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Dai protocolli al campo. La sfida interculturale della scuola italiana

Alunni e alunne della scuola primaria dell'Istituto di Pioltello alla fine dalle lezioni 18 marzo 2024 (ANSA/ANDREA CANALI)

Alunni e alunne della scuola primaria dell’Istituto di Pioltello alla fine dalle lezioni 18 marzo 2024 (Ansa/Andrea Canali)

di Dario Inglese 

Introduzione

Se si analizzano con spirito critico e un minimo di onestà intellettuale (per non dire buon senso) certe retoriche securitarie in materia di integrazione della popolazione straniera in Italia, non si può non notare la tendenza a investire la scuola di un ruolo particolare e all’improvviso centrale all’interno dello spazio pubblico: quotidianamente svilita, delegittimata e privata di risorse adeguate allo svolgimento della propria funzione primaria, quella educativa e formativa, essa viene magicamente trasformata in una roccaforte contro il caos indistinto della diversità culturale che bussa alle nostre porte; un bastione di frontiera ciclicamente alle prese con orde di barbari che tentano di entrare o che, oltrepassato il limes, cercano di minare alla radice i fondamenti della nostra identità nazionale. La scuola, in quanto spazio di primo contatto con tale anarchica alterità, ritorna così al centro dei discorsi populisti e sovranisti come argine simbolico contro l’invasione. Almeno fino alla prossima emergenza.

Si prenda il recente caso che ha visto protagonista l’Istituto Comprensivo Iqbal Masih di Pioltello (MI), area della provincia milanese ad alto tasso di immigrazione (soprattutto maghrebina ed egiziana), il cui Consiglio d’Istituto ha deliberato la sospensione delle lezioni per lʻĪd al-fiṭr (la festa di fine Ramadan tra il 9 e il 10 aprile 2024) suscitando le reazioni scomposte di tanti autoproclamatisi difensori dell’italianità dallo spettro della sostituzione etnica e della resa al politicamente corretto. Com’era prevedibile, infatti, la notizia della “chiusura per il Ramadan”, gonfiata ad arte e disancorata dal contesto locale per essere traslata sul terreno astratto dei dibattiti valoriali, ha fatto da megafono a tante rivendicazioni identitarie atte a presidiare il discorso pubblico e orientarlo in senso conservatore. Essa ha così mostrato, una volta di più, quanto sia difficile per certi commentatori sottrarsi alla logica dello scontro quando si parla di simboli e dinamiche culturali e, cosa se possibile ancor più grave, quanta poca familiarità con la normativa scolastica e le disposizioni in materia di diritto allo studio abbiano molti rappresentanti istituzionali.

Che serva tanta antropologia nel discorso politico e pubblico è qualcosa che sosteniamo da anni, anche su questa rivista. Tuttavia, almeno in questo caso, una semplice competenza di massima sui pronunciamenti ufficiali degli organi dello Stato avrebbe potuto chiudere immediatamente la faccenda senza trasformarla nell’ennesima polemica fine a sé stessa. Ecco perché, tralasciando per motivi di spazio i riferimenti puntuali alle disposizioni legislative generali [1], di seguito mi soffermerò sull’analisi dei protocolli ministeriali in materia di integrazione scolastica con l’obiettivo di osservare da vicino l’evoluzione dell’approccio italiano al tema e la progressiva (e faticosa) costruzione di una “prospettiva interculturale” di matrice antropologica. Partirò dalle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri approntate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel 2006 e nel 2014; quindi proseguirò con due testi redatti dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale: La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (2007) e Orientamenti interculturali. Idee e proposte per l’integrazione di alunni e alunne provenienti da contesti migratori (2022) [2]. Un tale lavoro di analisi, per quanto rapido, trova la sua ragione d’essere nella necessità di mettere un po’ d’ordine in un dibattito, sostenuto da politici in perenne campagna elettorale e giornalisti/opinionisti in cerca di scandali, incapace di affrontare adeguatamente il fenomeno migratorio e, soprattutto, pericolosamente ancorato a un’idea muscolare – Noi Vs Loro – delle identità in gioco. Ha inoltre l’obiettivo di riconoscere alla scuola l’attenzione che merita evidenziando la sua funzione precipua: quella di ponte e non certo di argine.

Istituto Comprensivo Iqbal Masih di Pioltello (MI)

Istituto Comprensivo Iqbal Masih di Pioltello (MI)

Prima di cominciare, tuttavia, sarà meglio anticipare una probabile obiezione: il “caso Pioltello”, si potrebbe infatti argomentare, non ha certo messo in discussione il diritto all’istruzione degli alunni di origine straniera della cittadina lombarda, bensì la decisione di sospendere le lezioni per una festività religiosa non ufficialmente riconosciuta. Vero, ma non si possono non considerare almeno due aspetti: 1) in accordo col principio di autonomia (D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275), le singole scuole possono stabilire, senza intromissioni terze, i giorni di chiusura annuali sulla base di comprovate esigenze didattiche legate anche alla specificità del territorio: nel caso in questione, come l’esperienza degli anni precedenti ha insegnato, la praticamente certa defezione di gran parte degli studenti il 10 aprile 2024; 2) al di là del linguaggio tecnico-burocratico usato dal Ministro dell’Istruzione e del Merito per stigmatizzare la scelta della scuola di Pioltello, il dibattito ha immediatamente assunto toni censori nei confronti del Dirigente Scolastico dell’IC Iqbal Masih e  accenti allarmistici rispetto al pericolo della perdita delle radici che obbiettivamente poco hanno a vedere con la vicenda specifica.

Ricordare i pronunciamenti ufficiali degli organi dello Stato, allora, potrebbe rivelarsi uno sforzo utile a smascherare la strumentalità politico-ideologica di certe posture e a evidenziare che il “problema integrazione” non riguarda le sole minoranze alloctone, bensì l’intero corpo nazionale, società accogliente in primis; che i confini tra Noi e Loro non sono mai netti e dati una volta per tutti; che la validità delle pratiche di accoglienza e integrazione non va mai giudicata in astratto perché la sua tenuta si misura in riferimento ai casi concreti, soprattutto quando qualcosa arriva a perturbare l’ordine culturale immutabile che ci illudiamo governi le nostre società da sempre e per sempre.

slide_1Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (2006)

Le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri pubblicate nel 2006 hanno l’obiettivo di indicare le azioni amministrative e didattiche a sostegno dell’inserimento dei minori privi di cittadinanza nel sistema scolastico italiano.

La prima sezione del documento (MIUR, 2006: 1-5) riconosce nel fenomeno migratorio un «elemento costitutivo delle nostre società nelle quali sono sempre più numerosi gli individui appartenenti a diverse culture» (Ivi: 1) e nella scuola l’istituzione incaricata di guidare il processo di piena integrazione della popolazione immigrata grazie alle misure di sostegno da essa implementate (Ibidem). L’Italia, continua il testo, fa sue la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e la Convenzione sui diritti dell’infanzia (1989) e, pur a fronte di una presenza straniera nelle scuole del territorio nazionale ancora disomogenea (Ivi: 2), riconosce i cambiamenti in corso e prende atto della natura strutturale del fenomeno migratorio (Ivi: 3). La scuola italiana opta allora per una nuova educazione alla cittadinanza ben salda nello spazio comune europeo: una formazione «radicata nell’identità nazionale, capace di valorizzare le tante identità locali e, nel contempo, di far dialogare la molteplicità delle culture entro una cornice di valori condivisi» (Ibidem). Rifiuta, infine, tanto gli approcci assimilazionisti, quanto «la costruzione ed il rafforzamento di comunità etniche chiuse» (Ivi: 4).

La seconda sezione (Ivi: 6-18), cui si aggancia un’appendice con la normativa di riferimento e una nota di approfondimento, sviluppa le indicazioni programmatiche presentate in precedenza e propone un elenco di istruzioni che hanno l’ambizione di guidare sul campo l’azione di Dirigenti scolastici, docenti, personale ATA, mediatori culturali, facilitatori linguistici, famiglie e alunni [3].

Una lettura attenta trasmette la sensazione che il documento sia stato redatto sull’onda del disorientamento provocato dal mutamento sociodemografico in atto in Italia negli ultimi decenni. Da questa prospettiva, le Linee guida non sembrano andare molto oltre un generico riconoscimento della società multiculturale e vaghe indicazioni a favore di una pedagogia aperta. A supporto di questa affermazione si potrebbero citare (almeno) due elementi: 

1) Nonostante sia investita di una strategica importanza, la formazione interculturale del personale scolastico è poco più che una mera dichiarazione d’intenti. Il testo auspica l’attivazione di percorsi accademici abilitanti per gli insegnanti, lo sviluppo di competenze nella didattica dell’italiano come lingua seconda e l’avvio di rapporti tra scuole, enti territoriali e Università, ma non fornisce dettagli o istruzioni dettagliate in tal senso;

2) La figura del mediatore culturale, già tratteggiata dalle precedenti norme generali sull’immigrazione (Legge n. 40 del 6 marzo 1998 e n. 189 del 30 luglio 2002), è vista come un tramite tra culture differenti e ben definite (Ivi: 15). Il testo (paragrafo 6) si risolve in una lunga lista di compiti che tale figura potrebbe svolgere a scuola (accoglienza e tutoraggio; interpretariato e traduzione; ideazione di percorsi didattici interculturali; conoscenza e valorizzazione di paesi, lingue e culture altre, etc.); compiti in certi casi involontariamente tautologici: i mediatori, si legge a un certo punto, sono chiamati a svolgere «compiti di mediazione nei confronti degli insegnanti» (Ivi: 13). Non è dato sapere, però, chi sia effettivamente un mediatore, come selezionare una tale figura e, soprattutto, come inserirla in classe o metterla in contatto con le famiglie. Parimenti indiscussi, inoltre, sono i presupposti epistemologici che sembrano legittimare l’azione di questa figura: l’idea, cioè, che un singolo individuo possa essere un portavoce di una cultura vista come un tutto internamente coerente e omogeneo. La glossa finale – «Resta fermo che la funzione di mediazione, nel suo insieme, è compito generale e prioritario della scuola stessa, quale istituzione preposta alla formazione culturale della totalità degli allievi nel contesto di territorio» (Ivi: 15) – introduce un elemento interessante in modo fin troppo sbrigativo. 

All’interno di una siffatta cornice, la migrazione emerge come un fenomeno eccezionale, straordinario, da affrontare secondo una logica emergenziale e settoriale: il comparto scuola, che sembra assumere un atteggiamento difensivo, è chiamato a organizzarsi in una condizione di isolamento rispetto alla società nel suo complesso. Da una tale impostazione deriva un corollario: mentre le azioni di integrazione sono pensate per i soli immigrati, il tessuto scolastico, al di là della necessità di adattare le proprie pratiche educative alla mutata realtà, si limita ad erogare servizi senza mettere veramente in discussione il proprio funzionamento e la propria idea di società e comunità.

p1Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (2014)

Il protocollo del 2014 è diviso in due sezioni che ricalcano la struttura del documento del 2006: nella prima parte si analizza il contesto nazionale e internazionale in cui si collocano le politiche scolastiche interculturali; nella seconda, invece, si forniscono istruzioni per l’accoglienza degli alunni stranieri in Italia e la formazione del personale scolastico. Tra i due contributi, tuttavia, si colloca La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, testo redatto nel 2007 dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale che analizzerò successivamente e che, lo anticipo, sembra responsabile del cambio di rotta intrapreso dal MIUR con le Linee guida del 2014.

Il presente documento (2014) supera il rigido schematismo del suo predecessore – l’approccio Noi/Loro – e apre l’argomentazione con una domanda dal sapore programmatico: «Scuola multiculturale o scuola internazionale?» (Ivi: 3). Tale quesito sembra riconoscere i limiti di un approccio multiculturalista per sostenere che «l’educazione interculturale costituisce lo sfondo da cui prende avvio la specificità dei percorsi formativi rivolti ad alunni stranieri, nel contesto di attività che devono connotare l’azione educativa nei confronti di tutti» (Ivi: 4). Esso, soprattutto, attenua la distinzione rigida tra cittadini e immigrati che scorreva sottotraccia nel testo del 2006: 

«La scuola […] è un luogo centrale per la costruzione e condivisione di regole comuni, in quanto può agire attivando una pratica di vita quotidiana che si richiami al rispetto delle forme democratiche di convivenza e, soprattutto, può trasmettere i saperi indispensabili alla formazione della cittadinanza attiva. Infatti, l’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia quella di una convivenza tra comunità etniche chiuse ed è orientata a favorire il confronto, il reciproco riconoscimento e arricchimento delle persone nel rispetto delle diverse identità e appartenenze e delle pluralità di esperienze spesso multidimensionali di ciascuno, italiano e non» (Ibidem). 

La discussione continua poi con la definizione delle tipologie di alunni di origine straniera e auspica lo sviluppo di percorsi di accoglienza mirati e il più possibile personalizzati: l’esperienza di uno studente straniero scolarizzato in istituti italiani, infatti, è completamente diversa da quella di un giovane appena arrivato nel nostro Paese. A tal proposito, il testo introduce la distinzione tra «alunni con cittadinanza non italiana», «alunni con ambiente familiare non italiano», «minori non accompagnati», «alunni figli di coppie miste», «alunni arrivati per adozione internazionale», «alunni rom, sinti e caminanti», «studenti universitari con cittadinanza straniera» (Ivi: 4-7). Rispetto al documento del 2006, inoltre, le nuove Linee guida prestano maggiore attenzione ai cicli di istruzione più avanzati (in particolare agli istituti secondari di secondo grado) e universitari (Ivi: 7) e alla formazione rivolta agli adulti: segno inequivocabile che la presenza straniera in Italia si è nel frattempo consolidata e non ha più, ammesso l’abbia mai avuto, carattere d’emergenza (Ivi: 22-24).

Oltre a quanto già indicato, il nuovo testo presenta alcuni dettagli particolarmente interessanti per il nostro discorso: tra questi, degni di particolare attenzione sono quelli relativi all’orientamento e al dialogo tra istituzioni e famiglie al fine di prevenire insuccesso, ritardo e dispersione scolastica tra gli adolescenti e quelli relativi all’importanza del plurilinguismo.

Il ragionamento sull’importanza di un corretto orientamento parte da alcune evidenze statistiche: a) il rapporto tra stranieri nati in Italia e all’estero è sbilanciato sui secondi nella scuola secondaria di secondo grado (Ivi: 7); b) al momento dell’iscrizione al secondo ciclo di istruzione, la maggior parte degli alunni stranieri sceglie, o viene indotta a scegliere, istituti tecnico-professionali (in particolare corsi regionali di durata triennale) o sedi scolastiche vicine all’indirizzo di residenza (Ivi: 14). Questi dati, proseguono gli estensori del documento, suscitano preoccupazione perché pregiudicano tanto la concreta applicazione della normativa sul diritto a pari opportunità educative, quanto un sano inserimento degli alunni privi di cittadinanza nel tessuto socioeconomico nazionale a causa di quella che molti studiosi definiscono «segregazione formativa» o «segregazione scolastica»: la tendenza, alimentata dai pregiudizi dei diversi attori sociali (preconcetti sovente introiettati dagli stessi immigrati), a spingere l’utenza straniera verso percorsi di studio professionalizzanti apparentemente più naturali o adatti ad essa (Ivi: 14-15). È quantomai necessario, pertanto, promuovere attività di orientamento in cui «le scuole e gli insegnanti curino con grande attenzione l’informazione delle famiglie straniere sulle diverse opzioni e opportunità formative, […] incoraggiando sempre scelte coerenti con le capacità e le vocazioni effettive dei ragazzi» (Ivi: 15).

Il testo non va oltre, ma la sensazione è che nello sviluppo di una tale impostazione abbiano giocato un ruolo decisivo alcune considerazioni di ordine antropologico sui pericoli del determinismo culturale (che rivedremo nel già citato La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri del 2007): l’atteggiamento, cioè, che tende ad attribuire meccanicamente le scelte degli individui, specialmente delle persone che arrivano da contesti non occidentali, alla loro appartenenza etnico-culturale e che si può riassumere nella formula apparentemente innocua “loro si comportano così a causa della loro cultura”. Un modo, insomma, per marginalizzare l’altro attribuendogli un’identità chiusa e lontana dalla nostra mentalità e per misconoscere il peso che le condizioni politiche, economiche, sociale e culturali del Paese accogliente rivestono all’interno delle scelte e dei percorsi di vita della popolazione straniera. Un modo, infine, per inibire una reale conoscenza dell’altro.

La riflessione sui vantaggi del plurilinguismo, invece, origina dalla necessità di mettere in risalto le competenze di partenza degli studenti dando visibilità alle loro lingue d’origine anche negli spazi della scuola e di valorizzarne la ricchezza nell’ottica di un confronto il più possibile paritario (Ivi: 18-19). Interessante notare, oltre all’elenco di indicazioni pratiche per il potenziamento dei vari repertori linguistici, un dettaglio non secondario: il paragrafo (6.3) abbandona la dicitura «alunni stranieri» per un più neutro e generico «alunni» (Ivi: 18).  Anche in questo caso il documento non va oltre, e anzi nelle righe seguenti torna a suggerire inconsciamente che il plurilinguismo/bilinguismo riguardi anzitutto le persone di origine straniera (Ivi: 18-19), ma sembra evidente il raggiungimento di una nuova consapevolezza: l’educazione interculturale e interlinguistica riguarda tanto gli italiani quanto gli stranieri.

imagesLa via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (2007)

Nel paragrafo precedente ho fatto riferimento a un documento del 2007, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, redatto dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale facente capo all’allora Ministero della Pubblica Istruzione (oggi Ministero dell’Istruzione e del Merito). Questo testo, come già evidenziato, è stata una importante fonte di ispirazione per la stesura delle Linee guida del 2014: di seguito cercherò di metterne in evidenza i passaggi più importanti e il modo in cui ha contribuito a modificare il linguaggio istituzionale italiano anche grazie al ricorso a molte suggestioni proprie delle scienze umane [4].

Tralasciando, per evitare ripetizioni, la discussione degli aspetti tecnico-operativi (ruolo e funzione degli attori sociali all’interno dello spazio scolastico, riferimenti normativi, aspetti conoscitivi, amministrativi, relazionali, pedagogico-didattici e organizzativi dell’istituzione scolastica, etc.), degni di menzione sono l’impianto teorico generale e l’uso delle “categorie antropologiche” da parte del documento in questione.

Il primo elemento che salta all’occhio è il riconoscimento del carattere necessario dell’approccio interculturale all’istruzione e alla costruzione della vita sociale. Gli estensori del testo, infatti, avvertono che non è più tempo di considerare le politiche di integrazione alla stregua di provvedimenti ad hoc per la sola popolazione immigrata: esse, al contrario, riguardano tutta la società. Il filo rosso che lega la pedagogia al fenomeno migratorio riposa nella consapevolezza che «l’integrazione scolastica è una parte – importante, ma non esaustiva – dell’integrazione complessiva» (Ivi: 20). La scuola, insomma, fa parte di una rete più ampia i cui nodi devono mantenere un dialogo costante per la buona riuscita della relazione educativa e, in prospettiva, per la formazione di cittadini consapevoli: da questo punto vista, «la presenza dei minori stranieri funziona […] da evidenziatore di sfide che comunque la scuola italiana dovrebbe affrontare anche in assenza di stranieri» (Ivi: 6).

Un altro elemento degno di nota è rappresentato dall’attenzione con cui il Memorandum riflette sul concetto di cultura. Partendo dal presupposto che un autentico approccio interculturale debba fondarsi «su una concezione dinamica della cultura» (Ivi: 14), esso denuncia i limiti e i pericoli delle posture relativiste (deterministe e multiculturaliste): queste, sopravvalutando il peso delle appartenenze, presuppongono l’incontro/scontro tra soggetti portatori di culture abnormi e chiuse in sé stesse. Il relativismo (multi)culturalista esasperato, infatti, dietro la scusa del rispetto di una diversità più inventata che sperimentata, erige muri di incomunicabilità imprigionando le persone in «gabbie etnico/etno-culturali» che predeterminerebbero senza appello i loro comportamenti e le loro scelte (Ivi: 15). Un tale punto di vista rinvia ad un assunto ormai assodato in antropologia: l’idea che un atteggiamento determinista sia un modo subdolo di legittimare posizioni di chiusura surrettiziamente etnocentriche – se le culture sono radicalmente differenti e sostanzialmente intraducibili, tanto vale rimanere ancorati alla propria chiudendosi all’alterità.

A un simile modo di fare e pensare, argomenta il testo, va contrapposta una concezione aperta e personalista della cultura che valorizzi gli individui nella loro singolarità (Ibidem) e in cui l’identità non sia vista come una granitica entità data a priori, ma come una costruzione continuamente prodotta dalla relazione e nella relazione. In altre parole, una concezione che rifiuti il multiculturalismo (incontro/scontro di universi culturali chiusi e immobili) a favore dell’interculturalità (incontro tra interpreti originali delle proprie culture che producono continuamente, non senza conflittualità, sintesi nuove).

Quando allora l’Osservatorio invita a non ipostatizzare le differenze finendo con l’etnicizzare o con il folklorizzare gli alunni stranieri intrappolandoli in una diversità irriducibile che li allontana dal tessuto sociale autoctono, esso trasforma l’aula scolastica in una «zona di mediazione tra le culture, il contesto comune in cui si rende possibile il dialogo» (Ivi: 16). In questo processo, la classe interculturale si presenta come «un luogo di scambio con l’esterno, uno spazio di costruzione identitaria di tutti gli alunni […], dove il compito dell’insegnante sarà quello di favorire l’ascolto, il dialogo, la comprensione nel senso più profondo del termine» (Ibidem). Uno spazio, cioè, in cui, anche grazie al contributo dell’antropologia culturale, si rifletta sui pericoli dell’etnocentrismo e si smontino, fino a farli cadere, gli stereotipi che alimentano le retoriche e le pratiche razziste e xenofobe (Ivi: 16-17).

cover-728x1024-1Orientamenti interculturali. Idee e proposte per l’integrazione di alunni e alunne provenienti da contesti migratori (2022)

Nel 2022 l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale pubblica un nuovo Memorandum dall’intento programmatico: Orientamenti interculturali. Idee e proposte per l’integrazione di alunni e alunne provenienti da contesti migratori.

A colpire, in prima battuta, è la precisa scelta terminologica: l’espressione «orientamenti interculturali» funge da biglietto da visita e traccia idealmente la rotta; il tradizionale maschile sovra-esteso viene sostituito da un più inclusivo «alunni e alunne» (anche se nel corso della discussione seguente questa scelta non verrà sistematicamente seguita); soprattutto, uomini e donne di nazionalità straniera presenti in Italia vengono indicati con l’espressione «persone provenienti da contesti migratori». Il favore accordato a una siffatta terminologia [5] è spiegato in un apposito paragrafo (1.3) presente nella sezione Prima parte: il contesto e i riferimenti: rispetto a consolidate formulazioni giuridiche (“alunni stranieri”, “alunni di cittadinanza non italiana”) che non riescono più a cogliere la complessa storia migratoria delle generazioni giovani (figli di coppie miste, adottati, recentemente approdati alla cittadinanza italiana, etc.), il nuovo documento sceglie consapevolmente di ricorrere all’espressione «alunni provenienti da contesti migratori» per sottolineare la natura dinamica di questo fenomeno (Ivi: 15). Analogamente, sceglie di denominare “scuole internazionali” «gli istituti fortemente connotati da multiculturalità e multilinguismo» per evidenziare l’implementazione di prospettive e strategie più adatte ai tempi (Ibidem).

Il testo è articolato in tre segmenti: nel primo si presentano i contesti italiano e internazionale e i riferimenti normativi; nel secondo si traccia un profilo dei soggetti destinatari delle azioni di accoglienza/integrazione (alunni neoarrivati, bambini e bambine 0/6 anni, la nuova generazione di italiani, i minori stranieri non accompagnati, i giovani adulti, le famiglie); nel terzo, infine, si discutono ruolo e funzione degli attori sociali istituzionali (Uffici scolastici regionali, Scuole, CPIA, Dirigenti scolastici, personale docente e non docente) e si declinano istruzioni e proposte.

In generale, il documento del 2022 è una sintesi dei testi precedenti: assume le migrazioni come un fenomeno strutturale del nostro tempo e lavora per fornire strumenti in grado di interpretare adeguatamente le dinamiche socioculturali della contemporaneità e le nuove idee di comunità e appartenenza che ne derivano. I giovani (tutti: “italiani” e “provenienti da contesti migratori”) vengono definiti «mediatori culturali naturali» (Ivi: 22): essi nascono e crescono in ambienti aperti e plurali e sono «allenati a stare in equilibrio tra lingue e culture» (Ibidem). Lo stesso concetto di cittadinanza viene impattato da questa nuova realtà e va riformulato in chiave più dinamica e aperta. Esso non indica più solo lo status formale di cittadino, 

«ma […] la capacità di sentirsi cittadini attivi, in grado di esercitare i diritti e di rispettare i doveri della società di cui si fa parte. In questa prospettiva lo studio della Costituzione fornisce a tutti, italiani e nuovi italiani [6], una mappa dei valori necessari per esercitare la cittadinanza» (Ivi: 23). 

La scuola è allora individuata come «il primo luogo di cittadinanza appresa e vissuta, […] «il “teatro” dell’acquisto della cittadinanza anche formale per gli alunni provenienti da contesti migratori che frequentino continuativamente la scuola» (Ibidem). Posizioni di questo tipo, evidentemente alimentate da un concetto di “cultura” pienamente antropologico, si soffermano sui rischi dell’assimilazionismo e, all’opposto, sui pericoli di una acritica esaltazione delle diversità: 

«Troppo spesso, infatti, una malintesa educazione interculturale è condizionata da una visione folklorica, essenzialistica e relativistica di esaltazione della differenza culturale in quanto tale, anziché da una visione costruttivista della diversità: la diversità culturale può essere concepita solo in termini di identità (ibride e mutevoli) costruite socialmente attraverso l’interazione sociale e non in quanto naturalmente inerenti (inevitabili e immutabili) ad una persona o ad un gruppo» (Ivi: 36). 

A fronte di queste interessanti acquisizioni, si nota però un’oscillazione semantica che veicola non poche ambiguità, nonché la difficoltà ad abbandonare certi modelli di lettura della realtà. In particolare, si riscontra la tendenza a caricare i termini “multiculturalità” e “multiculturalismo” di valenze ora positive (qualcosa cui tendere per la creazione di una società sempre più aperta e partecipata), ora negative (qualcosa di ambiguo da allontanare in favore di un “approccio interculturale”). Il paragrafo 3.6 (Educazione interculturale) da questo punto di vista è emblematico: dopo aver più volte riconosciuto il carattere “multiculturale” della nostra scuola e della nostra società, gli estensori del testo affermano la necessità di «facilitare il passaggio da una situazione di multiculturalità, con la semplice convivenza fra diverse culture, ad un’autentica situazione di interazione, accettazione e scambio» (Ibidem). In altri passaggi, invece, il documento tende a usare i suddetti concetti – “multiculturalità” e “multiculturalismo” – come sinonimi di “intercultura”.

A pensarci bene, infine, anche la metafora prima riportata – quella dei giovani «mediatori culturali naturali» in bilico tra lingue e culture – è meno trasparente e neutra di quanto possa sembrare a tutta prima. Essa, infatti, indugia su un’immagine piuttosto rigida della vita sociale, come se le identità fossero tanti abiti da indossare e utilizzare secondo il bisogno, ma sostanzialmente ben separati. Una tale concezione, se mal interpretata o, peggio, estremizzata ad arte, anziché favorire il dialogo e l’incontro può inibirlo, con tutte le conseguenze del caso. 

La festa per la fine del Ramadan: Campo profughi di Rafah, Striscia di Gaza (EPA/HAITHAM IMAD/ansa) https://www.ilpost.it/2024/04/10/eid-al-fitr-2024-ramdan-fine-festa/gaza-displaced-palestinians-perform-eid-al-fitr-prayer/

La festa per la fine del Ramadan: Campo profughi di Rafah, Striscia di Gaza (EPA/Haitham Imad, Ansa)

Conclusioni aperte e parziali 

Il 10 aprile 2024, Ibrahim, Emad e Amir, dopo un mese molto difficile dal punto di vista fisico, si sono assentati. Me l’avevano già comunicato una settimana prima col sorriso sulle labbra (motivo per cui avevo deciso di posticipare una verifica inizialmente programmata per quella data): “Prof., il 10 facciamo festa, stiamo a casa!”. Il giorno successivo, al loro rientro, hanno portato in classe i dolci tipici dellʻĪd al-fiṭr, li hanno presentati con una punta di orgoglio (“li hanno preparati le nostre madri”) e li hanno offerti a me e agli altri compagni. Il clima di convivialità ha investito tutti: mangiare con gusto, sentire gli studenti direttamente coinvolti parlare del Ramadan, ascoltare gli altri ricordare tradizioni di famiglia, discutere degli intrighi della dinastia Giulio-Claudia nella prima Roma imperiale con la bocca piena, vedere colleghe e colleghi arrivare in classe per reclamare un dolcetto e chiedere la ricetta è stato un modo inaspettato di fare comunità.

All’uscita, lungo il tragitto verso la metropolitana, ho ripensato ai quattro documenti sopra presentati. Redatti nell’arco di appena tre lustri, essi mostrano con discreta chiarezza l’evoluzione del discorso pubblico italiano su accoglienza e integrazione a scuola. Rivelano, altresì, quanto profondi siano i cambiamenti cui sta andando incontro la nostra società e, soprattutto, quanto lavoro ci sia ancora da fare per leggerne le dinamiche e approntare politiche adeguate. Ovviamente non è dato conoscere quel che succederà nel prossimo futuro, tuttavia è evidente che, con la sensibilità interculturale che si sforzano di promuovere e l’accoglimento di molte suggestioni antropologiche, documenti di tal fatta possono aiutare a tracciare un percorso aperto e condiviso.

Subito dopo ho ripensato alle polemiche politiche sulla scuola di Pioltello (alla “chiusura per Ramadan” e ai timori sull’italianità in pericolo) e ho realizzato che, al di là dei protocolli istituzionali, ciò che davvero manca a gran parte dell’opinione pubblica è una conoscenza di prima mano dell’alterità – una sensibilità antropologico-etnografica la definirei. La diversità immaginata, infatti, appare molto più misteriosa di quanto in realtà non sia quando viene vista da vicino; e per quanto possa anche restare altra, o comunque difficilmente traducibile nei nostri termini, cionondimeno anch’essa concorre, con le identità di ciascuno, a creare un ambiente autenticamente aperto e plurale. In una parola: vivo. Il punto, allora, non è fissare con pedante zelo burocratico la percentuale di stranieri per classe (eliminando dall’equazione le condizioni strutturali del più ampio contesto sociale in cui le famiglie, italiane e non, si trovano a vivere) per evitare che si ripropongano altri “casi Pioltello”, né pensare che aggiungere festività al novero di quelle già previste dal calendario possa risolvere magicamente tutti i problemi posti dalla convivenza. Si tratta invece, semplicemente, di riconoscere che cittadini vecchi e nuovi e stranieri costruiscono ogni giorno la comunità che abitiamo (e, con essa, la stessa idea di italianità) e che ragionare secondo schemi rigidi è solo un modo per non far nulla o, peggio, alimentare un clima di conflittualità. Si tratta, in ultima analisi, di accettare la sfida antropologica e didattica che la scuola di Pioltello ha posto: stare pienamente nella relazione mettendo in discussione non soltanto gli altri, ma prima di tutto noi stessi e non rifiutare a priori l’eventualità che ciò possa cambiare tutte le parti coinvolte – cosa che col tempo accade comunque, anche se fingiamo di non vederlo.

Certo, come l’antropologia ha mostrato fin troppo bene, c’è qualcosa di “paradossale” nell’interculturalità: benché ogni cultura sia di fatto intercultura (ambiente comunicativo aperto al costante afflusso di apporti esterni e continuamente generantesi nella dialettica tra identità e alterità), tale realtà si nasconde alla percezione consapevole e va (ri)portata alla luce grazie all’educazione alla differenza. Ecco perché la scuola può rivestire oggi un ruolo decisivo: essa è confluenza e punto d’incontro di molteplici appartenenze; è un iper-luogo impattato in maniera evidente dai processi innescati dalla globalizzazione e dalla transizione dell’Italia da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione; è uno spazio in cui le identità individuali e collettive s’incontrano ridefinendosi e trasformandosi continuamente (e inconsapevolmente); è uno spaccato del più ampio tessuto sociale alle prese con i temi dell’accoglienza e dell’integrazione; è un laboratorio in cui le persone, di qualunque estrazione sociale e provenienza geografica, mettono in gioco idee e visioni del mondo differenti incontrandosi, scontrandosi, producendo sintesi inedite.

La scuola, d’altra parte, ha sempre fatto i conti con l’alterità culturale e, per riprendere l’immagine usata in avvio, più che bastione a difesa del limes deve semmai farsi avanguardia per la costruzione di ponti e nuove forme di socialità. Essa ha sempre incluso al suo interno differenze sociolinguistiche, di genere e di classe sociale e si è nutrita di diversità fin dalla sua origine. Il “problema della differenza” non ha certo fatto irruzione con l’arrivo dei migranti e l’idea di «una felice scuola monoculturale, espressione di una comunità compatta, che a un certo punto viene “invasa” da soggetti esterni e in qualche modo meno “civilizzati” che […] dovrebbero essere “normalizzati”» (Dei, 2018: 12) è solo un mito cui va sostituito un racconto nuovo da costruire e ricostruire giorno dopo giorno. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Note
[1] Si considerino almeno l’articolo 34 della Costituzione (universalità del diritto allo studio), gli articoli 6 e 38 del Testo Unico sull’Immigrazione (D.lgs. n. 286/1998 – obbligo di istruzione anche per i minori non in possesso di regolare permesso di soggiorno), l’articolo 45 del Regolamento di attuazione delle norme del Testo Unico (DPR n. 394/99 e successive modifiche – modalità di iscrizione dei minori stranieri appena arrivati in Italia) e l’articolo 731 del Codice penale (sanzioni in caso di inadempienza dell’obbligo scolastico).
[2] Ovviamente la scelta di concentrarsi sui pronunciamenti dell’ultimo quindicennio non deve far dimenticare quel che è avvenuto prima e che è opportuno richiamare velocemente. L’Italia “scopre” di essere interessata da flussi migratori in entrata a partire dagli anni Settanta del XX secolo, periodo in cui le statistiche iniziano a registrare il fenomeno; mentre “si scopre” paese d’immigrazione all’inizio degli anni Ottanta, quando il XII Censimento generale della popolazione (1981) certifica una tendenza ormai incontrovertibile (Pugliese, 2002: 72). L’ingresso di popolazione straniera nelle maglie dell’istruzione nazionale coglie di sorpresa le istituzioni e la prima circolare ministeriale espressamente dedicata al tema (La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri – L’educazione interculturale) viene emanata solo il 26 luglio 1990 (Zinant, 2017: 42). Dopo questa data, gli interventi legislativi si susseguono a un ritmo più sostenuto: il 2 marzo 1994 viene pubblicata la circolare n. 73, denominata Dialogo interculturale e convivenza democratica: l’impegno progettuale della scuola; nel 1995, invece, negli Annali della Pubblica Istruzione appare lo studio L’educazione interculturale nei programmi scolastici; nel 2000, infine, la Commissione nazionale per l’educazione interculturale afferente al Ministero della Pubblica Istruzione redige il documento Educazione interculturale per la scuola dell’autonomia (Ivi: 43).
[3] Ecco una veloce panoramica dei temi trattati: contrasto alla concentrazione di studenti stranieri nei medesimi istituti e nelle medesime classi e promozione di politiche tese a un’equa distribuzione degli stessi attraverso protocolli di intesa tra scuole ed enti locali; modalità di accoglienza amministrativa degli alunni stranieri (regolari e irregolari) in accordo con la normativa nazionale; modalità di accoglienza comunicativo-relazionale (formazione del personale scolastico e relazione con le famiglie immigrate); modalità di accoglienza educativo-didattica (accertamento dei livelli di competenze e abilità degli alunni e criteri per l’assegnazione alle classi con riferimento all’ art. 45 del D.P.R. 394/99); ruolo e funzione dei mediatori linguistici e culturali all’interno dell’istituzione scolastica; lotta alla dispersione, orientamento e percorsi per il conseguimento dei titoli conclusivi; azioni per l’acquisizione di una buona competenza linguistica; Criteri di valutazione degli alunni stranieri; adozione di libri di testo e materiali didattici «incentrati sui temi del pluralismo culturale» (MIUR, 2006: 17) e potenziamento delle biblioteche «nella dimensione multilingue e pluriculturale […]» (Ibidem).
[4] Alla redazione del documento hanno direttamente contribuito, in qualità di membri del Comitato Scientifico dell’Osservatorio, due antropologi: Paola Falteri e Leonardo Piasere.
[5] Tale scelta lessicale era già stata adottata dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale nella redazione del documento Diversi da chi? (2015), un breve vademecum sulla promozione dell’educazione al plurilinguismo.
[6] È interessante notare a margine che nel presente documento la dicitura nuovi italiani non è mai posta tra virgolette, come invece avveniva prudentemente nel già citato vademecum ‘Diversi da chi?’ del 2015. 
Riferimenti biografici 
Dei F. (2018), “Cultura, scuola, educazione. A cosa serve un approccio antropologico?”, in Dei F., a cura di, (2018), Cultura, scuola, educazione: la prospettiva antropologica, Pisa, Pacini Editore: 9-39. 
MIUR (2006), Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri. 
MIUR (2014), Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri. 
Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale (2007), La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri. 
Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale (2015), Diversi da chi?. 
Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale (2022), Orientamenti interculturali. Idee e proposte per l’integrazione di alunni e alunne provenienti da contesti migratori. 
Pugliese E. (2002), L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Bologna, Il Mulino. 
Zinant L. (2017), “Tra diffidenza e accoglienza: le frontiere della scuola contemporanea”, in Cqia-rivista, VII, n. 22: 40-53.

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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System. Ha recentemente pubblicato presso le Edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi”  il volume Antropologia a tutto campo. Discorsi sulla contemporaneità.

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