di Giacomo Mameli
Con il libro E l’Isola va (Il Maestrale editore 2022) Gianfranco Bottazzi – sociologo dell’economia abituato a usare le parole col bilancino dell’orafo – conferma che «la Sardegna non è un disastro». Forse in questa primavera 2024 non ripeterebbe le stesse parole, perché dal 2022, anno di uscita del documentatissimo saggio (col sostegno della Fondazione di Sardegna), attorno ai nuraghi molte cose sono obiettivamente, e vertiginosamente, precipitate in peggio: sempre più difficile viaggiare, prenotare aerei e navi con costi peraltro osceni, calano gli iscritti alle università, la dispersione scolastica sfiora il 30 per cento, molti neodiplomati scelgono atenei esteri, per carità di Dio non parliamo di ospedali chiusi, della sanità in mano ai privati o dei trasporti interni. Per non parlare dello spopolamento continuo (nei prossimi trent’anni la Sardegna perderà – dicono i demografi – oltre 350 mila abitanti).
L’emigrazione è ripresa. Come nel dopoguerra. Da centri come Carbonia, Iglesias, Macomer, Bosa, Lanusei, Ozieri eccetera lasciano l’Isola, ogni anno, una media di 180-210 giovani tra i 18 e i 34 anni. Nei paesi dell’interno (Ogliastra, Barbagia, Goceano, Gerrei, ma anche nel Sulcis, perfino dalla Gallura) oltre il 70 per cento delle abitazioni è vuoto. Ma, come aveva già fatto col galileiano Eppur si muove (Cuec, novembre 1999), Bottazzi non va sull’oggi ma sui tempi lunghi, fa analisi globali non parziali, insiste e invita, come inguaribile profeta dell’ottimismo, a reagire, a guardare i fatti, i numeri, senza giudizi di valore. In solitaria compagnia con un valente economista sassarese scomparso – Bastianino Brusco, Università di Modena (con Giorgio Fuà aveva scoperto i distretti industriali) – ripete in continuazione che la Sardegna ha soprattutto bisogno di competenze. Che, ahimè, continuano a essere merce molto ma molto rara. In tutti i settori. Nessuno escluso.
Sociologo puro è. Conosce bene la Sardegna dove – giunto da Albinea in provincia di Reggio Emilia dopo la laurea nel 1972 a La Sapienza di Roma – vive da mezzo secolo e ora fa il Cincinnato-Intellettuale-Pensionato a Capoterra. Bottazzi (con Anna Oppo e pochi altri) ha portato la Sociologia ad ottimi livelli nella facoltà di Scienze politiche dell’università di Cagliari animando in tutta la Sardegna, con metodo, dibattiti pubblici che da tempo latitano anche negli atenei. Ha tenuto lezioni con gli studenti certo in aula ma anche nelle fabbriche piccole e grandi, da quelle chimiche (ormai scomparse) ai caseifici o alle cantine sociali più innovative e che si sono consolidate nei mercati internazionali. Nel settore agroalimentare (totalmente deficitario: sette bistecche su dieci sono di carne che arriva dall’estero, idem per i pesci e la frutta) si registrano però i casi di maggior successo del made in Sardinia.
Con l’anagrafe tra la Sella del Diavolo e il Gennargentu, Bottazzi ha continuato a viaggiare per il mondo: i Paesi del Centro Africa, del Sud America. Nel 1997 (per la Cuec) aveva pubblicato Emploi et développement en Europe du Sud raccontando l’Andalusia, l’Algarve, il Languedoc-Roussillon, la Macedonia centrale, per poi affrontare il caso Sardegna con i contributi di Gianni Loy, Maria Letizia Pruna, Giorgio Piano, Sergio Lodde e Paolo Piacentini. Aveva fatto seguito Sviluppo e sottosviluppo, idee, teorie, speranze e delusioni (Aisara Universitas 2007): una summa sull’eredità del colonialismo e l’imperialismo ecologico, la Scuola di Chicago, Daniel Lerner e l’empatia, il marxismo e l’imperialismo, le crisi petrolifere degli anni Settanta e l’ascesa dell’Opec, la crisi del Terzomondismo. E poi due capitoli di un’attualità caldissima: lo sviluppo sostenibile, una nuova ortodossia e la decrescita, l’economia scienza immorale, per chiudere con la neo-modernizzazione.
Il libro E l’Isola va ha dietro di sé questo e tanto altro sapere economico e sociologico. Lo dimostrano le tabelle, le statistiche, i raffronti. Scrive Bottazzi: «A livello dell’Ocde (Organization for Economic Cooperation and Development) l’Italia si colloca tra i Paesi nei quali la distribuzione del reddito e della ricchezza delle famiglie è meno egualitaria». E la Sardegna? «Si colloca in un posizione intermedia tra le Regioni meridionali, che presentano una maggiore disuguaglianza, e quelli del Nord-Centro che hanno invece minore disparità». Citando un altro studio (1995-2000) della Banca d’Italia «la Sardegna è addirittura ai primi posti in Italia per l’equità della distribuzione della ricchezza delle famiglie. L’indice della Sardegna è 0,34 simile a quello della Spagna (0,33) e della Grecia (0,31) un po’ più alto del valore della Finlandia (0,27), della Francia e della Germania (0,29) ma più basso di quello della Gran Bretagna (0,37) e degli Stati Uniti (0,39)».
Ancora qualche altro numero. «La Sardegna è una regione certamente “povera” con il 50 per cento dei suoi abitanti che dichiarano meno di 15 mila euro di reddito annuo; “invecchiata” con quasi il 40 per cento che vive di pensioni e/o trasferimenti pubblici, il 4 per cento più ricco intasca “solo” il 14,4 per cento del reddito complessivamente disponibile».
Bottazzi insiste da tempo anche sui consumi. «Nel triennio 2017-2019 il consumo medio sardo per abitante rappresenta quasi il 93 per cento dei consumi dell’Italia in complesso (83 per cento rispetto al Nord, 90 per cento rispetto al Centro e 112 per cento rispetto al Mezzogiorno). Insomma: si produce 70 e si consuma 83. Su questa base è facile dare spiegazioni facili quanto fuorvianti. Tali sono le argomentazioni, ad esempio, avanzate da chi, soprattutto al Nord, insiste sull’idea di una Sardegna (come parte del Mezzogiorno) parassitaria e sprecona, sostanzialmente “mantenuta” dal laborioso Nord»
Ma i dati sull’Isola non sono sempre negativi. Dal dopoguerra, dall’Autonomia del 1948 (con l’Autonomia tutta da ripensare ma oggi messa in discussione da chi oggi ha Pil e tanti altri parametri ben maggiori) ha cambiato pelle, in pochi decenni ha conosciuto l’industria e l’istruzione di massa (i livelli di istruzione femminili sono superiori di gran lunga a quelli maschili), passando dal Medioevo alla modernizzazione: negli anni ‘60 la Sardegna è stata la prima regione italiana a sancire in legge il diritto allo studio, idea di un ex presidente della Regione, Paolo Dettori. In pochi anni la Sardegna, quelli talora discussi delle Cattedrali nel deserto, è passata dal silenzio dell’ovile polifemaico al dialogo della fabbrica. Il banditismo dei sequestri di persona è scomparso (ma oggi la Sardegna è terra di droga, leggete i libri della sociologa sassarese Antonietta Mazzette). Nel cuore dell’isola, lato Tirso, sotto Monte Gonare, l’uomo solitario che rimuginava su faide e vendette è diventato operaio o tecnico in tuta blu apprezzando il confronto, anche duro e spigoloso, nei consigli di fabbrica. Chi – in un paese del cuore della Barbagia – non parlava col vicino di casa, ha conosciuto nei capannoni industriali il valore rivoluzionario dell’assemblea e ha superato inimicizie. Ma, anche davanti a questa metamorfosi sociale, nelle analisi, nella pubblicistica, hanno quasi sempre prevalso le tinte fosche. Perché da Ospitone (Dux barbaricinorum, come lo aveva definito in un’epistola del 594 Papa Gregorio Magno) a Gigi Riva (Rombo di tuono per il giornalista sportivo Gianni Brera nel 1970, anno del mitico scudetto in serie A del Cagliari), il megafono principale è stato quello della lamentela condita più da questue che da proposte. Successe nell’estate del 1976. C’era stata, quasi in contemporanea, una moria di pesci negli stagni di Chioggia in Veneto e di Cabras nell’Oristanese sardo. I veneti dicevano: “Dobbiamo capire le ragioni di questo disastro e porre i rimedi”. I pescatori sardi usavano un altro linguaggio: “Dobbiamo andare alla Regione e farci dare tanti contributi”.
Anche nel sottotitolo del libro (“La Sardegna nella seconda modernizzazione”) Bottazzi accende il semaforo rosso contro i catastrofisti di ogni luogo e di ogni tempo. Perché da decenni ha «l’obiettivo, dichiarato esplicitamente, di sfatare una leggenda, quella di una Sardegna immobile nella sua arretratezza, quasi che tutto dipendesse da una genetica inferiorità degli abitanti, da una mentalità che bloccava ogni possibilità di evoluzione e di sviluppo». Ma è pur sempre cauto anche nel dare il via libera a chi (pochi per la verità) ritiene che la terra dei nuraghi sia diventata il Paese di Alice. Nelle conclusioni mette in guardia da inopportuni ottimismi e si rifugia in una metafora ciclistica: «La Sardegna qualche volta arranca e ha bisogno di qualche spinta, ma resta nel gruppo». Poi spiega: non è «un disastro, o meglio, se lo è, non lo è più di quanto lo siano regioni periferiche dell’Europa come l’Andalusia o la Macedonia, e regioni centrali come la Lombardia o il Baden-Württemberg». Ecco l’analisi che supera il perimetro tra Serpentara e le Bocche di Bonifacio, E poi l’oggi, inquietante: «Tutta l’Europa, come il resto del mondo, vive una fase di grandi mutamenti e non sappiamo bene in quanto tempo, attraverso quali sommovimenti e fatiche, potremo venirne fuori».
Entra nel vivo della società sarda: perché si rende conto che «il giovane o meno giovane disoccupato che trova solo qualche lavoretto in nero e mal pagato», oppure «il laureato che riesce a trovare solo posti da cameriere o lavapiatti e chi, pur lavorando, fatica ad arrivare a fine mese, mi manderà a passeggiare. Come farebbe, giustamente, quel 15 per cento di persone che si trovano in condizione di povertà relativa». Qual è allora il guaio, dov’è la spada di Damocle? «C’è un problema di giustizia sociale, di più equa distribuzione di quanto viene prodotto piuttosto che di risorse disponibili realmente».
Sembra di tornare indietro di 22 anni quando fu Bottazzi, col libro-strenna Eppur si muove, a dare uno scossone a un’isola scioccata dalle delusioni del sogno industriale, finito tra macroscopiche incapacità imprenditoriali (nazionali e sarde) e tra carte bollate con condanne in aule di tribunale. Stiamo però all’oggi, al nuovo libro e leggiamo qualche numero. La Sardegna si situa ancora – come ieri – nell’ultimo quarto delle regioni europee e, in Italia, un po’ più in alto delle regioni del Mezzogiorno. È fra le regioni “in ritardo di sviluppo”. Un ritardo – e qui le parole sono pietre in un pentagramma di vizi capitali – «economico, nelle strutture sociali, nelle istituzioni politiche, nei modi di essere e di pensare». Certo. «Dopo trent’anni i Länder orientali hanno un reddito procapite inferiore del 30 per cento della media tedesca e del 50 per cento rispetto ai Länder più ricchi». E poi la staffilata: «L’Italia è riuscita a fare ancora meno dopo settant’anni».
Tanti guai. È sempre una Sardegna ricca di terreni incolti che non producono. Come detto, vive di importazioni e di pochissimo export: d’estate i turisti non mangerebbero se sulle tavole non venissero serviti prodotti che giungono da OltreTirreno, OltrAlpe, OltreOceano. L’export principale è legato alla raffineria del petrolio della Saras, i servizi «rappresentano l’80 per cento della ricchezza contabilizzata» mentre «l’immobiliare pesa di fatto quanto agricoltura, industria e costruzioni messe assieme». Un immobiliare che «non misura l’attività costruttiva delle strutture murarie ma il profitto di compravendite o locazioni».
Si produce poco, si consuma molto. Bottazzi:
«Un indice del grado di dipendenza dell’economia sarda conferma una forte debolezza, peggiore in questo caso, di quella del Mezzogiorno. È vero che bisogna considerare che, negli ultimi decenni, sono scomparse dalla Sardegna molte imprese di medie dimensioni – pensiamo ai poli di Porto Torres e Portovesme – che comunque rappresentavano una voce significativa per l’economia sarda. Nello stesso tempo la Sardegna è fortemente cresciuta in termini turistici e il turismo è una forma di esportazione. Ciò non toglie che esistano ampi margini per sfruttare potenzialità produttive che la Sardegna certamente possiede, non solo in agricoltura. Ma le difficoltà dell’economia sarda sono ancora più evidenti se guardiamo all’occupazione il cui andamento è stato particolarmente negativo negli anni dell’ultima crisi. Dal 2008 al 2014 la Sardegna ha perso oltre quarantamila posti di lavoro, pari al 6.4 per cento degli occupati. Soltanto nel 2018 si è tornati al numero di occupati che si registravano prima della crisi. Il saldo negativo si spiega soprattutto con il tracollo dell’industria (meno 16 per cento), diminuzione che è proseguita anche negli ultimi anni. Nei servizi invece il numero degli occupati ha continuato a crescere, malgrado la crisi».
Un’osservazione principe: «La dipendenza è il segno caratteristico della storia economica sarda» dominata da «meccanismi di tipo coloniale, scarsa la capacità di innovare». E l’istruzione? Guardiamo non solo la dispersione scolastica ma «gli scarsissimi investimenti in ricerca e sviluppo e le interazioni con la ricerca universitaria». E poi le geremiadi, «la diffusa abitudine al lamento», e «il sentiero della dipendenza» detto “path dependence”? Qui si aprono voragini ancora da scandagliare.
Temi economici, politici (la pubblica amministrazione è efficiente, la classe dirigente è preparata?) e temi sociali. Per questi ultimi Bottazzi dà la parola a Pietro Soddu, democristiano, deputato, più volte presidente della Regione, sindaco di Benetutti (dove è nato 95 anni fa), presidente della Provincia di Sassari. Testuale:
«Uno che conosce bene la società sarda, un vero patriarca come Pietro Soddu, in maniera “categorica” ha parlato di una “cultura della vassalleria”, ossia di un “atteggiamento di tipo cortigiano, servile, che ha caratterizzato i rapporti con le monarchie iberiche prima e con i Savoia poi fino all’avvento della Repubblica. È la vassalleria che ha impedito la nascita di una borghesia operosa e che caratterizza ancora oggi, in misura preoccupante, i rapporti tra rappresentati e rappresentanti”. Una comunità che rifiuta la responsabilità di partecipare al cambiamento, che teme di perdere privilegi e protezioni, che chiede in continuazione grazie, concessioni, appalti, uffici ben remunerati e rifiuta di lavorare per un futuro diverso, questo è stata la classe dirigente sarda per quasi duemila anni. E se questo rifiuto può avere qualche giustificazione per i ceti più bassi, ne ha molto poche per la classe dirigente se così si può chiamare una classe di vassalli che è sopravvissuta a tutte le rivoluzioni e gli sconvolgimenti della storia».
Conclude Bottazzi:
«In una democrazia parlamentare come la nostra, la società politica non è che il riflesso della società civile che la sussume. Non ci piace, ma è così. I nostri politici, eletti da noi, sono disonesti perché noi siamo disonesti, furbetti perché noi siamo furbetti, raccomandati perché noi siamo raccomandati o cerchiamo di esserlo e così via. Abbiamo qui un intrigante campo di ricerca e di dibattito: la società e la politica sarda sono così perché “infettate” dall’Italia o da chi per essa o perché hanno conosciuto una dinamica peculiare tutta interna alla nostra Isola?»
Domanda alla quale Bottazzi, nei panni più del sociologo della politica che dell’economista, potrà rispondere in un prossimo libro. Con una Sardegna che è cambiata, che non è l’ultima ruota del carro-Italia ma che dovrà rispondere a una domanda irrisolta dopo la fine del sogno petrolchimico, con lo spopolamento in atto, con una denatalità preoccupante, con i giovani che fuggono in cerca di lavoro, con le aule sempre più deserte, con la ricerca scientifica araba fenice. Che fare? Ce lo chiediamo da più di vent’anni. I titoli in rosa sono quelli del passato: Eppur si muove, ed era vero. E l’Isola va, ed era vero. Resta un grande punto interrogativo: Quo vadis Sardinia?
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Giacomo Mameli, giornalista e scrittore. A Urbino, dove si è laureato in Sociologia, ha discusso la tesi in Giornalismo con Paolo Fabbri “Quattro paesi, un’isola” (controrelatore Carlo Bo). Collabora con quotidiani e tv nazionali ed estere. Col libro La ghianda è una ciliegia (Cuec 2006) ha vinto il premio Orsello, presidente della giuria Sergio Zavoli, con Hotel NordAmertca (Il Maestrale, 2020) ha vinto il Premio Fiuggi Storia. Altri libri: Non avevo un soldo (prefazione di Alberto Mario Cirese), La Sardegna di dentro, la Sardegna di fuori (prefazioni di Remo Bodei e Giovanni Floris. È direttore artistico del festival letterario SetteSere SettePiazze SetteLibri di Perdasdefogu, quest’anno 14.ma edizione.
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