di Franco Pittau e Antonio Ricci
In questo articolo abbiamo raccolto dati statistici su alcuni aspetti riguardanti la politica migratoria: la formazione all’estero per la preparazione dei lavo- ratori in arrivo in Italia, le strutture per l’accoglienza dei richiedenti asilo, le previsioni demografiche sul consistente aumento della popolazione immigrata, la paura che porta ad agognare la chiusura delle frontiere senza tenere conto delle pesanti conseguenze e lo spettro dello spopolamento in diverse regioni italiane in mancanza di flussi migratori che garantiscano un pur minimo equilibrio demografico.
Il filo che tiene uniti questi argomenti, alcuni riguardanti l’esperienza fatta nel passato, altri la situazione attuale e altri ancora il futuro che ci attende, consiste nell’esigenza di pragmatismo, organicità e capacità previsionale, caratteristiche da raccomandare sia a quelli che di fronte al fenomeno della mobilità hanno un chiusura pregiudiziale, sia a quelli schierati a favore dell’immigrazione. Bisogna imparare a coniugare meglio idealità e praticità e a saper mettere a frutto i dati statistici, sui quali sono basate queste nostre riflessioni.
I fondi spesi per la formazione all’estero e le perplessità sul rapporto costi-benefici
La formazione in patria, prima di venire in Italia, doveva essere uno strumento per preparare i lavoratori stranieri a inserirsi con immediatezza nelle imprese italiane, ma nei fatti i programmi svolti sono stati un vero e proprio flop. Dal 2011 al 2014, infatti, l’Italia ha formato all’estero per l’avviamento al lavoro 3.360 stranieri extracomunitari. Di questi sono venuti effettivamente a lavorare nelle nostre imprese solo 213 persone. Il tutto per un costo complessivo di 3 milioni e 200mila euro (circa 15mila euro a lavoratore assunto) secondo i dati forniti da Giorgetti, responsabile Immigrazione di Italia Lavoro al convegno “Immigrazione e integrazione: Canada e Italia a confronto” (Roma, 25 febbraio 2016: cfr. l’agenzia Redattore Sociale).
Questi programmi prepartenza si sono basati su accordi bilaterali con Tunisia, Marocco, Albania, Moldavia, Filippine e hanno comportato lo svolgimento di corsi di formazione per insegnare la lingua del Paese di destinazione, una prima presentazione del settore di impiego e il coinvolgimento delle aziende interessate ad assumere. A questa linea non ha fatto riscontro l’efficacia concreta «Solo l’anno scorso abbiamo formato 160 lavoratori stagionali in Tunisia – ha precisato Giorgetti – ma su 160 persone sono arrivate solo due comunicazioni obbligatorie dalle aziende. Gli altri probabilmente sono in giro per l’Europa – aggiunge. Sappiamo bene che si usano tutti i mezzi per entrare in Italia e poi scomparire». Le colpe sono da addebitare alle procedure farraginose delle strutture, che possono durare un anno al termine del quale l’azienda non ha più bisogno di manodopera e, pur sussistendo il diritto alla prelazione rispetto alle quote annuali, lo spostamento avviene solo se queste persone vengono effettivamente chiamate.
C’è da aggiungere che non ha pagato la carica rancorosa di questa innovazione introdotta nel Testo Unico sull’immigrazione dalla legge Bossi Fini per sopprimere la modesta quota di persone autorizzate a venire, sotto sponsorizzazione, per la ricerca di un posto di lavoro prevista dalla legge “Turco-Napolitano”, una ipotesi non solo interessante e funzionale ma anche per niente costosa perché viaggio, vitto, alloggio e copertura sanitaria erano a carico dello sponsor. Si disse che così si evitava di far arrivare impunemente le prostitute, ma di questo non si diedero prove: del resto era improbabile che le famiglie italiane si adoperassero per far venire prostitute per assistere i loro figli o i loro anziani.
In Canada, dove nei primi due mesi del 2016 sono stati raggiunti 12mila migranti economici e richiedenti asilo è prevista una spesa annuale di 5 milioni di euro, ritenuta funzionale al processo di inclusione di persone provenienti da altre culture da inserire in un contesto improntato a una impostazione multiculturale. In questo Paese i programmi prepartenza hanno preso avvio nel ’98 e negli anni hanno permesso di formare più di 200mila partecipanti. Attualmente ci sono 22 sedi di formazione in tutto il mondo. I corsi vengono effettuati in pochi giorni, e prevedono sessioni di lingua e informazioni sul Paese di destinazione (orientamento ai servizi e al lavoro). Si rimane ammirati di fronte a una impostazione pragmatica, non solo priva di lungaggini ma animata dalla convinzione che il Canada è un Paese di immigrazione, che deve far perno sull’integrazione.
Come vengono spesi i soldi per l’accoglienza
Secondo i dati del Ministero dell’Interno i Cas (Centri straordinari di accoglienza) sono 3.090 ed ospitano circa 71mila persone (il 72% delle 98.632 persone che risultano accolte in Italia). Queste strutture, pur denominate straordinarie, gestiscono in maniera ordinaria la maggior parte degli interessati. Per la loro gestione lo Stato spende circa un miliardo di euro (918,5 milioni tra Cas e Cara), mentre 242,5 milioni di euro sono destinati ai centri Sprar del Ministero dell’Interno: per una spesa totale dell’accoglienza di 1.162 milioni di euro (lo 0,4 per cento della spesa pubblica nazionale).
Per lo più si tratta di “strutture improvvisate”: hotel, ristoranti e vecchi casolari, che sono stati riconvertiti in strutture di accoglienza per i profughi e i richiedenti asilo arrivati in Italia. Lo staff è spesso impreparato a gestire il complesso fenomeno migratorio: gli «operatori non conoscono l’inglese e sono sprovvisti di formazione in materia di protezione internazionale», e al loro interno vi è un unico mediatore culturale. Ne conseguono carenze in materia di assistenza e di percorsi di inclusione e sono frequenti i casi in cui gli ospiti finiscono nei circuiti del caporalato, del lavoro nero, dello spaccio e della prostituzione. Questa “malaccoglienza” è stata denunciata dalla campagna LasciateCieentrare in due rapporti presentati il 25 febbraio a Roma nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana (cfr. l’agenzia Redattore Sociale). Il primo rapporto fornisce un monitoraggio di tutte le tipologie di strutture presenti sul territorio. Mentre il secondo, realizzato in collaborazione con Libera e Cittadinanzattiva, nell’ambito della campagna “InCAStrati”, fotografa la situazione di 50 centri per l’accoglienza straordinaria di Campania, Calabria e Sicilia.
È stata lamentata la mancanza di trasparenza nella gestione dell’accoglienza e anche il ricorso ai Cas (dei quali manca un elenco pubblico), risultato di una soluzione tampone diventata ordinaria, non basata su una strategia nazionale e con diverse zone di opacità, difficoltà di controlli, interessi enormi di speculatori (non mancano quelli denunciati in passato per cattiva gestione) che si improvvisano gestori ma non si preoccupano dei servizi da erogare, meno che meno dell’assistenza psicologica. Sussistono perplessità anche sull’ubicazione di questi Centri: ad esempio, nella zona da Licola a Casal di Principe, sono concentrati un numero elevatissimo di migranti, nel solo giuglianese sono presenti oltre mille migranti in circa sette strutture. Sono frequenti i casi in cui i migranti restano nei centri per anni, sfruttati dal caporalato, e le donne finiscono per strada, dove vengono avviate alla prostituzione.
“LasciateCientrare”, che ha pubblicato il “Rapporto di monitoraggio della Campagna lasciateCientrare su accoglienza, detenzione amministrativa e rimpatri forzati” (Accogliere la vera emergenza, Roma 2016), dopo aver visitato 7 Cara, 5 Cie, 6 centri informali, 4 Sprar, in Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Piemonte, Lazio, Lombardia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia, incontrando immigrati distrutti e un sistema al collasso, ha chiesto la chiusura dei Cie, ritenuti «irriformabili, inutili, lesivi di ogni dignità umana» e dei Cara «strumenti micidiali di mala accoglienza» e di rimediare anche alle carenze che ormai caratterizzano anche gli Sprar, per anni il «fiore all’occhiello della politica italiana sull’accoglienza». A ciò si aggiunge che, rispetto ad altri Paesi, in Italia è poco diffusa l’esperienza di accoglienza diffusa attraverso il coinvolgimento delle famiglie sul territorio e solo ultimamente sono state condotte le prime esperienza pilota.
Le previsioni demografiche per il periodo 2011-2065 [1]
A partire dagli anni Novanta, a causa dell’andamento demografico poco soddisfacente, in Italia si è ricorso in maniera crescente all’afflusso dall’estero di manodopera immigrata. L’ISTAT ha analizzato questo fabbisogno per il periodo 1° gennaio 2005-2050, tenendo conto delle diverse componenti demografiche implicate (fecondità, sopravvivenza, migrazioni), articolate in tre scenari alto, medio e basso, a seconda del numero annuo degli ingressi netti previsti dall’estero). Alle previsioni riguardanti il periodo 2005-2050, si sono aggiunte quelle per il periodo 2011-2065, qui riproposte, che tengono conto degli sviluppi intervenuti nel settore migratorio nel corso dell’intero primo decennio del nuovo secolo, dove viene riconosciuto il fondamentale apporto degli immigrati alle dinamiche demografiche nazionali.
Nel periodo 2011-2065, nello scenario centrale ipotizzato dall’ISTAT (assunto come base in questo paragrafo) la dinamica naturale sarà negativa per 11,5 milioni (28,5 milioni di nascite contro 40 milioni di decessi) e quella migratoria sarà positiva per 12 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9 milioni di uscite), con un margine d’incertezza finale (tutto sommato contenuto) che varia da 1,5 milioni (in più nell’ipotesi alta e in meno nell’ipotesi bassa), per cui l’intervallo di previsione per le entrate si colloca tra i 16,7 e i 19,3 milioni e, per le uscite, tra i 5 e i 7 milioni. Le previsioni indicano una sostanziale incertezza soprattutto per quanto riguarda la futura consistenza delle nascite (tra 24,4 milioni a 32,6 milioni), con la conseguenza che l’entità del saldo naturale potrebbe oscillare tra -5,8 e -17,3 milioni. Alle coppie straniere sono riferite 7,5 milioni di nascite in tutto l’arco di previsione (con una forbice di 6,4 milioni e 8,6 milioni), mentre al suo interno l’ammontare dei decessi risulterebbe di 2,3 milioni (con un intervallo compreso tra 2,1 e 2,5 milioni).
Nello scenario centrale si ipotizza un livello iniziale di migrazioni nette con l’estero superiore alle 300 mila unità annue, per discendere rapidamente sotto le 250 mila unità annue dopo il 2020, pervenendo ad un livello di 175 mila unità annue nel 2065. L’andamento discendente è previsto anche nelle altre due ipotesi, ma il valore finale nel 2065 sarà ben diverso: 113 mila unità aggiuntive nell’ipotesi bassa e 238 mila nell’ipotesi alta. Nel corso dell’intero periodo di previsione potrebbero acquisire la cittadinanza italiana, senza più essere conteggiati come popolazione straniera, 7,6 milioni di persone (5,6 milioni nello scenario basso e 9,8 milioni in quello alto).
Nel 2065 la popolazione residente in Italia sarà pari a 61,3 milioni (53,4 milioni nello scenario basso e 69,1 milioni nello scenario alto), ma il Mezzogiorno conoscerà una diminuzione in tutt’e tre le ipotesi. Questa sarà la distribuzione territoriale della popolazione straniera ipotizzata al termine del periodo: Nord Ovest (5,1 milioni di stranieri e 36% del totale), Nord Est e Centro (26% ciascuno, con oltre 3,5 milioni di residenti), Sud e Isole (rispettivamente, 9% e 4% con 1,2 e 0,5 milioni di residenti). Nelle regioni del Centro-Nord l’incidenza dei cittadini stranieri supererebbe il raddoppio (arrivando al 26-27%, con la punta del 29% nel Nord-Ovest).
Riassumendo, tra il 2011 e il 2065 nello scenario centrale interverranno queste variazioni:
- l’età media da 43,5 anni nel 2011 a 49,7 anni. Questo valore, sostanzialmente confermato anche negli scenari alternativi, indica presumibilmente la conclusione del processo di transizione demografica in Italia, dove senz’altro la popolazione sarà più vecchia di quella attuale ma non priva di una certa possibilità di rinnovamento: i giovani fino a 14 anni risulteranno, infatti, pari a 7,8 milioni entro il 2065 (con una forbice tra i 5,9 e i 9,7 milioni);
- gli ultra 65enni, dal 20,3% al 32-33%, toccando i 20 milioni (con un intervallo tra i 17,7 e un valore assoluto di 22,3 milioni);
- i minori fino a 14 anni, dal 14% al 12,7% (con un intervallo tra l’11% e il 14%);
- la popolazione in età lavorativa di 15-64 anni dal 65,7% al 54,5% (con un intervallo compreso tra il 53,8% ed il 55,8%), attestandosi sui 33,5 milioni (con un intervallo tra i 29,8 e i 37,2 milioni);
- l’indice di dipendenza degli anziani (cioè il rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e la popolazione in età attiva 15-64 anni) dal 30,9% al 59,4% (valore quasi uguale in tutt’e tre gli scenari);
- la popolazione residente straniera da 4,6 milioni nel 2011 a 14,1 milioni nel 2065 (con una forbice compresa tra i 12,6 ed i 15,5 milioni);
- l’incidenza della popolazione straniera su quella totale dal 7,5% a valori compresi tra il 22% e il 24%;
- le migrazioni interregionali coinvolgeranno fino a 17,1 milioni d’individui nel corso di tutto il periodo, con una media di oltre 300 mila trasferimenti annui.
Sono dati che meriterebbero una maggiore attenzione rispetto a quella che finora è stata loro prestata.
Il miraggio della chiusura delle frontiere e i relativi costi
Dalla reintroduzione dei controlli alle frontiere dell’Unione europea deriverebbe un rallentamento dei movimenti delle merci con il conseguente aumento dei prezzi e ciò determinerebbe conseguenze drammatiche sulla crescita economica e perdite per almeno 470 miliardi di euro. Queste previsioni sono state elaborate da una fondazione tedesca (Bertelsmann Stiftung) [2].
Per prima cosa, la fine dell’area di libera circolazione si tradurrebbe in tempi più lunghi per il controllo dei passaporti alle frontiere con un aumento dei costi per le compagnie di trasporto per la conservazione delle merci, che si scaricherebbe inevitabilmente sull’aumento del loro prezzo Calerebbe anche la domanda dei consumatori e le compagnie diventerebbero meno competitive sul mercato internazionale e si ridurrebbe l’export, la produzione e la stessa crescita economica. Nello scenario più ottimistico ipotizzato dalla Fondazione i prezzi dei beni importati dagli altri Stati Ue aumenterebbe soltanto dell’1% e in quello più negativo i l’aumento potrebbe arrivare al 3%. Nel primo scenario nell’arco di un decennio (2016-2025) la perdita per l’Ue sarebbe di oltre 470 miliardi, nel secondo di 1.430 miliardi di euro (lo 0,12% del Pil europeo). In Italia le perdite sarebbero tra i 48,9 miliardi e i 148,5 miliardi in quei 10 anni, in Germania tra i 77 e i 234 miliardi, in Francia tra gli 80,5 e i 244,3 miliardi, in Gran Bretagna tra gli 87,2 miliardi e i 264,3 miliardi. Inoltre, la soppressione dell’attuale spazio di libera circolazione avrebbe ripercussioni negative anche nei Paesi che non fanno parte dell’Ue ma che con la stessa hanno forti scambi commerciali, come gli Stati Uniti e la Cina, dove l’aumento dei prezzi determinerebbe perdite di poco di 90 miliardi nell’ipotesi più ottimistica e di 280 miliardi nella seconda ipotesi.
Il sondaggio di Eurobarometro effettuato dall’8 al 18 novembre 2014, i cui risultati sono stati resi noti all’inizio dell’anno successivo, pone in evidenza che gli italiani (41%) sono più pessimisti degli europei (28%) e nella maggior parte dei casi (51%) non si sentono cittadini dell’UE e ancor di meno (67%) sono quelli che non conoscono i loro diritti di cittadini europei. Secondo il sondaggio disoccupazione e situazione economica restano le questioni che destano maggiore preoccupazione per gli italiani (60% e 37%). Questa situazione, da una parte è scarsamente attrattiva dei lavoratori qualificati che lasciano i loro Paesi, e dall’altra porta un numero crescente di italiani a pensare all’ipotesi di emigrare.
Nel 2014 il bilancio è stato più che positivo per le imprese italiane che operano con l’estero, favorite anche dal più basso livello di importazioni degli ultimi quattro anni, nonostante la persistenza a livello nazionale di congiuntura complessa e problematica. In tale anno, secondo i dati Istat, è stato raggiunto un saldo positivo record di circa 43 miliardi di euro, superando il tetto degli 86 miliardi di euro se si considera il surplus al netto della componente energetica. Questo bilancio positivo è parziale ed è necessario arrivare a un tasso di sviluppo più consistente, che possa incidere in maniera sostanziale sull’aumento dell’occupazione.
Sulla tendenza all’esodo si sofferma il Rapporto Eurispes 2016 (presentato il 29 gennaio), dove si registra una maggiore fiducia nell’economia ma anche la persistenza della tendenza a trasferirsi all’estero (il 47,1% della popolazione). Questo l’identikit dell’italiano disposto a trasferirsi: uomo (48,4%), di età compresa tra 18 e 24 anni (66,3%), residente nel Nord del Paese (53%) o nelle Isole (52,3%), in possesso di una laurea o un master (50,1%), senza matrimoni o convivenze in essere (60%) o single (57,7%), cassintegrato (75%), in cerca di occupazione (66%) o studente (61,7%). Questo italiano-tipo disposto a cambiare Paese sceglierebbe l’Australia come nuovo Paese d’adozione (17%), in cerca di una migliore situazione lavorativa (50,9%), pur continuando a pensare che vivere in Italia è in ogni caso una fortuna (71,9%). Il 41,6% degli italiani sogna, infine, una volta raggiunta la pensione, di trasferirsi all’estero per godersi il meritato relax. Un fenomeno in crescita in ultimi questi anni in cui i Paesi con un costo della vita inferiore al nostro hanno accolto numerosi italiani in pensione e con la voglia di cambiar vita. La maggioranza della popolazione (58,4%) però non ha mai preso in considerazione questa opzione.
Un’Italia avviata allo spopolamen- to senza l’immigrazione?
La presenza di immigrati è indispensabile per contrastare lo spopolamento di diversi contesti regionali, alle quali si è fatto cenno nell’esporre le previsioni demografiche. Prendiamo ad esempio la Sardegna. Un articolo preoccupato à apparso su L’Unione Sarda dell’8 febbraio 2016 a fronte del negativo andamento nell’isola, per cui, da una parte le nascite diminuiscono, la popolazione invecchia e muore, molti giovani (e anche meno giovani, 40/50enni) vanno via per studiare o lavorare, mentre dall’altra gli immigrati arrivano numerosi ma per trattenersi sul posto il meno possibile senza che si determini una compensazione, per cui, per la prima volta nel 2015, si è verificato che la popolazione sarda non cresca più: un milione 663 mila 859 all’inizio nel 2014 e quasi 600 unità in meno nel 2015 (ma la diminuzione è di circa 3mila unità se riferita alla sola popolazione autoctona), pur a fronte di aumento dei cittadini stranieri (da 42.159 nel 2014 a 45.079 nel 2015). Un siffatto andamento in sessant’anni porterebbe a un dimezzamento della popolazione.
Di fronte a questo andamento un giovane sardo, Marco Meloni, ha proposto di modificare l’atteggiamento rispetto agli immigrati e i profughi e il 24 aprile 2015 ha scritto una lettera al Presidente della sua Regione [3]:
«Caro Presidente, Le scrivo pubblicamente dopo giorni di riflessioni, rabbia ed un profondo quanto lacerante senso di impotenza e dopo le tante, sicuramente troppe, prese di posizione di chi, cavalcando la paura, parla di minaccia e invasione, di chi non si ferma neanche davanti ad un mare tinto di rosso, il nostro mare. Bombardiamo, blocchiamo, affondiamo: ma chi e che cosa? Giovani, bambini, donne, uomini disperati? Profughi che scappano da una guerra? E se scappassero “solo” dalla fame e dalla quotidiana violenza? Sarebbe davvero così diverso?
[…] Li definiamo clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, perché spesso non abbiamo il coraggio di chiamarli persone, di riconoscere che l’unica vera differenza tra noi e loro è quella di essere capitati in due lati diversi dello stesso mare. Interpretiamo il Mediterraneo come confine e barriera, il nostro problema è unicamente che stiano arrivando qui e non la barbarie dalla quale stanno scappando. […] In Sardegna il numero di morti supera quello delle nascite A ciò si aggiunge l’ingente emigrazione dei nostri concittadini in età da lavoro che silenziosamente anno dopo anno lasciano la nostra Isola in cerca di un futuro migliore, a volte, semplicemente di un futuro possibile. Un preoccupante processo di sofferenza demografica interessa il 55% del territorio regionale. […] Molti paesi, pur salvandosi, nei prossimi anni andranno incontro ad una desertificazione demografica graduale e apparentemente inesorabile.
Metto a confronto i due fenomeni […] e le faccio una proposta coraggiosa: accogliamoli noi, se non tutti una parte importante, proponiamogli di far vivere la nostra terra, le nostre campagne, le montagne e le più numerose colline, sino alle coste. Non avremo risorse faraoniche, ma sappiamo spezzare il nostro pane. Gli ultimi decenni ci dimostrano come la diminuzione delle persone nelle tavole non abbia portato ad un maggiore benessere. Al contrario dove mancano braccia e teste non c’è ripresa né rilancio. Non le sto proponendo di aprire i nostri centri di accoglienza ad un numero maggiore di persone, seppur plaudo alla risposta che si sta cercando di dare in emergenza, né di capitalizzare la sofferenza dei migranti come molti hanno tristemente fatto, le sto proponendo un modello di sviluppo basato sulla dignità della vita, sull’apertura all’altro e sulla cooperazione comunitaria.
Ospitiamoli nei nostri paesi, insegniamogli i nostri mestieri e le nostre arti, rilanciamo le nostre produzioni di qualità, impariamo dalle loro storie, mettiamoci in gioco. Così faremo della Sardegna un grande laboratorio multiculturale, una terra di incontro e pace, un luogo nel quale anche i nostri tanti emigrati potranno tornare portando con sé le proprie esperienze. Del resto abbiamo fatto tanti sacrifici per salvare banche e grandi economie, questa volta facciamoli per salvare vite, le loro, e vitalità, la nostra. […] Non vi è traccia di purezza razziale nel nostro popolo Presidente, le gocce di sangue nuragiche nei secoli si sono mischiate con il sangue dei conquistatori, dei mercanti, dei tanti popoli che sono approdati nella nostra Isola. Siamo di fatto figli dei Fenici, dei Punici, dei Romani, dei tanti Spagnoli, dei Pisani, Piemontesi, Genovesi. È il Mediterraneo che ci scorre nelle vene. Abbiamo imparato a convivere con lingue ed usi diversi dal nostro, abbiamo aperto le case anche a chi poi ha approfittato della nostra accoglienza, abbiamo spesso salutato i nostri figli in partenza, abbiamo pianto i nostri morti in mare ed in guerra, ci siamo sentiti gli ultimi. Noi possiamo capire cosa significa la loro sofferenza, abbiamo la responsabilità storica e morale di farlo».
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] ISTAT, Il futuro demografico del Paese: previsioni regionali della popolazione residente al 2065
http://www.ISTAT.it/it/files/2011/12/futuro-demografico.pdf; http://www.ISTAT.it/it/archivio/48875
[2] Redattore Sociale del 22 febbraio 2016.
[3]http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=72680&typeb=0&Caro-Presidente-e-se-fosse-la-Sardegna-la-terra-di
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Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.
Antonio Ricci, dottore di ricerca in “Storia d’Europa: radici culturali e politica internazionale” presso l’Università Sapienza di Roma (2004), è redattore senior presso il Centro Studi e Ricerche IDOS. In oltre quindici anni di esperienza nel mondo della ricerca sociale ha curato numerosi volumi in materia di immigrazione e asilo in Europa, tra cui: IPRIT. Immigrazione Percorsi di Regolarità in Italia. Prospettive di collaborazione italo-marocchina (IDOS, Roma, 2013) e Il Glossario EMN Immigrazione e Asilo. Edizione in lingua araba (IDOS-Sinnos, Roma, 2013).
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