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Siciliani di Tunisia e relazioni interreligiose (1930-1960). Dall’enfasi del mescolamento all’oblio delle conversioni all’islam

Eglise Saint Augustin et Fidèle, agosto 2017 (ph. Carmelo Russo)

Eglise Saint Augustin et Fidèle, agosto 2017 (ph. Carmelo Russo)

di Carmelo Russo [*] 

Introduzione

Scopo di questo saggio è analizzare alcuni temi inerenti alle relazioni interreligiose, declinate rispetto a questioni cultuali, rituali, sociali, festive e identitarie, i cui protagonisti sono siciliani di Tunisia vissuti nel Paese nordafricano tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo XX. Si vuole mostrare come le narrazioni siciliane rilevino un forte ancoramento al contesto: le costruzioni identitarie si rigenerano in rapporto dialettico alle altre componenti nazionali, sociali e religiose. In primis a quella tunisina, con un raffronto immediato e “spontaneo” con l’islam. Per la stessa ragione i testimoni tendono a evidenziare gli aspetti positivi di una Tunisie Mosaïque (Alexandropoulos, Cabanel 2000) presentata in tono nostalgico, capace di permeare le relazioni interreligiose grazie alla prevalenza, rispetto all’ambito teologico-dottrinale, della socialità, della condivisione, del clima festivo, degli scambi culinari, del ruolo taumaturgico e apotropaico di figure “sante”.

Altre testimonianze permettono di riflettere sulle conversioni all’islam di alcuni siciliani, restituendo storie di relazioni conflittuali e poco “spendibili” nel racconto di un idilliaco “mondo plurale”. Nella gran parte dei casi, il passaggio all’islam ha comportato non solo grandi difficoltà delle famiglie di accettare tali scelte ma persino un forte stigma al punto da destinare all’oblio i “traditori”, tanto nel nome che nell’espunzione dalla genealogia. È questo un argomento innovativo: gli studi si sono concentrati spesso sulle rotture familiari provocate da quei siciliani (e italiani in genere) che optarono per la naturalizzazione francese (Russo 2016) mentre poca attenzione è stata riservata alle conversioni all’islam, meno numerose e non per questo meno significative rispetto all’acquisizione della cittadinanza francese.

Fonti privilegiate utilizzate nel contributo sono quelle orali emerse da una etnografia di lungo periodo, cominciata nel 2012 e ancora in atto: storie di vita in cui i testimoni “ricordano” – ovvero selezionano, sopprimono, enfatizzano e riplasmano (Halbwachs 1925; Fabietti, Matera 1999; Candau 2002) – episodi della propria vita e dei racconti di genitori e parenti. In particolare, tra 2012 e 2017 ho registrato 67 storie di vita, 58 con italiani di Tunisia e 9 con tunisini [1]. Altre fonti utilizzate sono quelle scritte: memorie autobiografiche, pubblicate o ancora inedite, e coevi articoli di stampa locale. Con lo scopo di evidenziare il punto di vista dei testimoni e le forme espressive, alcuni estratti delle interviste [2] e delle fonti scritte sono riportati in discorso diretto. 

Donna musulmana entra a rendere omaggio alla Madonna di Trapani nella chiesa a La Goulette, 15 agosto 2017 (ph. Carmelo Russo)

Donna musulmana entra a rendere omaggio alla Madonna di Trapani nella chiesa a La Goulette, 15 agosto 2017 (ph. Carmelo Russo)

I siciliani in un contesto plurale 

Protagonisti di questo saggio sono quei soggetti che ho definito siciliani di Tunisia. Con tale accezione intendo quelle persone che vantano ascendenze dall’Isola per almeno un avo, tendendo a accentuarle rispetto a altre eventuali linee genealogiche, sottolineando altresì il legame con quello che reputano il loro Paese: la Tunisia. Per i primi quarant’anni del XX secolo i siciliani incisero tra 55% e 75% (Loth 1906: 104; Speziale 2016: 35) tra la popolazione italiana, attestata a sua volta tra le 80 mila e le 95 mila unità [3] (Pasotti 1971: 89). Tuttavia non è il dato statistico ma quello simbolico a prevalere: la scelta dell’identità siciliana è un arbitrio con cui i testimoni vogliono privilegiare una prospettiva genealogico-identitaria tra quelle possibili, sacrificandone altre (Russo 2020b). Una “essenza etnica” incardinata su un elemento, la sicilianità, preminente per meglio descrivere e descriversi, per la capacità di rimandare a un “nucleo duro”, un habitus (Bourdieu 1980: 88) in cui sentimenti di orgoglio endogeno percepiti come riconoscibili e caratterizzanti – senso dell’onore, capacità di adattamento, laboriosità, riscatto sociale – si mescolavano alla rivalsa contro stereotipi prodotti da parte francese – delinquenza, abbrutimento, dedizione alla violenza (Loth 1905: 336; Melfa 2008: 96).

A conforto di questa ipotesi, mi sembra rilevante osservare che nella nostra indagine di campo solo il 17% degli italiani intervistati risalga ad avi di unica origine siciliana mentre gli altri hanno un genitore, un nonno, un avo antecedente proveniente da Toscana, Puglia, Lazio, Abruzzo, ecc. Nel 43% dei casi le genealogie rilevano un antenato straniero: tunisino, algerino, turco, greco, maltese, albanese, perfino francese (Russo 2020b). Queste persone non si definiscono “abruzzesi di Tunisia” o “albanesi di Tunisia” perché tali espressioni non sono riconoscibili quali fondamenti caratterizzanti, preferendo la sicilianità. Al più presentandosi come «siciliano di padre calabrese» o «siciliana, ma mia madre aveva mamma greca e papà turco».

Peraltro, il rapporto tra sicilianità e italianità nella Tunisia del periodo considerato è articolato. A seconda delle percezioni, delle rappresentazioni e delle retoriche, i siciliani erano considerati e si consideravano talvolta “una parte” degli italiani, altre volte le due categorie sfumavano sino a coincidere. In qualche caso l’identità siciliana si frammenta nelle appartenenze specifiche alle varie aree dell’Isola, come accadeva nel caso dei panteschi. Tra gli altri italiani, la comunità ebraica era considerata l’élite intellettuale, imprenditoriale, politica e finanziaria. Impiegata nelle libere professioni – avvocatura, medicina, farmacia, ecc. – e nel commercio, era impegnata nell’associazionismo benefico e in attività di sostegno per gli italiani più poveri, tra cui parte dei siciliani (Russo 2016).

Il 1881 è l’anno di instaurazione del protettorato francese, richiamato da tutti i testimoni come un discrimine che avrebbe favorito l’afflusso di immigrati provenienti da varie parti del Mediterraneo, perlopiù di bassa estrazione sociale (Loth 1905; Melfa 2008: 167; Pasotti 1971: 52-54; Pendola 2007: 60-61), attratti dalle possibilità di impiego anche per le opere di modernizzazione promosse dall’amministrazione francese. Soprattutto le aree costiere del Paese furono interessate dalla compresenza di tunisini, francesi, italiani – di cui, come detto, molti siciliani –, maltesi, greci, turchi, albanesi, spagnoli (Sghaier 1997), portoghesi, russi fuggiti dalla Rivoluzione bolscevica, in misura minore europei centrosettentrionali e balcanici, immigrati dal Nord Africa e da aree subsahariane (Valensi 2000: 24).

La Tunisie Mosaïque (Alexandropoulos, Cabanel 2000) del periodo compreso tra gli ultimi due decenni del XIX secolo e la metà degli anni Sessanta del successivo ha solo enfatizzato processi in atto nei decenni e nei secoli precedenti (Bono 2005: 102-104; Loth 1905: 319-320; Melfa 2008: 49-50; Pasotti 1971: 15-16; Pendola 2007: 10-17 e 59-60; Speziale 2016: 21-29). Non era una condizione ideologica né tanto meno veicolata da un progetto politico-istituzionale favorevole a una mixité positiva: si trattava di una coesistenza dovuta alla spontaneità di ritrovarsi tra “diversi” negli stessi spazi, tra conflitti e pacifica convivenza, tra mescolamenti e separazioni (Russo 2020b).

Per tutto il periodo del protettorato le relazioni furono intessute dalla sperequazione di potere dovuta alla preminenza francese sulle altre componenti nazionali e dall’acuirsi di attriti per minacce di interferenze politiche, tra cui quelle italiane (Lewis 2014), cui il fascismo contribuì. I siciliani riferiscono di discriminazioni e ostilità da parte delle autorità protettorali e dei semplici cittadini francesi. Va detto però che le relazioni tra siciliani e francesi erano complesse e sfaccettate. Se da un lato molte testimonianze insistono sui conflitti, in altri casi si verificarono acquisizioni della nazionalità dei dominatori, sentimenti di ammirazione, relazioni amicali o sentimentali (Russo 2020b).

L’indipendenza (1956) ha alterato le relazioni di potere e comportato una fase di stallo e di sospensione per le collettività europee, che si interrogavano sul proprio futuro e anno dopo anno tendevano a emigrare. Nel 1959 un censimento del Consolato d’Italia rilevò ancora 51.702 italiani, l’86,3% dei quali veniva ascritto a un’appartenenza siciliana (Finzi 2016: 58). Il 12 maggio del 1964 le leggi sulla nazionalizzazione delle terre dei coloni europei colpirono duramente gli italiani (Pasotti 1971: 165), ridotti nello stesso anno a 10 mila individui (ivi: 56), con una diminuzione del 70% rispetto al 1962.

Le condizioni peculiari della Tunisia del Protettorato francese e del primo decennio post-indipendenza hanno favorito contatti tra nazionalità, classi sociali, gruppi confessionali diversi, a loro volta forieri di incontri, accostamenti, sperimentazioni di relazioni interreligiose rimasti nella memoria dei testimoni, talvolta enfatizzati negli aspetti comunitari e della convivenza. In questo senso, i siciliani e i membri di altri gruppi sociali hanno dato vita a interpenetrazioni culturali in cui alcuni aspetti religiosi hanno superato i limiti confessionali: nella socialità, nelle pratiche magico-rituali e nel reciproco scambio, in qualche caso nell’ambito cultuale. 

4-la-tunisie-mosaiqueLa festa e il cibo

Molte testimonianze tendono a rimarcare con tono enfatico una coesione sociale che riusciva a andare oltre le divisioni religiose. Traspare la convinzione che cristiani, ebrei e musulmani del passato tunisino non fossero troppo legati a dogmi e precetti delle proprie religioni, limitandosi a una afferenza debole, rivolta principalmente a aspetti consuetudinari e a abitudini cicliche. Tra queste un ruolo di rilievo spettava alle ricorrenze festive e alla condivisione del cibo. L’adesione fluida all’apparato dottrinale avrebbe incoraggiato maggiore apertura alla diversità: «per esempio [le] famiglie ebraiche facevano soltanto le Grand Pardon: poi mangiavano prosciutto, crostacei. E idem i musulmani: sì, facevano il Ramadan, ma se c’era da mangiare il maiale, lo facevano», racconta Beatrice, parrucchiera in pensione di circa 70 anni, entrambi i genitori di origine siciliana, nata a Tunisi, emigrata a Roma negli anni Sessanta (Roma, 16 gennaio 2016).

Gli stessi siciliani spesso sottolineano una appartenenza al cattolicesimo “di tradizione” più che di fede. Thérèse, 60 anni, afferma: 

«La nostra famiglia non era una famiglia praticante, affatto. Io non ho mai visto andare mamma in chiesa, ma proprio per niente. […] Erano cattolici, però niente, erano battezzati e basta. Io sono stata [a scuola] dalle suore, ma non per il fatto della religione, ma perché le suore ti davano un’educazione» (Cartagine, 4 agosto 2012). 

È molto simile quanto riferisce Gioberto, circa 50 anni, i cui genitori erano entrambi siciliani, coniugato con una donna tunisina, impiegato presso un organismo pubblico italiano: «Mi ricordo che a casa mia si è sempre detto di essere credenti, ma non mi ricordo mai di essere andato a messa. O di aver fatto una qualsiasi, diciamo, manifestazione religiosa. Natale, sì: sacro! Pasqua, sì, certo, assolutamente. Molto rispetto, ma nessuna… Cioè: nessuna frenesia» (Le Kram, 8 agosto 2012). Dei tunisini lo stesso testimone ricorda: «mangiavano il maiale e bevevano il vino».

Dopo l’indipendenza, tra le ambiguità dello Stato laico voluta da Bourguiba e le restrizioni che le organizzazioni cattoliche – ma anche musulmane – dovettero fronteggiare, persiste un ricordo positivo delle relazioni interreligiose. Due sorelle, Thérèse, già citata, e Agata, di 55 anni, di lontane origini siciliane – entrambi i genitori nati a Tunisi da famiglie in cui si mescolano provenienze da Pantelleria e Palermo, ragioni lavorative e politiche – che a metà degli anni Sessanta hanno scelto di partire rispettivamente per Marsiglia e Roma, si esprimono come segue circa la loro infanzia e l’adolescenza negli anni Sessanta: 

Thérèse: Si facevano le feste cattoliche. Pasqua, Natale, niente di problematico, eh?
Agata: Ma a scuola anche, facevano addirittura altre. Tutte le religioni: quando per esempio c’era la festa di Pasqua cattolica, si faceva. Ma si faceva anche il giorno di Kippur, si faceva anche l’Aïd […]. A scuola dalle suore chi era cattolico per esempio poteva andare alla messa. Ti ricordi dalle suore? [rivolgendosi a Thérèse] Però chi era ebreo, chi era musulmano non andava. Nell’ora di messa loro facevano altre cose.
T: Il giorno festivo degli ebrei, non venivano a scuola, era normale. Il giorno festivo per gli arabi, non venivano a scuola e noi sapevamo esattamente che festa era.
[…]
A: Infatti noi siamo vissuti con tutte e tre le religioni: si mangiava pane azzimo quando era Pasqua ebraica, si mangiava abbacchio quando era Pasqua italiana, si mangiava la meloukhiya quando era Salam […]. Ognuno aveva la sua religione, però c’era una interazione di tre religioni, senza nessun attrito.
T: Ognuno la sua, non era importante. Noi siamo nate con l’indipendenza, è stato anche il fatto di Bourguiba che ha voluto questa società laica: ognuno fa la sua religione, ma non c’è che se non fai parte della religione dominante sei proprio… ti devi nascondere: questo non esisteva proprio, perché qui la religione dominante, qui è l’islam, dunque… No, no, non c’era problema.
A: Questo era la nostra epoca, quando noi eravamo ragazzini.
T: Ma anche mamma mi raccontava, quando era piccolina, non c’era problema. Anche al tempo dei bey, non c’erano problemi.
(Cartagine, 4 agosto 2012). 

I ricordi di Ida Cangemi, nata a Tunisi nel 1920 da padre trapanese e madre italiana già nativa del Paese nordafricano, trasferitasi agli inizi degli anni Novanta a Bologna [4], sottolineano elementi molto simili rispetto al clima festivo e allo scambio di cibi legati a ricorrenze religiose: 

«Le diverse feste religiose erano ormai diventate una consuetudine alla quale eravamo abituati. Oltre a essere numerose. Nonostante ognuno festeggiasse le proprie, in città regnava un clima speciale, anche solo quando i vicini portavano le pietanze della loro tradizione in regalo, un po’ come facevamo noi a Natale e Pasqua. Durante il Ramadan, ad esempio, gli arabi preparavano e ci offrivano le zlebie, dolci di pasta fritta al miele di colore arancione a forma tonda» (Bonazzi 2024: 34). 

Qualche volta reciproci inviti caratterizzavano le giornate festive ebraiche, cristiane e musulmane. Più comune era lo scambio di piatti, spesso dolci, come si evince dallo stralcio precedente. Nelle restituzioni memoriali sembra immediato e “naturale” proporre il confronto con l’islam e l’ebraismo. Da non musulmani, molti siciliani, come Ida, aspettavano «la festa di fine Ramadan […], la più importante per il mondo arabo», vivendola «come un momento comunque speciale» (Ivi: 36). Quelle ebraiche al contrario erano «meno visibili, perché festeggiate solo tra di loro in sinagoga o nel quartiere» (ibidem). 

«Quando, però, nei negozi ebraici si iniziavano a vendere sformati di pollo al forno con dozzine di uova, una specie di flan salato con uova e cervello di vitello detto minnina, fave secche cotte condite con salsa piccante e cumino e le classiche gallette di pane azzimo, significava che le feste erano iniziate anche per loro» (ibidem).

In altri casi tuttavia lo spazio festivo ebraico viene presentato nei suoi effetti pubblici. Thérèse, da cattolica che ha frequentato le scuole rette da suore, ha sposato un uomo ebreo di Tunisia, Fernand: 

«Se ti fai raccontare da Fernand, che lui è ebreo, quando era Kippur uscivano di casa con… sai quel velo tradizionale che gli uomini mettono in testa, per coprirsi la testa in segno di lutto, diciamo? Uscivano di casa vestiti così e andavano fino alla sinagoga, vestiti così. Poi quando era la festa della Torah, uscivano la Torah della sinagoga e passeggiavano nella strada. E gli arabi gli dicevano: mabrouk!» 

Elementi concreti e “materiali” – il cibo, il vestiario, luoghi, oggetti rituali – rappresentavano veicolo di conoscenza reciproca dello “scarto religioso”, inverando le suggestioni del loro essere dotati non solo di una “biografia culturale” e di una “vita sociale” (Appadurai 1986; Kopytoff 1986) ma di agency: capaci di proporsi quali soggetti attivi in grado di inculcare abilità tecniche, favorire processi di incorporazione, di orientare le vite degli individui e il loro immaginario (Ingold 2000; Fabietti 2014).

Marco, imprenditore di circa 60 anni emigrato a Roma da Tunisi alla fine degli anni Settanta, con entrambi i genitori di origine trapanese, ricorda in modo nitido la centralità della socialità nel clima festivo degli eventi religiosi: 

«Quando c’è una festa, c’è una festa, eh? Per tutti! Era una festa! Era una festa: dunque anche chi non era cattolico partecipava […]: si mangiava, si rideva e si stava tutti insieme […]. Anche per questo. Per non dire: soprattutto! Era la festa! Era la festa! Dunque, c’era rispetto della festa altrui. Perché magari dici: che festa è? Ah, noi festeggiamo, che ne so, ammazziamo l’agnello. […] Sì, chiedevi il motivo della festa. Ah, va bene: rispettosamente andavi lì e poi dopo festeggiavi. Era un motivo per stare insieme» (Roma, 26 settembre 2015). 

Sono note le riflessioni sulla dimensione sociale dei rituali festivi religiosi proposte da storici delle religioni, sociologi e antropologi, a partire da quelle di Émile Durkheim (1963 [1912]). La devozione, il riconoscimento di un’autorità ecclesiale, di un’ideologia e di un sistema di valori, il desiderio di socialità e solidarietà restituiscono il rituale religioso a un intenso significato collettivo. L’esperienza del singolo è sublimata nel sentimento di appartenenza al gruppo, consolidata dalle feste religiose. La riunione fisica dei membri in uno stesso luogo veicola la percezione di essere parte di una moltitudine e di aderire con molte persone a uno stesso fervore. La consapevolezza del “senso del noi”, di essere parte di una grande unità quale «ampliamento dell’io» implica individuare coloro che ne restano all’esterno (Apolito 2014: 184). Ribadisce i confini che delimitano chi è “dentro” e chi è “fuori”: nelle narrazioni siciliane l’estromissione riguarda puntualmente l’oppressore francese, mentre le relazioni con i tunisini – musulmani e ebrei – sono restituite da elementi di condivisione. «Nulla toglie che il giorno dopo si litigava, si faceva a botte, si faceva a sassate: ma il giorno prima eravamo assieme alla festa», afferma ancora Marco.

In un certo senso, elementi che caratterizzerebbero la comunità festiva possono essere ricondotti alla communitas, di cui Victor Turner (2001 [1969]) ha scritto in rapporto allo stato liminale, a un ordine temporaneo in cui le regole della quotidianità sarebbero sospese e rovesciate (Couroucli 2013 [2009]: 129): nel tempo ordinario i francesi e il protettorato erano più che mai presenti con un ingombrante portato di oppressione, mentre scompaiono nella memoria delle feste e degli eventi cattolici.  

Cattedrale di Saint Louis a Cartagine, 8 agosto 2012 (ph. Carmelo Russo)

Cattedrale di Saint Louis a Cartagine, 8 agosto 2012 (ph. Carmelo Russo)

Luoghi sacri non convenzionali

Alcuni luoghi “naturali” intrisi di sacralità si prestavano quali spazi di incontro grazie alla socialità. Alture, boschi, acqua, antri rappresentano luoghi permeati da forze extraumane, segnati spesso da entità ctonie (Faranda 2009: 20). La loro perifericità rispetto alla centralità urbana, religiosa e politica favoriva contatti che sfuggivano al controllo istituzionale, o verso il quale questo era meno interessato. Avveniva così che musulmani si recassero sulla collina di Byrsa, a Cartagine, presso la cattedrale di Saint Louis, a mangiare in famiglia o tra amici con tovagliette sul prato, mentre i cattolici pregavano dentro l’edificio. Alcuni musulmani – soprattutto ibaditi, afferenti all’unica corrente kharigita oggi esistente, “terza via” tra Sunna e Shia – e cristiani partecipavano al pellegrinaggio presso l’antica sinagoga della Ghriba a Djerba, ancora oggi simbolo e manifestazione condivisa per ragioni che vanno da quelle religiose al turismo, dai processi di patrimonializzazione a motivi politici (Albera, Pénicoud 2017 e 2022; Albera, Kuehn, Pénicaud 2022). Secondo Albera e Pénicaud nel pellegrinaggio convivenza e condivisione oltrepassavano la dimensione festiva o sociale includendo quella religiosa.

Alcune fonti biografiche rivelano commistioni cultuali tra la devozione per la Madonna di Trapani di La Goulette (su cui tornerò più avanti) e elementi della santità musulmana [5]. Di un certo interesse mi sembra quanto riporti in un romanzo autobiografico Huguette Senia-Badeau, i cui genitori erano ambedue di origini siciliane. Nata a Tunisi, vi ha vissuto i suoi primi dieci anni, prima che la famiglia decidesse di emigrare a Marsiglia nel 1957: 

«A Béja [città situata a circa 110 km a ovest di Tunisi] le famiglie siciliane praticavano un curioso miscuglio di bigotte pratiche religiose illustrate da un lato dalla spedizione organizzata a La Goulette per la festa cristiana del 15 agosto e dall’altro da una mistica credenza in Sidi Khlifa, santo venerato dai musulmani che riposava in un tranquillo angolino in una vallata piena di ulivi. […] La leggenda narra che Sidi Khlifa, riconosciuto per le sue innumerevoli buone azioni, aveva manifestato il desiderio di essere sepolto là dove il suo mulo si sarebbe fermato. […] Poteri miracolosi si sarebbero riconosciuti a questo luogo. Il sito si prestava alle escursioni familiari della domenica con ghiacciaia e picnic. Lì mangiavamo la pizza impastata dalle nonne e anche la pecora immolata ad una grazia ricevuta. Era un luogo di gioco ideale per i bambini che si impegnavano in corse rumorose o in capriole sotto i “Silenzio! Basta! Silenzio!”, dei grandi per i quali, al di là della gioia del pranzo, questo luogo di culto doveva restare silenzioso. Tutti credevano ai prodigiosi miracoli del santo. Questi riti si celebravano il venerdì, le culture e le credenze continuamente si incrociavano» (Senia-Badeau 2011: 103-104). 

Il brano rileva come la sacralità dello spazio, pur non cristiano, inducesse al rispetto, con gli improperi rivolti dagli adulti ai più piccoli. Torna il cibo, laddove si riaffermano pietanze ricondotte all’alveo siciliano – la pizza casalinga – e tuniso-musulmano – la pecora, o più probabilmente il montone [6]. La testimonianza inoltre apre al tema delle pratiche magico-rituali fondate sui poteri apotropaici, taumaturgici e miracolistici. In questo caso ci si riferisce a Sidi Khlifa. Il culto dei santi musulmani era ed è diffuso in Tunisia e in Nord Africa. Nonostante l’immagine corrente di monoteismo radicale, non diversamente da altre religioni nell’islam convivono diverse forme cultuali, talune incentrate sulla devozione tributata a persone sante o luoghi sacri segnati talvolta dalla loro sepoltura – reale o simbolica. La riva sud del Mediterraneo è marcata da questi edifici, chiamati zâwiya. In Tunisia nel 1930 se ne contavano sessanta (Mansouri 2011; Rieucau, Souissi 2016). Tra i luoghi maggiormente venerati se ne segnalano alcuni nella Capitale: quello di Sidi Ahmed el-Tîjâni, fondatore della confraternita sufi tîjâniyya; di Sidi Mahrez, discendente da Abu Bakr e considerato “patrono” di Tunisi; la tomba di Abou Hassan al-Chadhili, o Sidi Bel Hassen Chedly, nato in un villaggio presso Tangeri nel 1197 e morto nel 1258 in Egitto, fondatore della confraternita della shâdhilya, diffusa in tutta l’Africa settentrionale; le due zâwiya, a Manouba e a Gorjâni, di Aïsha Al-Sayyda Mannûbyia, santa medievale iniziata da Sidi Bel Hassen (Amri 2005; Boissevain 2006; Faranda 2019). A loro i fedeli si rivolgono per i misteriosi poteri benefici. Le richieste riguardano guarigioni fisiche, consolazione, conforto morale, protezione familiare.

5-religiogtaphiesAccomunata dal tema apotropaico e taumaturgico a questi culti, con larga partecipazione interreligiosa, era la devozione tributata alla Madonna di Trapani a La Goulette, cittadina portuale situata 12 km a est di Tunisi. Si tratta di un fenomeno fortemente incardinato sulla dimensione locale, capace di riplasmare le origini siciliane e le peculiarità del contesto golettino. Presenze musulmane e in misura minore ebraiche affiancavano quelle cattoliche, a loro volta differenziate tra diverse componenti nazionali: siciliani e altri italiani, maltesi e altri europei, compresi i francesi, individuati quali “nemici”. Nella chiesa dedicata a Saint Augustin e Saint Fidèle a La Goulette si trova ancora oggi la più importante statua della Madonna di Trapani in Tunisia – non l’unica. Tra le tante ragioni del successo plurale di questa figura mariana, che ho discusso altrove (Russo 2020a, 2022), i siciliani individuano soprattutto la capacità di proteggere e esaudire chi la invocasse. Presso la chiesa golettina ci si recava per chiedere “la grazia” indipendentemente dalla religione di appartenenza, confidando in un potere di cui la stessa materialità del simulacro era emanatrice. Si trattava soprattutto di richieste “al femminile” inerenti alla felicità matrimoniale, alle gravidanze, a guarigioni per sé e i propri cari, alla tutela dei figli, al sostegno per i mariti pescatori – mansione lavorativa svolta da molti uomini a La Goulette, che fossero siciliani, italiani, maltesi, tunisini, ecc. – affinché «l’uscita in barca» fosse fruttuosa.

Una ragione della preponderanza delle donne potrebbe risiedere nella pressione sociale dovuta al predominio androcratico. Come nel tarantismo demartiniano, le istanze rivolte alla Madonna, i pellegrinaggi espiatori, l’emotività processionale per le donne potevano denotare un ruolo di ribellione all’ordine sociale precostituito, di deflusso della crisi, di contrasto al represso e di reintegro della presenza (De Martino 1961). Un caso esplicito e eclatante di ruolo politico si ebbe nel maggio del 1939, quando un gruppo di circa quaranta donne si riuniva ogni mattina in pellegrinaggio, procedendo a piedi dalla Piccola Sicilia di Tunisi a Dubosville (a sud del cimitero del Djellaz) pregando la Madonna di Trapani e insorgendo contro la guerra. Il gruppo era guidato da un’italiana della Piccola Sicilia cui la Vergine era apparsa in sogno chiedendo di organizzare azioni collettive e ripetute in favore della pace. Questo avveniva mentre le forze dell’Asse tentavano di circuire gli italiani con una intensa propaganda bellica, attuando uno stretto controllo proprio sulla Piccola Sicilia [7].

La premura di volersi differenziare dal colonizzatore implicava l’avvicinamento tra siciliani e tunisini. La processione della Madonna di Trapani a La Goulette era occasione non solo religiosa ma anche politica, in cui la compartecipazione di siciliani e tunisini era in parte un “esorcismo antifrancese” capace di rinsaldare la coesione sociale dei subalterni. La statua mariana era portata sulle spalle anche da tunisini musulmani (Russo 2020a: 107-148; 2022).  

La dimensione onirica evidenziata sopra era un mezzo ricorrente nelle relazioni tra i siciliani e la Madonna di Trapani, che si declinò presto – la prima processione in Tunisia, a La Goulette, è attestata nel 1885 – per le sue simpatie verso gli ultimi – i pescatori, i poveri, i malati, i marginali. È proprio «venendo in sogno» che la Madonna di Trapani dispensava guarigioni e risolveva problemi.

La capacità della Vergine di attrarre fedeli musulmani tramite i poteri taumaturgici non rappresentava una novità. Già il mondo ottomano contemplava una forma di compenetrazione tra comunità religiose: alcuni musulmani si recavano presso monasteri cristiani per formulare voti, per le virtù terapeutiche di santi e luoghi sacri. Alcune fonti fanno risalire già al periodo dei primi omayyadi (sec. VII) l’abitudine musulmana di visitare determinati luoghi cristiani, come chiese e santuari (Albera 2013 [2009]: 235-236). Tratto comune a questi fenomeni interreligiosi era la perifericità: è quando cristiani, musulmani, talvolta ebrei si incontrano ai confini di un territorio, quando si muovono nei pressi della linea di separazione tra diversi “insiemi socioculturali”, laddove il potere centrale è più blando e le autorità religiose meno rigorose, che si instaurano più facilmente le abitudini di frequentare uno stesso luogo religioso. 

Ceri e iscrizioni votive in una zàwiya, 16 giugno 2017 (ph. Carmelo Russo)

Ceri e iscrizioni votive in una zàwiya, 16 giugno 2017 (ph. Carmelo Russo)

Convertirsi all’islam

L’esempio della Madonna di Trapani rileva che quando la dimensione religiosa è colta in prossimità del vissuto quotidiano, negli interstizi sgombri dal controllo di autorità rigide, le tradizioni e i culti si compenetrano più facilmente (Albera 2013 [2009]: 233). Pur lontani da un vero sincretismo, o da un sincretismo forte (ivi: 234), perché gli sconfinamenti tra le frontiere religiose per la Madonna di Trapani non hanno dato vita a una nuova forma confessionale, alcuni contatti tra cattolicesimo e islam avvenuti a La Goulette inducono a riflettere sui meccanismi di accomodamento e “indigenizzazione” delle pratiche devozionali.

Va tuttavia discussa una questione opposta: la compresenza nello stesso luogo di diverse religioni non era affatto garanzia di interazione. Altre storie di vita segnalano che oltre le apparenze e la tolleranza di superficie i rapporti potevano essere segnati da irriducibili divisioni, marcate proprio dalla diversità religiosa. Bechir è un uomo tunisino di circa 70 anni. Divorziato, con due figli, è un imprenditore in pensione nato a Sousse, che si è laureato a Parigi e risiede in Italia da diversi anni. In merito alle reciproche considerazioni tra persone di religioni diverse nel periodo della sua giovinezza si esprime come segue: 

«Cosa si diceva in casa? L’ebreo prendeva in giro l’arabo musulmano, che era un nulla, per lui, mentre l’ebreo stesso era il più povero di queste categorie. Parlo degli ebrei di origine tunisina, non di quelli europei. Il francese si sentiva superiore, non stava a guardare nessuno: erano “il potere”, quelli protetti dal residente generale e da tutta la forza militare, le caserme. Vedi che il tunisino ammirava il francese, ma teneva in poca considerazione il siciliano, perché era quello povero, quello con poco potere, più debole rispetto alle altre comunità. L’arabo quando parlava dell’ebreo lo faceva in parole che oggi definiremmo antisemite» (Tarano, RI, 9 gennaio 2016). 

«Il mondo era molto “compartimentato”: gli italiani con gli italiani, i francesi con i francesi, gli arabi con gli arabi. Quando – perché succede, perché la vita è stata così – qualcuno usciva da questo… era respinto», afferma Thérèse. Questa separazione trovava elemento essenziale nelle difficoltà di accettare conversioni: 

«La sorella della nonna di mia madre [attorno al 1915], si è sposata con un tunisino e da quel giorno… la famiglia ha chiuso con lei. Non so neanche come si chiamava di nome, che fine ha fatto, se ha avuto figli… non lo so. So soltanto che si è sposata con un tunisino, dunque è scomparsa nel nulla. […] Non erano tanto contenti, era un po’ così, non si parlava, non se lo diceva troppo, ma a quei tempi lì era una cosa tremenda, tremenda. Io da piccola, mi ricordo, ho sempre sentito mia madre, mia nonna, che ne so, i vecchi, dire: “con i tunisini fai quello che ti pare, amicizia, lavoro, giocare, andare a ballare, a scherzare, alla spiaggia, quello che ti pare, ma non ti devi sposare!” Era la regola, da piccola, eh?» (Cartagine, 4 agosto 2012). 

Il nome dimenticato invera l’allontanamento dalla famiglia e la cancellazione non solo dalla genealogia siciliana ma dell’esistenza stessa della donna. Non si tratta di un caso isolato. Un altro uomo tunisino, Nassim, libero professionista cinquantenne che vive a Roma, ricorda due matrimoni con donne italiane nella sua famiglia [8]. Anche in questo caso, di una delle due i parenti non pronunciavano più il nome. L’altra siciliana aveva conosciuto uno zio materno di Nassim perché entrambi lavoravano in una fabbrica di Tunisi. «Quando lui ha chiesto la mano alla sua famiglia, la sua famiglia non aveva accettato: “impossibile, nostra figlia sposa uno che non è italiano e non è cristiano!” Lei era innamorata di lui, lui di lei. Così alla fine al matrimonio lei era da sola. Quindi è stata proprio eliminata dalla famiglia. Aveva rotto con la sua famiglia» (Roma, 22 marzo 2014).

La donna siciliana si convertì all’islam, diventando «la donna più pia, più religiosa della famiglia […]. Lei andava sempre in moschea. Lei è andata a fare il pellegrinaggio alla Mecca: gli altri no». Il comportamento della zia siciliana strideva con quello degli altri familiari tunisini, che a detta di Nassim neppure si preoccupavano di pregare con regolarità.

Vi erano altri casi di donne e uomini di origine siciliana convertiti all’islam in cui si ripetevano discriminazioni da parte delle famiglie di origine. Lo stesso Nassim è stato testimone di altre storie di questo genere, favorito dal fatto che la sua famiglia viveva in una zona di Tunisi ai confini tra la medina e la Piccola Sicilia. Riferisce così di Giorgetta, un’amica di sua madre che si era convertita in autonomia. Ricorda come fosse la donna siciliana a insegnare l’islam all’amica tunisina: «Mia madre non è andata a scuola, le sue conoscenze della religione sono più tradizionali che di studio, non ha studiato praticamente niente. Invece Giorgetta ha studiato». La famiglia di origine non le perdonò il “tradimento religioso”. Nassim ricorda la disperazione e i pianti della donna, nei momenti di confidenza con sua madre. Finanche quando il padre di Giorgetta era sul letto di morte la figlia gli chiese di riconciliarsi, ma il genitore la scacciò per l’ultima volta. 

Il padre di Nassim raccontava di un altro uomo siciliano che, abbandonata la casa paterna, vi fece ritorno quindici anni dopo, attorno al 1940. Si era trasferito a Testour ed era tornato «con una moglie con un vestito tradizionale tunisino e con vari bambini. Quindi era tornata un’altra persona! Quando è tornato a casa, il padre era rimasto a bocca aperta: “ah, questo è mio figlio? Non ti riconosco più! Vai via!”» L’uomo convertito non incontrò mai più la famiglia di origine.

Le testimonianze qui presentate rafforzano le rappresentazioni di gruppi familiari e sociali chiusi, impermeabili agli scambi matrimoniali, pena l’estromissione dei “trasgressori”. È un tema che richiama quello dei siciliani che sceglievano di acquisire la nazionalità francese, attratti dalla possibilità di ampliare le opzioni lavorative e di godere di aumenti retributivi (Russo 2016). In ambo i casi, si finiva spesso con fratture familiari insanabili, in cui “il tradimento” veniva ripagato con l’oblio della memoria. 

Una Zàwiya a Tunisi,(20 maggio 2023 (ph. Carmelo Russo)

Una Zàwiya a Tunisi,(20 maggio 2023 (ph. Carmelo Russo)

Conclusioni 

Le analisi delle relazioni interreligiose che coinvolgono i siciliani evidenziano connessioni e contrapposizioni che permettono di riflettere sulla complessità degli incroci culturali e delle convivenze. Sovvertendo stereotipi e semplificazioni, mostrano aspetti diversificati tra loro, finanche contraddittori: sintomo dell’elevato tasso di variabilità delle memorie, per ragioni insite di eterogeneità e stratificazioni, per i precari equilibri della realtà diasporica e delle condizioni di asimmetrie di potere, sia del contesto protettorale che dei primi anni dello Stato indipendente.

Le storie di vita discusse evidenziano capacità di superamento degli steccati delle divisioni confessionali, foriere di relazioni e contaminazioni in cui pratiche eterodosse connesse alle religioni si realizzavano in sfere della socialità. Dimostrano che tentare di spiegare quali siano state le relazioni tra i diversi gruppi religiosi nella Tunisia tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo XX necessita l’abbandono della tentazione di affidarsi a “teorie univoche” lasciandosi guidare dall’etnografia, da cui emergono posizionamenti vari.

È possibile tuttavia individuare due polarità: da un lato il mescolamento, dovuto in minima misura a questioni cultuali e in larga parte sostenuto dalla socialità del clima festivo, reificato dagli scambi culinari, dalla frequentazione di spazi sacri che si prestavano a usi di svago, dalle capacità apotropaiche e taumaturgiche di alcune figure sante, tra cui la Madonna di Trapani a La Goulette; dall’altro, l’irrigidimento dei confini tra i gruppi religiosi. Le forti sanzioni sociali da parte siciliana per coloro che si convertivano all’islam e i tentativi di contrasto verso pratiche matrimoniali interreligiose ne sono testimonianza.

Nell’ampia varietà disponibile tra questi due poli, si situano le infinite possibilità delle singole biografie. Karim, portiere di uno stabile a La Goulette, sintetizza con la sua stessa vita significati solo all’apparenza inconciliabili. Da bambino accompagnava spesso suo padre, tunisino musulmano, nelle preghiere in moschea; mentre sua madre, nata a La Goulette da una famiglia emigrata da Castelvetrano, in provincia di Trapani, era cattolica e aveva lavorato nella cittadina portuale come “perpetua” all’église Saint Augustin et Saint Fidèle. L’uomo non ha voluto rinnegare la sua duplice appartenenza e ha continuato a frequentare ambedue i luoghi di culto, asserendo di non avvertire contraddizioni: «ve ne sono di ben peggiori!».

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Audio e video, trascrizioni e fotografie inerenti a 53 di queste, condotte con Marta Scialdone in due periodi, tra luglio e agosto del 2012 e tra luglio e agosto del 2013, sono depositati dall’ottobre 2014 presso il Laboratorio di Antropologia delle immagini e dei suoni “Diego Carpitella” del Dipartimento SARAS di Sapienza Università di Roma e dal 2020 presso l’Archivio della memoria italiana di Tunisia (AMIT) a Tunisi.
[2] Tutti i nomi dei testimoni riportati nel saggio sono stati modificati.
[3] Le statistiche evidenziano discrepanze circa i numeri delle presenze italiane in Tunisia in dipendenza dalle fonti utilizzate. Le cause sono dovute in parte a imprecisioni di calcolo, più spesso a manipolazioni e strumentalizzazioni politiche, sia da parte italiana che francese (Speziale 2016: 40).
[4] Le memorie di Ida Cangemi sono state raccolte dal nipote Lorenzo Bonazzi e pubblicate nel 2024 con il titolo Al di là del mare. Una storia italiana tra due sponde del Mediterraneo.
[5] L’accezione di santità nell’islam – walî – non coincide con quella cristiana ma è ampiamente accettata dagli ambiti teorici della storiografia e della storia delle religioni. Mi affido in questa sede alla definizione di Nelly Amri (2008: 15-18) ripresa da Laura Faranda (2019), per cui santo è «una figura antropologicamente riconoscibile come “uomo di Dio”, in virtù di segni molto più prossimi di quanto non si creda in entrambe le tradizioni religiose».   
[6] Va considerato che il volume è stato scritto in francese e tradotto in italiano e presenta alcuni errori, anche di mancata concordanza rispetto al genere.
[7] Pellegrinaggio, in «Il Giornale», 15 maggio 1939, p. 3, archivi coloniali di Nantes. Materiale fornitomi da Rym Lajmi il 1° aprile 2016.
[8] Va ricordato che l’islam permette il matrimonio di un uomo con una donna non musulmana, mentre la donna musulmana non può sposare un uomo di altra religione. 
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Carmelo Russo, è ricercatore in Antropologia Culturale presso il Dipartimento SARAS (Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo) di Sapienza Università di Roma. I suoi interessi di ricerca riguardano i fenomeni religiosi, la mobilità umana e gli spazi urbani. Si occupa in particolare di presenze siciliane in Tunisia, ambito nel quale ha compiuto un’indagine etnografica sul culto della Madonna di Trapani a La Goulette: Nostra Signora del Limite, L’efficacia interreligiosa della Madonna di Trapani in Tunisia, Morcelliana, 2020.

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