l’incessante chiacchiericcio verde dei leader mondiali, affermando che «there is no planet B, there is no planet bla; bla, bla, bla»
(https://www.youtube.com/watch?v=6t2FQVjbN0c), con l’allora ministro Cingolani che si affannava a replicare che «al di là dei modi di esprimersi di comunità diverse, anche per questioni generazionali,… sono state dette le stesse cose». Il settore del sito della UNFCCC dedicato alle COP, alla richiesta di elencare le “decisioni” prese, restituisce infatti un elenco di 915 documenti.
[27] Amnesty International, Al via la COP28: cosa c’è da sapere, 20 novembre 2023, in https://www.amnesty.it/al-via-la-cop28-cosa-ce-da-sapere.
[28] V. F. Barataud, L. Husson, S. Mariette, “Evitare l’autoritarismo climatico”, in Le Monde Diplomatique/Il manifesto, marzo 2024: 18.
[29] G. Sriskhantan, K. Voigt, T. Lauron, D. Willams, Socio-ecological Transformation – COP27 A Tale of Two COPs, Rosa Luxemburg Foundation, 12 giugno 2022.
[30] N. Lakhani, $ 700m pledged to loss and damage fund at Cop28 cover less than 0.2% needed, in The Guardian, 6 dicembre 2023.
[31] I. Manzo, I prossimi passi per l’Italia dopo le decisioni della COP28, 15 dicembre 2023, in https://asvis.it/editoriali/1288-19130/i-prossimi-passi-per-litalia-dopo-le-decisioni-della-cop-28.
[32] V. https://www.energy.gov/articles/cop28-countries-launch-declaration-triple-nuclear-energy-capacity-2050-recognizing-key
[33] Il CCPI (Climate Change Performance Index) Report prende in considerazione 63 Paesi, più l’Unione europea nel suo complesso, che insieme sono responsabili di oltre il 90% delle emissioni globali.
[34] V. www.ccpi.org/country/ita.
[35] Si tratta di un raggruppamento, attualmente composto da 32 Paesi di tutto il mondo, che si definiscono “pionieri che hanno concordato di sviluppare strategie climatiche ambiziose, per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”. V. https://carbon-neutrality.global.
[36] Per approfondimenti, v. https://energy.ec.europa.eu/topics/energy-efficiency/energy-efficient-buildings/energy-performance-buildings-directive_en
[37] V. F. De Benedetti, Green Deal, la retromarcia di von der Leyen: sì ai pesticidi (e alle destre), in Domani, 6 febbraio 2024 e D. Carretta, Ursula von der Leyen mina il suo Green deal per quietare gli agricoltori, in Il Foglio, 7 febbraio 2024.
[38] M. Pelagalli, Terreni incolti: Pac, la deroga sul 4% a set aside è servita, in https://agronotizie.imagelinenetwork.com/agricoltura-economia-politica/2024/02/14/terreni-incolti-pac-la-deroga-sul-4-a-set-aside-e-servita/81252,
14 febbraio 2024.
[39] V. https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/06/da-rivoluzione-il-green-deal-diventa-ideologia-il-programma-ppe-sconfessa-5-anni-di-von-der-leyen-migranti-modello-uk-rwanda/7470156/
[40] Peraltro, il “Patto europeo sulla migrazione e l’asilo”, appena approvato dal parlamento europeo, contempla la possibilità di detenere i richiedenti asilo al di fuori del territorio dell’UE. Si veda in proposito ASGI, Requiem per il diritto d’asilo in Europa? Possiamo ancora evitarlo, 9 aprile 2024, in www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/requiem-per-il-diritto-dasilo-in-europa-possiamo-ancora-evitarlo/.
[41] Forse non è un caso che nella Commissione europea sia presente un Commissario alla “promozione del nostro stile di vita europeo” (v. https://commissioners.ec.europa.eu/margaritis-schinas_en?prefLang=it&etrans=it)
denominazione che ha sostituito il precedente Commissario all’immigrazione, quasi a insinuare un contrasto fra le migrazioni e un presunto “stile di vita europeo”. In proposito si veda anche: https://www.linkiesta.it/2019/09/unione-europea-commissione-protezione-stile-di-vita-europeo/
[42] La crisi climatica, sembra quasi banale ripeterlo, non risparmia neppure la “nostra” parte di mondo. Lo hanno ben capito le “Anziane per il clima Svizzera” (www.anziane-clima.ch), un movimento che rappresenta oltre 2.500 donne ultra-64enni, e che di recente ha riportato una vittoria storica, che fa ben sperare per il futuro. Il 9 aprile scorso, infatti, la Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU), stabilendo per la prima volta un legame fra la tutela dei diritti umani e il rispetto degli obblighi sul clima, ha condannato lo stato svizzero per non aver adottato misure sufficienti per contrastare i cambiamenti climatici.
43] È la posizione del collettivo francese “Scientifiques en rébellion”, riportata in “Le Monde Diplomatique/Il manifesto, cit. in nota 28.
[44] V. S. Altiero e M. Marano (a cura di), Crisi ambientale e migrazioni forzate, L’”ondata” silenziosa oltre la Fortezza Europa, Associazione A sud, CDCA, Roma, 2016: 18-26.
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Paolo Attanasio, dopo quindici anni di lavoro in Italia e all’estero nel settore della cooperazione internazionale, si dedica ormai da diversi anni allo studio del fenomeno migratorio e all’attività di ricerca e consulenza nel settore. Dal 2002 è redattore del Dossier statistico immigrazione, e dal 2007 referente regionale del Centro Studi e Ricerche IDOS, prima per la provincia autonoma di Bolzano, e attualmente per il Friuli Venezia Giulia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni e rapporti di ricerca, come pure la partecipazione a numerosi progetti di integrazione economica e sociale degli stranieri. Nel 2018 ha pubblicato, con Antonio Ricci, il volume Partire e Ritornare, uno studio sulle migrazioni fra Italia e Senegal.
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“È già primavera? E l’inverno”?
El Roto, Spagna. Da Internazionale n. 1555, 22 marzo 2024, pag. 114