di Maria Sirago
Il territorio dei Campi Flegrei e l’isola di Nisida
I Campi Flegrei, visitati da numerosi “eruditi” che seguivano le orme del poema virgiliano, furono descritti in modo dettagliato nel 1580 da Benedetto di Falco e da Ferrante Loffredo. De Falco dava notizie tratte dai classici latini e da Petrarca degli antichi luoghi di Miseno e Cuma, del lago di Lucrino, del Mar Morto, dei resti antichi del molo di Pozzuoli e dei bagni termali. Loffredo, che era andato a curarsi a Pozzuoli “con le acque”, aveva descritto il territorio usando i classici ma anche i suoi appunti raccolti nelle “visite” sui templi antichi, sull’anfiteatro, sul molo e sulle fonti e i bagni di Pozzuoli, poi sui resti di tutto il territorio, compilando una vera e propria “guida” per i “forestieri”. Nel 1685, dato il crescente interesse per il mitico territorio, il libro di Loffredo fu ripubblicato dal libraio francese Antonio Bulifon con la collaborazione dall’abate Pompeo Sarnelli. Lo stesso anno l’abate Sarnelli diede alle stampe una simile guida, con “vaghissime figure”, per illustrare in modo dettagliato il territorio. Dal testo si passava così a quello illustrato, per dare visibilità al territorio da visitare.
Una lettura interessante è quella degli appunti presi da Francesco Cassiano da Silva a fine Seicento, con cui fu poi “illustrata” la “Guida” dell’abate Pacichelli, pubblicata nel 1703. Egli narrava la sua visita nel territorio per raccogliere notizie da utilizzare per i suoi disegni. Dopo aver preso alloggio nel Convento dei Padri di San Domenico, per evitare le orribili taverne e i “ciceroni” che offrivano “antichità” e pessimi servizi per accompagnare gl’“ingenui forastieri” alle “antichità”, iniziò il suo percorso, durato due giorni, parte a piedi, parte a cavallo, con due compagni eruditi e un pratico religioso munito di “miccio, di acciarino, e di torcia pe’ luoghi oscuri”. Egli raccontava dettagliatamente quanto aveva visto durante il cammino, la Solfatara, i “bagni caldi” usati da molti infermi, tra cui i poveri, ospitati dai Padri dell’Oratorio di San Filippo Neri. Poi si diresse con una feluca da Baia a Pozzuoli per osservare le “antichità”, visitate da turista curioso, tracciando schizzi con i quali disegnò circa dodici tavole, dando notizie dettagliate sulla grotta di Cocceio, quella della Sibilla, sul lago di Averno, sul lago di Agnano e sulla grotta del cane, sul Monte Nuovo, sulla piscina mirabile, sulle cento camerelle, sul “Coliseo” (anfiteatro di Pozzuoli), sul Mar Morto, sui templi a Baia e sul suo porto, sulla solfatara (Amirante, Pessolano, 2005: 205-224)
Il territorio tra Nisida e Miseno, gli antichi Campi Flegrei, compreso nella provincia di Terra di Lavoro (odierna Campania), in epoca moderna era per lo più disabitato, ad eccezione della città di Pozzuoli. Lo sviluppo commerciale dei porti ed approdi in tutto il regno meridionali era limitato fin dall’epoca normanna da una serie di diritti statali che si dovevano pagare non solo per le esportazioni e importazioni ma anche per l’approdo (ancoraggio, con le ancore, e falangaggio, con le falanghe o bitte). Quello di Nisida, la “porta” dei Campi Flegrei, era controllato dal Mastro Portolano o Regio Secreto che risiedeva a Napoli e nominava un portulanoto a Pozzuoli, per controllare le dogane e i commerci e riscuotere i diritti portuali. Vi era anche la dogana regia, un ufficio “minore” rispetto a quello del Mastro Portolano, gestita da un doganiero e da un credenziero, che esigevano i dazi sui generi di commercio (Sirago, 1993: 335ss., e 2004: 133-134).
L’isola di Nisida (ora collegata alla terraferma da un pontile) era possesso della Mensa Vescovile di Napoli. Le concessioni ad enti religiosi erano state fatte in epoca angioina e aragonese per dare una “rendita” ricavata dai diritti feudali per il mantenimento dello stesso ente. Ma i territori vicino Napoli, a difesa del Golfo, non potevano essere concessi in feudo: le isole di Ischia e Procida erano state concesse “in castellania” ai d’Avalos dai primi del Cinquecento con obbligo di mantenere capitano e soldati a difesa del castello (Sirago, 1993; Di Liello, 2022). Anche Nisida era possesso feudale di un ente religioso. Invece la città di Pozzuoli era in demanio regio, perché vicina alla Capitale, che riforniva dal punto di vista alimentare (Sirago, 1993). Tutto il territorio flegreo era poi diviso tra varie famiglie, che riscuotevano negli approdi i diritti di “ancoraggio” e falangaggio e quelli di pesca, compreso il calo delle tonnare, visto che gli abitanti erano abili pescatori (Sirago, 1993 e 2018a).
Nell’isola di Nisida vi era il “porto Paone” usato nel Cinquecento dai Turchi per rifugio durante le tempeste. Nel 1544 l’Arcivescovo Carafa concesse l’isola a Pedro de Ursanqui per annui ducati 10 e 20 carlini “in censo perpetuo” in burgensatico (bene personale) con l’impegno di costruire una torre di guardia e sistemare il porto, ottenendo di poter riscuotere dalle navi che vi approdavano il diritto feudale di “ancoraggio” [1] (Cardone1992, Buccaro, 1993). Nel 1553 fu venduta a Martin de Segura, Mastro Portolano d’Abruzzo, poi presidente del Sacro Regio Consiglio per 3000 ducati con “peso” di 14 ducati da corrispondere alla Mensa. Questi nel 1554 la rivendette al secondo duca di Amalfi, Alfonso Piccolomini, che sistemò il porto e costruì un magnifico castello con la torre: secondo le sue intenzioni la dimora doveva emulare il castello ischitano dei d’Avalos, familiari della moglie Costanza, e la villa dei de Toledo a Pozzuoli, sia dal punto di vista strategico-difensivo della costa napoletana, sia per lusso e raffinatezza. Ma i lavori assorbirono il patrimonio familiare, già eroso dai molti debiti contratti da lui.
Dopo la sua morte, nel 1559, avvenuta nello stesso castello, il figlio Innico ne conservò il possesso fino al 1588, quando dovette vendere l’isola e tutto il patrimonio amalfitano per ripianare i debiti paterni (Pascale, 1796: 81- 91; Novi Chavarria, 2015; Buccaro, 2017). Lo stesso anno l’isola, fu concessa dalla Mensa a Pietro Borgia, principe di Squillace, per 10.500 ducati; ma fu ricomprata nel 1593 per 13.500 dalla città di Napoli che nel 1593 iniziò la costruzione del lazzaretto sullo scoglio Coppino, tra Nisida e Bagnoli. Qui dovevano essere ancorate le navi poste in quarantena per lo “spurgo” delle merci che venivano in Levante, dove la peste era endemica. Il lazzaretto fu ampliato nel 1600 insieme all’approdo: verso il 1625 era citato come “luogo dove se reparano Navi e Galere”, imbarcazioni dal grosso pescaggio (Crinò, 1905). Nel 1594 la città concesse l’isola allo stesso prezzo (13.500 ducati) a Luigi Grifone, poi l’anno seguente a Matteo di Capua, principe di Conca. Infine fu acquistata dal consigliere Vincenzo Macedonio, marchese di Ruggiano, che ottenne dal Regio Fisco la giurisdizione civile e criminale, con i diritti feudali di ancoraggio e falangaggio e quelli sulla pesca e sul calo della tonnara (Sirago, 2018a).
Nel 1619, poiché era scoppiata la peste in Sicilia, gli Eletti della città di Napoli decisero di ricostruire il lazzaretto sullo scoglio di Coppino realizzato tra il 1626 e il 1628 (Buccaro, 2017). Durante la costruzione, nel 1627, il Macedonio propose di costruire un porto commerciale in cui porre un ufficio di dogana alle dipendenze di quella napoletana [2], per inserirlo nell’ambito del porto di Napoli, dichiarato “scala franca” nel 1633 (Jannucci,1981: Sirago. 2004). Il progetto, redatto nel 1627 da Bartolomeo Picchiatti, Ingegnere Maggiore del Regno, non fu eseguito. Nel 1635 lo stesso ingegnere progettò la riparazione del fortilizio posto alla sommità dell’isola, fatta in parte a spese del Macedonio. Questi poi nel 1661 rivendette l’isola al presidente della Regia Camera della Sommaria Gian Domenico Astuto, per 6.800 ducati, visto che l’isola e il porto si erano deteriorati. Alla sua morte il possesso fu ereditato dalla nipote Violante e dal marito Antonio Petroni, la cui famiglia lo conservò fino al 1815, quando passò al demanio (Cardone1992). Il porto in un portolano del 1707 compilato dai piloti dell’Ordine di Malta, era descritto comunque come “un buon ridosso per navi e galere” [3].
Il progetto del porto fu ripreso in età borbonica: nel 1743 la Segreteria d’Azienda faceva rimostranze contro la Deputazione di Salute per il “mancato accomodo” nel lazzaretto e Porto di Nisida [4], che dovevano essere riorganizzati. Il lazzaretto era di vitale importanza perché vi approdavano le navi provenienti dal Levante che poi dovevano sbarcare a Napoli le merci. Il Consigliere del Supremo Magistrato di Commercio Giovan Battista Jannucci nel suo inedito trattato degli anni 70 del Settecento, pubblicato da Franca Assante, riprese l’idea di creare il porto franco nella capitale partenopea, ampliato fino a Nisida, come poi si sarebbe fatto a Messina (Jannucci, 1981; Sirago, 1994). Nel 1765 si propose di porre delle colonne di pietra a mo’ di bitte e fare “un braccio di porto” per un agevole approdo delle navi. Inoltre, si doveva costruire una stanza per i funzionari della Deputazione della Salute che dovevano controllare approdi e quarantene. La costruzione fu posta sotto il controllo dell’ingegnere Giovanni Bompiede, Capitano del porto di Napoli (Pezone, 2016), che doveva fare una accurata relazione dei costi [5]. L’anno seguente cominciarono i lavori per una scogliera posta a difesa dell’approdo, completata nel 1770, pagata in parte da Napoli (2500 ducati), in parte del Petroni [6] ma il porto non fu costruito (Pascale, 1796: 81-91; Buccaro, 1993: 138ss. e 2017: 173; De Rinaldi, 2004)
Nel 1770 il re ordinò di redigere un apprezzo per quantificare i beni posseduti dal duca di Sessa Cilento, Giuseppe Petrone, in modo da poter acquistare l’isola, valutata 47.000 ducati, da trasformare in “Sito Reale di Caccia”. Sia Carlo che Ferdinando erano appassionati di caccia (Di Liello, 2022) e pesca (Sirago, 2023), per cui avevano fatto costruire una serie di “Siti reali” in primis quello di Portici, per caccia e pesca, poi Capodimonte, per la caccia, e altri siti più piccoli, detti “Real Caccette”, come il lago Fusato, usato sia per la pesca che per la caccia alle folaghe (Alisio, 1979-80).
Secondo l’apprezzo a Nisida vi era un “castello” a due piani in cui si trovavano un’osteria con i magazzini per conservare le merci, la Cappella dedicata a Santa Maria delle Grazie, le “stanze per uso di Carceri marchesali” e alcune “stanze per abitazione”. Il porto era dotato di un molo, “porzione di fabrica e porzione di Scogliera” con “diverse colonnette di pietra dura … che servivano per l’Ancoraggio de Bastimenti più grossi” mentre le barche più piccole “godevano del falangaggio in una banchina più piccola”: i diritti erano esatti dal feudatario, che possedeva anche il diritto di pesca e del calo della tonnara “in burgensatico” (bene personale). Veniva anche citato un nuovo porto in costruzione a spese della città di Napoli. Ma l’acquisto non fu fatto e il porto non fu costruito [7]. L’isola è stata decritta nel 1796 da Vincenzo Pascale, che ne ha tracciato la storia, in un libro dedicato a sir William Hamilton, ministro plenipotenziario inglese, studioso di vulcanologia, insieme alle altre isole del Golfo, tutte di origine vulcanica. A fine secolo si contavano 30 abitanti, che dipendevano dal vescovo di Pozzuoli, e poche abitazioni. L’isola era tutta piantata ad olivi ma vi erano anche una vigna e alberi da frutta. Il lazzaretto presso Porto Pavone era ancora in funzione, insieme a quello di Posillipo, costruito nel Settecento (Pascale, 1796, Croce, 1894; Buccaro, 2017).
Nel decennio francese (1806-1812) Murat affidò al Corpo di Ponti e Strade, creato nel 1809, la ristrutturazione dell’antico lazzaretto e l’apertura di via Posillipo. L’ingegnere Giuliano de Fazio a partire dal 1813 cominciò a studiare le antiche strutture portuali dell’isola e di quelle di Pozzuoli, risalenti al periodo romano, proponendo il restauro degli antichi piloni (de Fazio, 1814). Allo stesso tempo, Murat riadattò la struttura della torre di guardia per farne un penitenziario (Buccaro, 1993).
Gli studi furono ripresi dopo la Restaurazione, nel 1815, (de Fazio, 1816), anche se alcuni proponevano di creare un lazzaretto a Miseno Difatti nel 1825 il castello era stato trasformato in carcere, per cui il lazzaretto era incompatibile con una struttura di sorveglianza (Buccaro, 1993). L’ingegnere Carlo Afan de Rivera, nominato nel 1824 direttore del Corpo dei Ponti e Strade (Di Biasio, 1993; Foscari, 2018), insisteva però nel programma di trasformare la zona flegrea in un grande emporio come quello del mondo antico, ristrutturando i porti di Nisida, Pozzuoli e Miseno, dove si doveva riorganizzare un “lazzaretto di peste”, o sporco, progetto non realizzato (Afan de Rivera, 1832, II:.388-394). Ma il persistere dell’epidemia colerica impose l’ampliamento del vecchio lazzaretto di Nisida, i cui lavori furono diretti dal de Fazio, assistito da Antonio Maiuri ed Ercole Lauria, fino alla sua morte, (1835), secondo il sistema degli antichi romani, che usavano i “moli a trafori” (de Fazio, 1828, 1832, 1834). Infine, nel 1852, dopo la morte del Rivera, il Maiuri progettò il nuovo lazzaretto, completato dieci anni dopo, di cui sono rimaste tracce fino ai primi del Novecento, e i moli, ancora esistenti. Ma qualche anno prima, nel 1847 si era deciso di costruirvi un bagno penale, che ospitò vari “patrioti”, tra cui Carlo Poerio (oggi carcere minorile), per cui da quel momento l’isola non è più accessibile.
La spiaggia di Coroglio e il vicino territorio di Bagnoli erano quasi tutti disabitati, frequentati dai pescatori napoletani e puteolani, che pagavano i diritti di pesca ai Dentice di Accadia, poi dopo la loro estinzione, nel 1763, al demanio regio, che aveva incamerato i beni [8]. Ma dai primi dell’Ottocento, con la ripresa del termalismo lungo la costa di Bagnoli e la diffusione della balneazione lungo le spiagge la situazione cominciò lentamente a cambiare (Sirago, 2013 e 2017).
La città di Pozzuoli
Pozzuoli è sempre stata un emporio commerciale fin dall’epoca antica. In epoca aragonese, nel 1459, re Ferrante aveva confermato il privilegio del demanio regio, concesso alla città a fine 1300 (Lopez, 1986°: 31ss.): la città, vicina alla capitale partenopea, svolgeva una importante funzione per il suo approvvigionamento. Ma era anche prediletta da tutti i re aragonesi che amavano cacciare nel suo territorio ed usare le acque termali conosciute fin dall’antichità, i cui benefici effetti erano stati descritti nel 1197 da Pietro da Eboli. Per Re Alfonso era una delle sue dimore preferite, poiché vi veniva spesso con i suoi cortigiani. Il figlio Ferrante aveva a Tripergole una “cavallerizza” (allevamento di cavalli), per le battute di caccia (Lopez, 1986: 115-116).
Nei capitoli venivano elencati in modo dettagliato tutti i privilegi: il governatore non doveva essere un puteolano, i cittadini sia in Napoli che in tutto il regno erano esenti dal pagamento dei diritti di dogana e fondaco per tutte le merci; quanto alla giurisdizione “civile e criminale”, poteva essere esercitata solo dal Governatore di Pozzuoli. Infine, veniva concessa alla città la “gabella della carne” [9].
Ferdinando il Cattolico riconfermò i privilegi con le stesse modalità; nei capitoli aggiunse che non fosse permesso alle “gente d’arme né a piede né ad Cavallo” di stare a Pozzuoli, poiché “la Terra era piccula e molto popolata”. Inoltre, concesse una fiera “franca” dai diritti doganali per quindici giorni dal 10 ottobre, giorno del patrono, San Procolo. Quanto ai “forestieri” che venivano per i bagni dovevano “locare” le abitazioni necessarie, poiché questa attività produceva le “maiore intrate” della città. Inoltre, il “bucciero” (macellaio) non doveva vendere la carne “franco” (senza pagamento) dei diritti a nessuno, neanche al re, principi e regine, visto che la gabella era possesso della città [10]. Anche Carlo V nel 1529 riconfermò i privilegi (Lopez, 1986°: 90), visto che nel porto di Pozzuoli, come negli anni passati, si svolgeva un notevole commercio di importazione ed esportazione necessario per il rifornimento della Capitale (Coniglio 1951 e 1978: 15).
Ma durante l’assedio francese del 1528 la città si schierò coi francesi; perciò, Carlo V la concesse in feudo a Galeazzo Giustiniani per 11.000 ducati, con patto di retrovendendo (riacquisto dalla città). La valutazione fu fatta in base ai 2000 abitanti, tassati per 1200 ducati. Galeazzo, detto il Gobbo, fin dal 1503 aveva stipulato un contratto con il re Cattolico per fornire due galere per la flotta con cui aveva difeso Napoli dall’attacco francese insieme alla flotta spagnola. Quando egli non fu più in grado di combattere, le galere furono poste al comando del figlio Fabrizio, che nel 1528 si distinse nella battaglia di Capo d’Orso, vicino Salerno. Per consolidare la sua posizione fece sposare la figlia di Fabrizio con Antonio Doria, che negli anni Trenta, seguendo l’esempio del cugino Andrea, aveva stipulato contratti per armare galere per la Spagna. Alla morte di Galeazzo sia le galere che la città di Pozzuoli furono ereditate da Fabrizio (Sirago 2018: 50-53). Ma la posizione strategica della città portuale flegrea, a difesa della Capitale, stava molto a cuore al sovrano e al viceré don Pedro de Toledo, che amava molto la città con il suo territorio. Perciò nel 1536, durante il suo soggiorno napoletano Carlo, tornato vittorioso da Tunisi, perdonò la città per la sua “importantia et qualitate” concedendole probabilmente su suggerimento del Toledo, di poter ricomprare il demanio allo stesso prezzo, 11.000 ducati, pagati a Cesare, nipote di Galeazzo, riconfermando gli antichi privilegi del demanio [11] (Lopez, 1986°: 92-94).
Dopo il terremoto del 1538, con la distruzione di Tripergole, sommersa dal nuovo vulcano, detto Monte Nuovo, i cittadini abbandonarono la città. Ma il viceré emanò un bando per richiamare la popolazione, esonerando i cittadini dal pagamento dei tributi. Il Toledo amava molto la città dove, seguendo l’esempio dei re aragonesi, si recava a caccia e si serviva dei bagni termali: difatti conosceva bene il trattato di Pietro da Eboli che aveva nella sua biblioteca. Il viceré “urbanista”, che stava riorganizzando l’assetto urbano di Napoli, si diede da fare da fare per ricostruire e ripopolare la città, riorganizzandola secondo un preciso piano. Lo stesso anno fece costruire nella parte bassa, prospiciente il mare, un palazzo con una forte torre, a difesa del porto (oggi Rione Terra) di cui rimane solo la porta. Fece sistemare anche fontane e molti giardini con alberi da frutto e una chiesa dedicata a San Francesco. Chiese poi alla figlia Eleonora, moglie del granduca Cosimo de’ Medici, di far venire da Firenze molte statue e suppellettili, ottenendo che Giorgio Vasari dipingesse una cappella “a fresco”. Nella villa si recava spesso, non solo a primavera o nei periodi di caccia, convocando anche i consiglieri del Consiglio Collaterale (il massimo organo di governo). Il suo esempio fu seguito anche da altre personalità come Antonio Doria.
In breve, la città si ripopolò, riprendendo sia le attività commerciali che quelle sul fitto delle abitazioni per coloro che venivano per i bagni, anche perché permaneva l’esenzione dalla tassazione. Un terribile momento si ebbe nel 1544, quando il corsaro Barbarossa, divenuto generale della flotta turca, assalì la città e le isole vicine, rifugiandosi nel porto di Baia (Mafrici, 2003). Passato il momento critico, la città tornò di nuovo a riprendere le solite attività commerciali (Lopez, 1986°: 120-122; Buccaro, 1993; Musella Guida, 2009: 248-249). Nella villa si recava spesso anche il figlio di don Pedro, don Garcia, generale della flotta napoletana, con il suo seguito, di cui faceva parte anche il poeta Luigi Tansillo, che lo accompagnava nelle battaglie (Sirago, 2011). Il poeta, dopo le “fatiche di guerra” amava molto il riposo nella villa puteolana, che aveva cantato nei suoi sonetti (Musella Guida, 2009: 322ss. e 347ss.).
A Pozzuoli nei primi del Cinquecento non vi era un ufficiale di dogana controllato dal Mastro Portolano per la sua vicinanza alla capitale. Ma dalla metà del Cinquecento, con l’incremento dei commerci, fu nominato un Portulanoto o Luogotenente del Mastro Portolano di Napoli e un credenziere del fondaco (dove si portavano le merci da controllare), ufficio acquistato nel 1777 da Antonio Galatola per 15.417,20 ducati [12]. Vi erano anche due ufficiali di dogana, un doganiero e un credenziero, che controllavano il commercio che si faceva in tutto il territorio puteolano, riscuotendo i diritti dovuti dai navigli che approdavano nel porto e in tutti gli approdi. Infine, vi era il doganiero per la “dogana del sale”. Ma gli abitanti erano esenti dal pagamento (ius fundici, diritto del fondaco) sia per le importazioni che per le esportazioni; ma spesso sorgevano controversie, per cui ricorrevano alla Regia Camera della Sommaria per la conferma dei loro privilegi [13]. Gli ufficiali erano preposti anche al controllo del contrabbando, che si faceva soprattutto negli approdi più isolati, come quello di Miseno (Sirago, 2004: 133-134). Nelle istruzioni date al Credenziero del fondaco (o dogana) di Pozzuoli erano elencati i suoi specifici compiti: esazione dei diritti sulle merci importate ed esportate dal “caricatoio” di Pozzuoli per il regno e fuori del Regno (in parte posseduti dalla Casa Santa dell’Annunziata di Napoli, che riscuoteva “grana 18 per onza” [14]) e controllo sull’esportazione di merci proibite vettovaglie, armi, cavalli, oro e argento lavorato e “in massa”, denaro, polvere, munizioni, o in contrabbando [15]. La Casa Santa dell’Annunziata possedeva anche delle entrate sullo zolfo venduto, scavato nella solfatara di Pozzuoli, spesso esportato fuori regno, che affittava [16], e la decima della pesca (D’Addosio, 1883).
Nel portolano della seconda metà del Cinquecento veniva citato il porto, con “un buon luogo molto antico che tiene degli Archi in mare parte dei quali caduti che paiono essere stati un antichissimo molo”.[17]. Anche Leandro Alberti nel 1561 dava descrizione dettagliata del molo, sotto il quale si vedevano le rovine del porto romano, simili a quelle del porto di Baia (Alberti, 1561: 179).
Un testo molto prezioso è quello del francese Jean Jaques Bouchard: il viaggiatore, un uomo molto colto, un libertino, forse una spia, rimase a Napoli per otto mesi, visitando anche i dintorni. Era un attento filologo, studioso della lingua napoletana, con i suoi richiami al greco e al latino, ed esperto delle “antichità”, poiché aveva letto quasi tutti gli autori greci e latini, che citava. Visitò anche Salerno, la costa amalfitana, di cui magnificava i “maccaroni”, e l’isola di Capri, allora sconosciuta. Ma era anche curioso per cui descriveva la popolazione e le varie tradizioni e costumi (Sirago, 2017a).
Arrivato a Pozzuoli in maggio a cavallo via terra dalla grotta di Pozzuoli descrisse il molo antico, fatto “ad archi” sull’antico molo romano. Nella “piccola città”, che contava circa 12.000 abitanti, vi erano abitazioni piccole ma ben costruite e una bella cattedrale dedicata a San Procolo: la città aveva avuto il privilegio della fiera annuale, “franca”, cioè esente dal pagamento dei diritti doganali che si svolgeva per quindici giorni a partire dal 18 ottobre, festa del Patrono, San Procolo [18]. Il porto a metà Seicento era considerato “seguro” insieme a quelli di Nisida Baia e Miseno, per cui vi approdavano numerose imbarcazioni “di traffico”, diventando un importante scalo mercantile [19]. La città possedeva il diritto di ancoraggio e falangaggio i cui proventi servivano per le riparazioni del porto [20].
Il Bouchard, che definiva i puteolani “buoni uomini di mare”, notava una loro diversa attività: alcuni di loro, definiti “dottori”, avevano una “licenza” per far visitare “le antichità” ai turisti, offrendo loro anche reperti archeologici, ma si facevano “ben pagare”. Il suo chiamato Procolo, era tra i primi ad avere avuto la “licenza” ed era alquanto esperto, ma aveva preteso un alto compenso, guidandolo non solo a Pozzuoli, dove egli aveva ammirato l’anfiteatro, però per tutti i reperti archeologici dei Campi Flegrei. Non mancò di sottolineare il bell’aspetto delle puteolane, più libere nel comportamento, come lo erano, a suo dire, quelle delle più importanti città portuali (Bouchard, 1979: 322ss.).
Una attività molto sviluppata era quella peschereccia: vicino al Molo ai primi del Cinquecento i pescatori avevano fondato la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, elevata a parrocchia il 1624. Gli stessi marinai e pescatori nel 1621 avevano fondato la chiesa dell’Assunta, presso la darsena del borgo marinaro, vicino alle banchine del porto, ai piedi del Rione Terra, chiamata anche “Chiesa della Purificazione a mare”, dove nel 1654 avevano costituito una confraternita di “Parsonari e patroni di rezze” ed una di “Valentinari, Rezzaioli seu Tartaronari e Navaloidi seu Barcaioli” (Sirago. 2018 e 2022a). Anche se la città era in regio demanio il Capitolo della Cattedrale possedeva come bene feudale la “porzione di mare divisa e del tutto separata dal mare comune … denominata il Mare o acqua in Fumosa” [21]; la Casa Santa dell’Annunziata di Napoli possedeva la “gabella della pesca” [22] e i Domenicani, che possedevano un oratorio fuori le mura, vicino al mare, dedicato al Santissimo Rosario, possedevano il diritto di pesca esatto dai pescatori che davanti all’oratorio (Lopez, 1986b).
Domenico Antonio Parrino nella sua Guida per i forestieri descriveva il molo, posto su quello antico (Parrino, 1700: 56), descrizione simile a quella del portolano del 1707, in cui si citava il molo “fatto per forza d’Archi antichi, con un buonissimo ancoraggio per navi e galere”[23]. Anche l’abate Pacichelli nella sua “Guida” sottolineava che la vicinanza della città al mare rendeva “comodo il porto” (…): era una “città piccola ma deliziosa, di clima assai caldo, e produce(va) buoni frutti e vini possenti”. Egli citava dei “bei palazzi”, come la Villa dei Toledo, che però dopo l’arrivo degli austriaci non fu più usata dalla famiglia, deteriorandosi (Lopez, 1986°: 139ss.).
Ai primi del Settecento la corte di Madrid, in piena guerra di successione, ebbe notizia che la marineria di Pozzuoli (12 feluche), insieme a quella di Procida, Sorrento e Massa era pronta ad aiutare gli austriaci [24], probabilmente sulla scia di Cesare Michelangelo d’Avalos, castellano di Ischia e Procida, che era fuggito a Vienna dopo la fallita “congiura di Macchia” del 1701 (Dizionario Biografico degli Italiani, 1962).
In epoca austriaca, seguendo le teorie mercantilistiche, il governo dette precise normative per incrementare il commercio, tra cui quella del ripristino della marina mercantile e peschereccia. Nel 1727 fu fatta una indagine per tutto il Golfo: a Pozzuoli si contavano 45 “feluche di traffico” e 90 barche da pesca con 89 padroni di barca da pesca e mercantili e 135 marinai addetti anche alla pesca; invece nella costa sorrentina e nell’isola di Procida vi erano grosse “imbarcazioni da traffico” (Di Vittorio, 1973: 401-402). Per incrementare il commercio il governo tra il 1710 e il 1723 aveva tentato di introdurre la scala franca a Pozzuoli, come fece per Trieste e Fiume; ma il tentativo fallì per l’opposizione di Napoli, gelosa dei suoi privilegi (Di Vittorio, 1973: 302-306).
All’arrivo di Carlo di Borbone, quando il regno divenne nuovamente indipendente, anche Pozzuoli beneficiò della politica mercantilistica, in cui si prevedeva uno sviluppo del commercio e un ripristino del sistema portuale del Regno. Negli anni Quaranta, mentre si riparava il porto di Napoli fu dato ordine agli ingegneri Simon Paulez e Giovan Antonio Medrano di fare indagini sulla marina di Pozzuoli e sul porto di Baia, che dovevano essere riparati dopo la guerra con gli Austriaci, poiché si temeva un possibile attacco degli inglesi [25]. Nel 1747 l’abate Placido Troyli nella sua monumentale Istoria del Regno di Napoli tracciò un bilancio di quanto ancora esisteva dell’antico porto puteolano di epoca romana su cui era stato ricostruito il molo, molto frequentato (Troyli 1747-1754, I: 57).
Grazie alle nuove normative sulla marina mercantile si ebbe un incremento anche a Pozzuoli. In quel periodo il commercio si era ulteriormente sviluppato per cui in città risiedevano i consoli di Spagna, Olanda, Genova e dello Stato della Chiesa. In città non vi era una ricca attività cantieristica come a Procida e nella penisola sorrentina, dove si costruivano grosse navi che dagli anni Cinquanta avevano incominciato a percorrere nuove rotte in Levante e nel Mar del Nord. I puteolani invece erano addetti ai trasporti di vettovaglie per la capitale e soprattutto alla pesca, per cui avevano numerose piccole imbarcazioni usate sia per il commercio che per la pesca. Il settore più importante era quello della pesca in cui la città primeggiava insieme a quella di Gaeta (Sirago, 2004).
Nel Catasto Onciario del 1753 si contavano 1106 famiglie (circa 5000 abitanti) con 39 Padroni di barche da pesca e mercantili, 61 pescatori e 98 marinai (in totale 159): i padroni in proprio o in comune possedevano 30 gozzi e sei barche, da pesca o per “il traffico”. I pescatori talvolta erano definiti “pescatori bracciali”, dediti anche alla pluriattività (coltivatori dei loro terreni durante i periodi in cui non si poteva pescare). Vi erano poi 3 “volleri”, un “nassaiolo” (calava le nasse), 7 “lanzatori” (pescatori con la fiocina), 7 “tartaronari” (con reti particolari) e 5 “pescatori di reti di posta”; vi erano anche 97 marinai, alcuni dei quali usavano la loro barca per portare i forestieri a visitare “le antichità”, continuando l’antica “carriera” del “dottore” citata da Bouchard, detta poi “Cicerone”. Anche le 36 barche da pesca erano equipaggiate con specifiche reti, “tartarone”, che rendevano annualmente tra gli 8 e i 14 ducati, “ad uso di vollero”, con “reti di poste”, “per uso di lanzare”, con “palangastri”. Il pescato, rivenduto da 4 pescivendoli, era anche molto richiesto nella Capitale dove i puteolani godevano di particolari esenzioni, tra cui quella di poter portare in città “la salzume del pesce” (pesce in salamoia) per poi rivenderlo in altri luoghi [26].
In epoca francese, quando si verificò una lieve flessione in tutto il Regno a causa delle guerre in corso, nella città di Pozzuoli si ebbe, in controtendenza, un lieve aumento perché venivano mantenute ed aumentate le attività marinare e pescherecce. Difatti dai 8798 abitanti registrati nel 1793 si passò agli 8935 del 1810 e ai 9930 del 1816. Nella statistica murattiana del 1811 si contavano 355 marinai e pescatori. La popolazione marinara era concentrata nel Rione Terra e nel “Borgo Marinaro” sviluppatosi ai suoi piedi dal XVI secolo (Sirago, 2004). Verso il 1814 l’ingegnere Giuliano De Fazio cominciò a studiare la zona del Rione Terra, conosciuta dalla popolazione locale come ‘aret i blocch’, ovvero, ‘dietro i blocchi’, toponimo che ricorda la presenza, dell’antico molo puteolano, poiché pensava di riutilizzare lo stesso metodo “a trafori” per costruire un nuovo molo (Sirago, 2023a).
Dopo la Restaurazione (1815) l’ingegnere de Fazio continuò i suoi studi fino al 1838, anno della sua morte, anche perché voleva sperimentare questo sistema per i porti adriatici, soggetti ad interrimento. Ma gli esperimenti non dettero buoni frutti (Sirago, 2023a). Il porto puteolano suscitò anche l’interesse dell’ingegnere Carlo Afan de Rivera: egli, ricordando che Puteoli in epoca romana era stata uno dei più grandi depositi commerciali, proponeva un capillare ripristino della città dove si doveva riorganizzare “un deposito delle derrate” prodotte nelle zone vicine. Egli sottolineava che queste zone fossero state bonificate, molti contadini vi si sarebbero trasferiti per coltivarle, trasportando agevolmente le derrate agricole nel porto puteolano. Qui poi le imbarcazioni “di cabotaggio” di Gaeta, delle isole napoletane, sorrentine, amalfitane le avrebbero potute caricare per trasportarle a Napoli e in tutto il Regno. Egli però non citava imbarcazioni puteolane (dedite perlopiù alla pesca). Inoltre si doveva costruire una strada di collegamento con l’interno. Egli aggiungeva che nell’ampia pianura vicino alla spiaggia della città si potevano costruire numerosi magazzini e dei ponti in legno per lo sbarco e imbarco delle merci mentre veniva risistemato il porto secondo il progetto del De Fazio (Afan de Rivera, 1832: 373-375).
In quel periodo vennero date particolari concessioni per il ripristino della marina mercantile. Anche a Pozzuoli si incrementò il numero delle imbarcazioni: nel 1838 si contavano 131 barche per un totale di 213 tonnellate, ma erano piccole imbarcazioni da pesca, diversamente dalle altre città marittime del golfo partenopeo, dove si costruivano i brigantini che si spingevano in Mar Nero, nel Mar del Nord e nelle Americhe (Sirago, 2004). Difatti l’attività dei puteolani era soprattutto quella peschereccia, esercitata anche in altre regioni come la Sardegna, il Lazio e la Toscana (Foresi, 1939).
Nei suoi appunti scritti nel 1943 il sacerdote Vincenzo Cafaro distingueva i pescatori puteolani in due gruppi, quelli dell’Assunta “abbascio o’ mare” (sulla marina) e quelli di Sant’Antonio o “della rete”, che corrispondevano alle antiche confraternite. Questa attività ha caratterizzato i puteolani nelle loro abitudini e nei loro costumi, anche folklorici, usanze mantenute fino ai nostri giorni, visto che i pescatori continuano ancora a praticare il loro antico mestiere, sia pure con mezzi e sistemi più moderni, come le lampare e le “cianciole” (Baldi, 1989).
Altre attività sviluppatesi molto a partire dai primi anni dell’Ottocento erano quelle della balneazione e del termalismo, che hanno trasformato Bagnoli, Pozzuoli e tutte le città della Baia di Napoli in città di loisir (Sirago, 2017).
Il porto e il castello di Baia
Il porto più importante era quello di Baia, collegato con quelli di Nisida, Pozzuoli e Miseno, era definito nel portolano del 1575 “porto de nave … per galere cinquanta” vicino al castello [27] e in quello del 1625 “buonissimo Porto per Galere per tutti i tempi” (Crinò, 1903). Vicino al porto il viceré Pedro de Toledo tra il 1532 e il 1553 fece ampliare l’antica fortezza costruita nel 1494 posta a difesa di tutto il Golfo: il castellano esigeva il diritto di ancoraggio dalle barche che approdavano e quelli sulla tonnara che si calava (Mauro, 1979: 132-134 e 1983:38ss.; Di Bonito, 1984:28; Sirago, 1993: 338-339). A fine Cinquecento, quando iniziò la costruzione di galeoni e vascelli da incorporare alla “Armata dell’Oceano spagnola”, i costruttori dovevano usare i porti di Baia e Castellammare, dal pescaggio profondo, utilizzando l’arsenale napoletano per le galere, costruito nel 1577, per l’assemblaggio delle navi (Sirago, 2022b).
Il castello venne riparato nel 1606 [28] e potenziato con due torri fortificate fatte costruire nel 1636 dall’ingegnere Bartolomeo Picchiatti, che resero il castello inespugnabile e il porto “bellissimo et securo, et con qualsivoglia tempestoso tempo … (capace di) numerosa armada, si de galere, come de vascelli” [29]. Nel 1648, dopo la fine dei moti, quando era stato teatro di forti scontri tra le truppe spagnole e quelle francesi, dovette essere nuovamente riparato (Bucccaro, 1993: 135). Alcuni lavori vennero fatti anche nella seconda metà del Seicento e ai primi del Settecento, quando il viceré Emanuel Fernandez Pacheco, duca di Escalona, in previsione della guerra con gli austriaci, realizzò la batteria del Forte a mare (Del Gaudio, 2008: 148-149). Un preciso disegno del castello e del porto è quello di Francesco Cassiano da Silva (Amirante Pessolano, 2005).
In un portolano dei primi del Settecento, in epoca austriaca, compilato dai Cavalieri di Malta, era descritto come “buonissimo porto tanto per Navi, che Galere”. Ma le galere potevano entrare mentre i vascelli si ancoravano al largo [30],. In epoca austriaca l’ingegnere Giuseppe Stendardo fece restaurare le fortificazioni esteriori e riparare il Forte di mare. Il castello di Baia col suo porto fu teatro dei principali scontri tra le truppe austriache e quelle borboniche. Ma la struttura, rimasta inalterata per circa due secoli, non corrispondeva alla nuova tipologia difensiva “alla moderna”, per cui all’arrivo di Carlo fu facilmente conquistata, anche per la connivenza col castellano (Del Gaudio, 2008: 151). Dopo la conquista del regno (1734) re Carlo, con l’aiuto dei ministri che lo attorniavano, riorganizzò il Regno, attuando una capillare riorganizzazione in ambito militare ed economico, ristrutturando i principali porti, in primis quello della Capitale (Sirago, 2004: 3ss.).
Il porto militare di Baia, molto importante per la difesa del Golfo, fu immediatamente ristrutturato insieme alle principali strutture difensive del regno, il castello di Gaeta, sul Tirreno, e i castelli di L’Aquila e Civitella del Tronto, tutti al confine con lo Stato della Chiesa (Del Gaudio, 2008: 153). L’approvvigionamento della guarnigione si faceva a Pozzuoli e si trasportava al castello con una “Barchetta” che serviva anche per “riconoscere l’imbarcazioni forestiere” e controllare le loro “patenti” (documenti). Una nuova imbarcazione fu costruita nel 1735, simile a quella costruita nel 1721 [31]. Nello stesso periodo furono riparate le “muraglie … in rovina”, per timore di un attacco inglese e il muro del “Baluardo di Sant’Antonio” [32]. Il porto era usato, come per il passato, per riparare le navi: nel 1739 il generale della flotta Michele Reggio aveva ordinato di rifare nel porto “la carena delle galeote”, imbarcazioni sottili [33]. Qui sostavano anche le navi delle nazioni estere come quella “papale armata di 18 cannoni) [34].
Qualche anno dopo, nel 1747, l’abate Placido Troyli cominciò i primi studi sui moli a trafori di epoca romana presenti a Baia e Pozzuoli, proponendo di utilizzare un simile sistema (Troyli, 1747-1754). Ma solo verso il 1765, durante la reggenza di Bernardo Tanucci, si cominciò a discutere sul ripristino del porto di Baia, in cui si proibiva la sosta delle navi provenienti dal Levante, che dovevano essere ancorate solo a Nisida [35]. L’anno seguente fu così approvata la spesa per gli “accomodi” necessari [36].
A partire dagli anni Ottanta il ministro della marina John Acton riprese il discorso sul porto di Baia: nel 1784, mentre si stava costruendo l’arsenale di Castellammare, fece nominare l’abate Ferdinando Galiani (con stipendio di 600 ducati annui) dall’ “Assessore di Economia della Soprintendenza del Fondo della Separazione”, un ufficio che doveva occuparsi della cura degli edifici militari. Tra le varie proposte Galiani fece anche quella sul porto di Baia che doveva essere ricostruito, e sul Mare Morto, dove vi era l’antico e celebre porto di Miseno usato dalla flotta romana, che doveva essere riaperto. Egli riferiva che si vedevano nel porto molte “pile” di quello antico, che si potevano usare per costruire il molo ed una “banchetta”, risparmiando sulla spesa. L’apertura del Mare Morto avrebbe bonificato l’aria della zona che si sarebbe potuta mettere a coltura, ripopolando tutto il territorio. Inoltre, si dava scolo alle acque stagnanti del Fusaro e si poteva fare una comunicazione tra il lago Averno e quello di Lucrino, creando una foce che sboccasse a mare. Il ministro Acton accolse favorevolmente le proposte, dando incarico allo stesso Galiani “di mettere in esecuzione l’impresa”, cosa che l’abate fece prontamente. Poi, data la celebrità dei luoghi nel mondo antico, cominciò anche a scrivere un trattato, Dell’antico e moderno stato e vicende dell’antica Baia, Baculi e Miseno, interrotta per le sue malattie (Diodato, 1788: 79-80), di cui restano solo i capitoli e il piano dell’opera manoscritti presso la Biblioteca Nazionale di Napoli [37].
Nello stesso 1784 le opere di bonifica furono affidate dalla Soprintendenza del fondo de’ Lucri all’ingenerare volontario don Francesco Securo che stilò una relazione in cui riferiva che i terreni attorno a castello, in possesso di Paolo Tiano, erano acquitrinosi e rendevano l’aria malsana, portatrice di malaria, per cui bisognava coltivarli. Inoltre, proponeva di costruire una banchina nella rada e di allargare la strada di collegamento. Egli sottolineava che aumentando i diritti di ancoraggio si potevano ottenere 1500 ducati, limitando la spesa. I lavori iniziarono in dicembre con un gruppo di 90 operai controllati da 28 soldati, alloggiati nel castello, che era provvisto anche di una taverna (Mauro, 1983: 11-16). Nella Gazzetta Universale del 23 agosto 1783 (ivi: 500) citata da Carlo Knight (2015, II: 692) si dava notizia dei lavori che si stavano effettuando nel porto di Baia, famoso in epoca romana, “diventata una spiaggia deserta, e di aria micidiale per il ristagno delle acque”, che il re voleva far tornare agli antichi splendori, in modo da potervi contenere “fino a 60 legni da guerra”, da utilizzare per la flotta regia che il ministro Acton stava costruendo a Castellammare (Sirago, 2021). Si aggiungeva anche che l’aria era già migliorata, mentre proseguivano gli scavi che riportavano alla luce molti reperti archeologici. Perciò la regina stava progettando di far costruire un giardino all’inglese (Knight, 2015, II: 692), come quello che poi fece fare a Caserta. Da 1790 i lavori di bonifica delle zone paludose del castello per debellare la malaria vennero effettuati in tutti i Campi Flegrei mentre continuavano i lavori per il ripristino del castello, interrotti nel 1799, alla proclamazione della Repubblica Partenopea (Del Gaudio, 2008: 151).
Durante il Decennio Francese si fecero lavori per rafforzare il Forte a mare e gli altri baluardi, necessari per la difesa del porto (Del Gaudio, 2008: 154-156), l’unico capace di contenere l’armata di vascelli a 76 e 80 cannoni che si stavano costruendo a Castellammare e in tutta l’Italia, secondo gli ordini di Napoleone (Sirago, 2021). Dopo la Restaurazione si mise in atto la nuova logica difensiva, che privilegiava il fronte marittimo, come si evince in un grafico del Castello del 1822. Poi nel 1833 vennero costruite delle strade di collegamento tra Pozzuoli, Baia e Miseno, progettate da Luigi Giura. Si sentiva però l’urgenza di ripristinare le fortificazioni perché il castello fino alla fine dell’età borbonica è stato sempre considerato uno dei capisaldi difensivi del Regno (Del Gaudio, 2008: 158-159).
I campi Flegrei
Anche il territorio di Baia, Bacoli e Miseno fino alla fine del Settecento era quasi del tutto disabitato. Nel portolano dei primi del Seicento veniva citato l’approdo di Mare Morto, dove potevano stare “le barche. Et a un bisogno Galere” (Crinò, 1903). Durante il viceregno spagnolo, date le ripetute incursioni di turchi e barbareschi (Mafrici, 1995), come quelli avvenuti a Pozzuoli nel 1519 e nel 1520 (Di Bonito, 1984: 24), il viceré don Pedro di Toledo, arrivato a Napoli nel 1532, lo stesso anno fece costruire delle torri a difesa delle coste: nel territorio flegreo furono così costruite la Torre di Gaveta (odierna Torregaveta), presso la foce del lago Fusaro, e quella di Patria, presso la foce del lago Patria. Nel 1538, dopo l’eruzione dalla quale “emerse” il Monte Nuovo”, furono approntate nel golfo puteolano altre difese (Di Bonito, 1984: 25-26).
Un’altra terribile incursione si ebbe nel 1544 ad opera del corsaro Barbarossa, diventato capo della flotta turca; ma il viceré intervenne prontamente, scongiurando il pericolo del saccheggio (Mafrici, 2003). Nel 1563, due anni prima dell’assedio di Malta ad opera dei turchi, il viceré duca d’Alcalà fece costruire delle torri di avviso da collegare con quelle di difesa: l’ingegnere Benvenuto Tortelli, dopo aver esaminato i luoghi, decise di costruire una torre a Monte di Procida (territorio usato dagli abitanti dell’isola di Procida per coltivare la terra, visto che l’isola era per la maggior parte montuosa), detta anche Torre di Fumo per i segnali inviati, a spese degli abitanti di Aversa (1000 ducati), e una a capo Miseno, completata nel 1592, a spese dei casali che circondavano Napoli (600 ducati), che pagavano lo stipendio anche ai cavallari, soldati a cavallo, posti a guardia delle torri (Di Bonito, 1984: 31-32).
In questo territorio deserto il contrabbando era molto diffuso. Perciò il Commissario dei Contrabbandi di Terra di Lavoro, che aveva giurisdizione fino all’approdo di Castellammare al Volturno (odierna Castelvolturno) nel territorio di Capua, doveva fare controlli anche nei due laghi di Fusaro e Patria e nel territorio dell’antica Cuma, dove si veniva a caricare grano prodotto nei paesi dell’entroterra Giugliano, Casandrino, ecc.[38]. Un caso controverso fu quello di padron Felice Cafiero di Piano di Sorrento che nel 1677, mentre trasportava con la sua tartana nello Stato della Chiesa 100 botti di vino siciliano di Marsala, per le quali aveva pagato a Napoli i dovuti diritti, era naufragato nella spiaggia di Mare Morto, era stato raggiunto dal credenziero di Pozzuoli e accusato di contrabbando [39]. Stessa disavventura era capitata l’anno precedente a padron Nicola Lubrano di Procida: egli era naufragato con la sua tartana carica di alcune botti di vino di Ischia per le quali aveva pagato i diritti dovuti al Credenziero di Ischia, ed aveva cercato “porto sicuro” a Mare Morto ma era stato accusato ugualmente di contrabbando: però era stato prosciolto e aveva riottenuto le poche botti recuperate [40].
Il territorio puteolano, in età moderna era in gran parte disabitato perché in parte paludoso: il possesso feudale del territorio tra le antiche Baia, Miseno e Cuma, alle dipendenze di Pozzuoli, era diviso tra diverse famiglie. L’antica Bauli, detta poi Bacoli, era ricca di reperti di epoca romana, visitata solo da pochi “turisti”. Un discreto commercio si era sviluppato con la pozzolana, usata nei lavori marittimi, finché fu abbandonato nel 1830 (Rebuffat, 1936.) Qui vi era l’approdo del porto naturale di Miseno, “buono per barche e per galere” (Crinò, 1903), dove il feudatario, Apostol Tovar di Castiglia, marchese di San Marcellino di Aversa, nel 1602 riscuoteva diritti per l’“ancoraggio” e il “falangaggio” [41]. A fine Cinquecento il diritto di pesca era invece in possesso di Fabritio di Buonomio di Pozzuoli [42]. Ma nel 1690 il Marchese Pedro, citando la supplica del padre Apostol, riferiva che la famiglia era in possesso “da tempo immemorabile” del Monte Miseno, dove aveva fatto costruire una taverna, forno e altri magazzini, data la distanza da Pozzuoli, e del suo territorio, coi diritti di pesca fino alla spiaggia di Cuma e alla “Torre della Gaveta”. Qui però si verificavano contrabbandi e delitti, per cui chiedeva che gli fosse concessa la giurisdizione “Civil, Criminal y Mista” come la teneva nel mare, in cui riscuoteva l’ancoraggio, un diritto posseduto “in burgensatico” (bene personale). La questione era però controversa, poiché la città di Pozzuoli, in demanio regio, riteneva che anche i territori circostanti dovessero essere inseriti in questo privilegio [43].
L’approdo del porto naturale di Mare Morto era possesso feudale di Antonio Carafa e Francesca della Nava, concesso da Federico d’Aragona: nel 1602 lo avevano concesso in “enfiteusi” ad Andrea di Medina con la “piscaria” (diritto di pesca) per cento ducati annui: malgrado l’acquisto la città di Pozzuoli nel 1626 pretendeva la quarta parte della pesca ma la Camera della Sommaria aveva ratificato il possesso del di Medina [44]. Il Medina però non poteva usare le saline esistenti in quel territorio, che dovevano “restare a beneficio della Regia Corte” [45]. Nel 1612 i Medina avevano fatto costruire una chiesetta dedicata all’Immacolata Concezione due cappelle, nel territorio del Mare Morto, e pochi anni dopo un’altra a Miseno (Fiengo, 1973: 111). Nel 1635 Galeazzo Germano e Costanza Medina avevano costruito una masseria “per vendere pane et vino a pescatori ed operarii”, chiedendo immunità di tassazione da Pozzuoli per la taverna [46]. Jean Jaques Bouchard nella sua visita ai Campi Flegrei del 1632 raccontava che il Mare Morto si era riempito di sabbia ma si pescavano molti pesci: difatti gli abitanti avevano costruito all’entrata grandi canali per farvi entrare il mare la notte, con l’alta marea, ponendo all’imboccatura delle gabbie fatte di canne a forma di labirinto con cui veniva catturato molto pesce (Bouchard, 1971: 338).
Pian piano il territorio tra Baia e Miseno venne bonificato per cui si costituì il Borgo marino di Bacoli, detto di Cento Camerelle, dai ruderi antichi, popolato da coloni puteolani e dell’isola di Procida, dediti alla coltivazione e alla pesca; a questi poi si aggiunse nel 1650 una colonia di agricoltori di origine ebrea, trasferitasi dal Casale di Posillipo, dove era stata relegata (Fiengo, 1973: 111). Il credenziero della dogana di Pozzuoli era incaricato di controllare la marina di Bacoli, dove era una taverna. Naturalmente vi erano controversie, anche perché la marina era piuttosto deserta, atta ai contrabbandi: nel 1693 non era stato pagato il diritto dovuto per le quattro botti di vino “lacrima” scaricate da un gozzo, per cui il credenziero aveva sequestrato vino e gozzo, restituiti dopo il pagamento del dovuto [47]. Tra il 1688-1692 il vescovo di Pozzuoli aveva fatto costruire la chiesa di Sant’Anna, Gesù e Maria, elevata a parrocchia nel 1700 (Fiengo, 1973: 111). A metà Settecento il borgo si era popolato: si contavano 49 famiglie (circa 220 abitanti) i cui capofamiglia erano tutti dediti all’agricoltura [48]. Comunque, ai primi del Settecento l’approdo naturale era “bassissimo”, pericoloso per galere e tartane, perciò si consigliava di “girare il capo dall’altra parte”, verso Miseno o Baia [49]. Spesso i viaggiatori, che amavano questi territori per il bellissimo paesaggio, venivano accompagnati in barca dai “ciceroni puteolani” che li deliziavano anche con gioiose tarantelle o vivaci minuetti.
Nel 1785, per bonificare il territorio e migliorare l’approdo di Baia, il re decise di acquistare i luoghi paludosi e i laghi di Lucrino e Averno da Giuliano Pollio; poi provvide all’acquisto di Mare Morto per aprire un canale di collegamento col Porto Miseno, dove cominciarono i lavori di bonifica, e fece costruire la strada Sella per collegare Pozzuoli con Baia (Mauro, 1983: 16). Nel 1794 acquistò il promontorio di Monte Miseno, che apparteneva al Monte della Misericordia di Napoli; l’anno seguente affidò all’ingegnere Pietro Schioppa l’incarico di edificare nuove case per ospitare altri abitanti, elargendo doti alle fanciulle che si fossero stabilite lì, per cui dal 1796 cominciarono a insediarsi alcune famiglie. Furono abbattute antiche abitazioni vicino alla taverna e ne furono costruite altre. Inoltre, dette l’incarico di affidare a qualche contadino i terreni incolti per conto della Cassa delle Bonificazioni di Baia. Negli anni seguenti si stabilì di costruire una banchina e quattro magazzini per “uso dei Paranzelli” (barche da pesca) sui quali vi dovevano essere le abitazioni per le famiglie dei marinai. I lavori continuarono quando fu repressa la Repubblica Partenopea e il re tornò da Palermo. Nel 1804 fu costruita una strada che doveva condurre al “Reale Casino di Miseno”, presso l’osteria (Mauro, 1983: 18-37).
Il Monte di Procida, un promontorio prospiciente l’isola di Procida, era separato dall’isola da uno stretto braccio di mare, nel cui territorio vi era anche l’isolotto di San Martino. In epoca aragonese esso era un territorio di caccia dei sovrani. Poi era stato concesso alla Mensa Arcivescovile di Napoli che nel corso del Cinquecento aveva permesso agli abitanti dell’isola di Procida di coltivare i territori fino al “Mare Morto”. E questi per lungo tempo ogni mattina si erano recati in barca dalla vicina isola per coltivare i terreni assegnati. Ma a metà Settecento la città di Pozzuoli aveva richiesto delle tasse dai procidani che coltivavano la zona. Poi si era stabilito che nel catasto di Procida si potessero censire anche gli abitanti del Monte, a tutti gli effetti abitanti dell’isola. Ma il Catasto non è stato reperito: probabilmente non è stato compilato, perché l’isola di Procida era stata requisita ai d’Avalos ed era stata inserita nei beni “allodiali”, o personali, di Carlo di Borbone, che ne aveva fatto una “riserva di caccia”. Qui i d’Avalos, marchesi del Vasto, che avevano ottenuto in “castellania” l’isola di Procida nel 1504 (Sirago, 1993; Di Liello, 2022), esigevano il diritto di ancoraggio (Scialoia, Scotti, 1775).
Nel 1775 i procidani Antonio Maria Scialoja e Marcello Eusebio Scotti scrissero una lunga e articolata dissertazione giuridica contro Pozzuoli, volta a sancire che il territorio del Monte di Procida, usato dai procidani per le loro coltivazioni, doveva essere di pertinenza dell’isola di Procida. In questa dissertazione veniva tracciata la storia di tutto il territorio, inserito nella giurisdizione di Pozzuoli. Nel 1666 Apostolo de Tovar, marchese di San Marcellino, aveva chiesto al re Carlo II il privilegio della “giurisdizione civile, criminale e mista” sul territorio tra Mare Morto, Monte Miseno, Monte di Procida, fino alla “Gaveta”, che comprendeva anche Baia e Bacoli, nel territorio di Pozzuoli, possesso preteso anche dall’isola di Procida. La città di Pozzuoli ribadiva che il territorio, essendo nella sua giurisdizione, doveva rimanere in regio demanio, come era per la stessa Pozzuoli, secondo gli antichi privilegi. Nel 1690 si discusse nuovamente sulla richiesta del marchese di San Marcellino. Poi nel 1704 in una Consulta della Regia Camera della Sommaria fu accettata l’offerta di Pozzuoli di 4000 ducati per far tornare il territorio al demanio. La Consulta aveva infatti esaminato le ragioni di Pozzuoli. In primo luogo, nella numerazione dei fuochi, o famiglie, i 15 fuochi di Monte di Procida contati a metà Seicento (circa 225 abitanti) erano stati inseriti in quelli della città; inoltre la città aveva fatto costruire le torri a sue spese e ne pagava la manutenzione. Infine dal 1655, quando i territori erano stati messi a coltura, i “gabellotti puteolani” esigevano le tasse dagli agricoltori sul vino prodotto, anche se i procidani, per antico privilegio, ne erano esenti. Perciò nel 1773 i procidani avevano denunciato le violenze dei puteolani, chiedendo giustizia (Scialoia, Scotti, 1775).
Sul Monte, dove alcuni procidani avevano cominciato a stabilirsi definitivamente, nel Seicento era stata eretta una cappella dai pescatori, poi trasformata ai primi del Settecento nella la chiesa di Santa Maria Assunta. Da qui in alcuni mesi estivi i procidani si spingevano con le loro tartane (di solito usate per il commercio) fino alle spiagge di Cuma e Miseno per pescare, anche se dovevano pagare a Pozzuoli il diritto di “falangaggio”. Il territorio, urbanizzato, dagli anni ’20 dell’Ottocento venne inserito nel distretto di Pozzuoli e la chiesa diretta da un parroco di Bacoli (Sirago, 2018a).
Quello dell’antica Cuma con la sua “marina” (Crinò, 1903) era possesso feudale de monastero napoletano di Santa Chiara, che lo aveva avuto in concessione nel 1346 per il suo mantenimento, riscuotendo i diritti feudali sulla pesca [50] (Pelizzari, 1975). Il cosiddetto Mare Cumano e i laghi di Fusaro e Patria erano possesso feudale del monastero di San Paolo di Aversa, che vi riscuoteva i diritti sulla pesca [51]. Nella spiaggia del “monte di Cuma”, vicino al lago di Licola, “luoco remoto e solitario” vi era una Taverna, ma essa veniva controllata dal Credenziero della Dogana di Pozzuoli, perché si svolgeva un fiorente contrabbando di vettovaglie anche “per fuora” (nello Stato della Chiesa) [52]. Infine nell’isolotto di San Martino, possesso del Monastero di San Martino di Napoli, i monaci riscuotevano il diritto per il “calo della tonnara” [53].
Sia Nisida che i Campi Flegrei suscitavano l’interesse del re in merito alla caccia e alla pesca. Fin dall’arrivo di Carlo, quando il regno era tornato indipendente, vennero organizzati dei “siti reali” per la caccia e la pesca. La caccia non era solo una attività ludica ma, come ha notato Luigi Mascilli Migliorini (1994), rappresentava un momento di una più articolata strategia con cui Carlo e poi Ferdinando cercarono di conciliarsi la nobiltà. Le riserve reali e il controllo sull’esercizio venatorio in tutto il regno erano affidate alle cure del Montiero Maggiore, sottoposto alla vigilanza della Regia Camera della Sommaria e che a sua volta controllava i guardia caccia (Cecere, 2011). L’ufficiale, che percepiva 200 ducati annui e il diritto di poter tagliare legna negli Astroni, riscuoteva dai pescatori che usavano le reti sciabiche il diritto di pesca nella Marina di Cuma e nella marina d’Arnone [54].
L’ufficio rimase in possesso della famiglia Carafa di San Lorenzo fino al 1751, quando fu acquistato dal re per 85.000 ducati e affidato a don Inigo de Guevara, duca di Bovino, molto vicino a Carlo. Poi nel 1755 fu emanata una prammatica per regolamentare l’attività nelle riserve di caccia, “luoghi di delizie”, che pian piano aumentarono. La popolazione era infatti soggetta a vari divieti: cogliere asparagi, finocchi, fiori, portare animali al pascolo o tagliare legna o catturare prede o aggirarsi armati. In questa prammatica erano numerati anche i siti reali, tra cui nei Campi Flegrei l’isola di Procida (rientrata in possesso del re dopo l’estinzione della famiglia d’Avalos), i laghi di Licola, Patria e Agnano e il bosco degli Astroni (Cecere, 2011) e a fine Settecento il “Reale casino di Miseno (Mauro, 1983: 28).
Nei Campi Flegrei non vi erano dei luoghi che potessero accogliere i sovrani: talvolta Carlo e Ferdinando cacciavano le folaghe nel lago di Licola o al lago Patria, che però non erano “propriamente dichiarati siti regali” (Celano, 1792: 221) o nel bosco degli Astroni (Mermati, 2020). Nel 1752 re Carlo aveva acquistato dall’Annunziata di Napoli l’area del Fusaro col laghetto di Acue morte, scarsamente abitata, trasformandola in riserva reale di caccia e pesca (Fiengo, 1973: 111; Miniero, 2020: 236): l’area era stata posta sotto il controllo del Montiero maggiore, che riscuoteva gli stessi diritti riscossi dai feudatari dagli abitanti del territorio di Cuma [55] e l’aveva ripopolata con cinghiali. Poi il re affidò a Luigi Vanvitelli l’incarico di costruire nel lago Fusaro la Casina Vanvitelliana, in cui riceveva illustri ospiti invitati alle battute di caccia o pesca. La Casina Vanvitelliana fu completata nel 1782 da Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi. Per illustrarla l’anno seguente il pittore di corte Jacob Philipp Hackert dipinse “la caccia alle folaghe” (Di Liello, 2014: 227).
Ferdinando con i suoi illustri ospiti nel lago Fusaro partecipava alternativamente alle battute di caccia alle folaghe, in autunno, o di pesca (Sirago, 2023b). Egli usava pescare con gli antichi sistemi, in primis con le reti. Ma nel 1762 aveva fatto riorganizzare la coltura delle ostriche con semi provenienti da Taranto, ripristinandola secondo l’uso fiorente in epoca romana, per cui la casina fu ribattezzata “ostrichina” (Sirago, 2023c).
In tutti questi luoghi, ormai in possesso del sovrano, furono incrementate l’agricoltura, la pesca e le funzioni portuali mentre si cominciavano a costruire le strade e venivano bonificate le paludi di Coroglio e di Mare Morto (Buccaro, 2003: 39-40). Allo stesso tempo veniva incrementata l’attività “turistica”.
In epoca francese, nel 1810, il Ministro della Guerra e Marina Macdonald, su richiesta dell’Amministrazione delle Rendite di Fortificazioni, nominò Antonio Capuano come custode dei Reali Fondi, a Miseno, con mansioni simili a quelle del Montiero Maggiore (Mauro, 1983: 36).
Dopo la Restaurazione, nel 1820, la Giunta di Mantenimento degli Edifici Militari comunicava che il Mare Morto e il porto di Miseno si erano nuovamente colmati per cui occorrevano dei lavori. L’abbassamento del livello del mare aveva creato danno anche alla pesca. Proponeva perciò che la Regia Marina fornisse un “sandolo” (tipo di draga) per lo scavo (Mauro, 1983: 16-17). In quel periodo l’ingegnere Carlo Afan de Rivera propose di creare a Miseno, dove vi era un ottimo porto, un “lazzaretto di peste” per accogliere le navi, gli equipaggi e le merci che provenivano dal Levante e le barche coralline con i loro equipaggi, pescatori di corallo, che provenivano dalle coste africane mediterranee. L’ingegnere de Fazio, che aveva progettato quello di Messina, produsse numerosi disegni per l’edificio e per riadattare la torre dove vi era la taverna, che doveva essere riadattata. Qui poi doveva essere riorganizzato l’assetto viario per collegare il porto con l’interno (Afan de Rivera, 1872: 376-387). Ma, come è accaduto a Pozzuoli, lo sviluppo della balneazione marina ha dato un nuovo aspetto a questo territorio, che è tornato ad essere un “luogo di delizie” come al tempo degli antichi romani.
I Campi Flegrei: dalla desolazione alle città di loisir. Il Grand Tour tra il Cinquecento e Settecento
I Campi Flegrei, per la loro formazione, erano un’area marginale, poco conosciuta, visitata nel Trecento solo da illustri intellettuali come Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio (Di Liello, 2005; Mermati, 2020). Ma pian piano i colti viaggiatori cominciarono ad interessarsi al territorio flegreo, conosciuto attraverso i classici, divenuto una “meta culturale” (Beck Saiello, 2010: 27ss.). Un primo veicolo di conoscenza in Europa si ebbe attraverso i pittori fiamminghi come Hendrik van Cleve che dagli importanti centri commerciali di Bruges e Anversa raggiungevano il viceregno napoletano sulla scia del grande interesse suscitato dalla cultura italiana (Di Liello, 2005: 34ss.).
Nel Cinquecento tra i gentleman travellers che visitavano l’Italia pochi si spingevano fino a Napoli, ultima tappa: nel 1554 William Barker, segretario del duca di Norfolk, un erudito che nel suo viaggio in Italia aveva raccolto numerose iscrizioni antiche, giunse nella capitale partenopea a metà Cinquecento, visitando il territorio flegreo (Bartlett, 1991: 63ss.). Uno dei più noti viaggiatori è Thomas Hoby, un diplomatico, traduttore del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, che compì un lungo e articolato viaggio in Italia a metà Cinquecento, un pioniere del Grand Tour. Egli visitò la capitale partenopea, “a very beautiful city … with sumptuose palaces”, governata dal viceré Toledo, i Campi Flegrei e fu ospitato ad Amalfi dai duchi Piccolomini, di cui descrisse i pranzi sfarzosi, serviti in stoviglie d’oro (Hoby, 1902).
Nel 1573 Ferrante Loffredo, vedendo che vi era un interesse per le “antichità”, decise di scrivere una prima “Guida”, in cui venivano descritti i reperti antichi che riaffioravano, preziosa testimonianza per i futuri studi di archeologia, ripubblicata dal Bulifon nel 1685. Pochi anni dopo, nel 1594 anche Scipione Mazzella pubblicò una simile “Guida”, in cui descriveva Pozzuoli col suo porto antico e l’anfiteatro e i resti che si trovavano nei Campi Flegrei.
Anche nel corso del Seicento vennero scritte numerose “Guide” di viaggio, sia di Napoli che di Pozzuoli e dintorni, libri maneggevoli, poco ingombranti ma funzionali, divenuti in breve “best seller”. Ai primi del Seicento Giulio Cesare Capaccio scrisse una storia di Pozzuoli in latino, tradotta poi in italiano nel 1607; dieci anni dopo anche Giovanni Mormile scrisse una “Guida” per Pozzuoli e il territorio flegreo, dando un dettagliato elenco dei bagni termali, dei loro siti e delle loro proprietà terapeutiche. Un’ulteriore produzione di “Guide per i forestieri” si ebbe a fine Seicento, quando i Campi Flegrei stavano diventando di moda tra i viaggiatori colti. Il caso del pugliese Pompeo Sarnelli, amico dell’editore francese Antonio Bulifon, è esemplare. Egli scrisse una “Guida” pubblicata nel 1685, ampliata e ripubblicata due anni dopo. Poi nel 1697 fu pubblicata anche una edizione bilingue, in italiano e francese (Lenci, 2012). Un’altra “Guida” fu scritta nel 1700 da Domenico Antonio Parrino. Tutte queste “Guide” mostrano l’interesse per i Campi Flegrei, un luogo mitico del mondo romano, sede di villeggiatura, citato da tutti gli autori per la sua bellezza, che i colti viaggiatori conoscevano attraverso le letture dei classici e volevano riscoprire. Vi era poi anche l’interesse al termalismo e alla “cura con le acque”, le cui proprietà terapeutiche erano conosciute fin dall’antichità (Beck Saiello, 2010: 27ss.).
Tra il Seicento e il Settecento la città di Napoli non era ancora inclusa nel circuito del Grand Tour intrapreso dai nobili inglesi per visitare le città d’arte italiane (De Seta, 1992). Ma pian piano cominciò a suscitare l’interesse di qualche colto erudito, interessato ai resti antichi dei Campi Flegrei, sulla scia del poema virgiliano, come l’erudito francese Jean Jaques Bouchard: egli descrisse accuratamente i “dottori”, antesignani dei “ciceroni”, che conducevano i “turisti” alle “antichità. Egli fece un lungo giro con il suo Procolo, che gli fece visitare tutti i monumenti antichi, mentre il francese sfogliava i suoi appunti: ma per mancanza di alloggio di notte dormirono sulla feluca con cui erano arrivati nel porto di Baia, stesi su tappeti turchi, dopo aver consumato una cena coi i pesci pescati nel Mar Morto, secondo lui molto a buon mercato (Bouchard. 1992: 327-366).
Un’altra preziosa testimonianza della città partenopea e dei suoi dintorni, in particolare i Campi Flegrei, è quella di Richard Lassels, che ha riportato le sue impressioni del suo “Diario di viaggio” del 1670: egli ricordava la “città gentile”, secondo la denominazione cinquecentesca, per i suoi bei palazzi, le sue strade, tra cui via Toledo, il molo grande e spazioso con la sua lanterna (antico faro) (Lassels, 1670). Ma la sua “Guida” era concepita per le esigenze di un viaggiatore frettoloso, interessato alle curiosità dei luoghi, agli aneddoti raccontati dai ciceroni locali, non ad un lettore erudito (Di Liello, 2005: 60).
Anche John Milton visitò Napoli e i Campi Flegrei tra novembre e dicembre 1678 (Allodoli, 1927), accompagnato da Giovan Battista Manso, ormai settantenne, di cui divenne amico grazie ai comuni interessi filellenici e classici (Evans, 2023). Il Manso era il tipico patrizio napoletano, raffinato letterato, personaggio poliedrico, fondatore dell’omonimo Monte Manso di Scala e cofondatore di quello della Misericordia, amico di Torquato Tasso, con cui il Manso aveva condiviso le stesse passioni per le “antichità”, passeggiando a lungo per i Campi Flegrei (Stranieri, 2022). Proprio queste visite del poeta inglese ai Campi Flegrei gli fornirono la materia per il suo poema Paradise Lost pubblicato nel 1667.
Nel 1703 giunse a Napoli un altro “avventuroso viaggiatore”, Joseph Addison, padre del giornalismo inglese, ricordato per aver fondato il giornale The Spectator, compiendo un viaggio sulle orme di Milton, che ammirava molto (Carosi, 2010). Il suo “diario di viaggio”, pubblicato per la prima volta nel 1705 è un primo modello di racconto di viaggio di un giovane inglese empirista, partito dall’Inghilterra per compiere il Grand Tour: fermatosi a Napoli, incontrò Filippo V; visitò anche luoghi sconosciuti come l’isola di Capri e il territorio puteolano, percorrendo le orme degli scrittori classici, in primis Virgilio, Tacito, Stazio.
Il viaggio più interessante è quello di George Berkley che decise di partire alla “scoperta del Sud”, per ritrovare le tracce del mondo antico, un viaggio considerato pericoloso perché tutto il meridione era una terra desolata e infestata dai briganti. Il filosofo, teologo e vescovo anglicano irlandese, membro del Trinity College, aveva compiuto il primo viaggio in Italia tra il 1713 e 1714 come cappellano al seguito di Charles Mordaunt, conte di Peterborough, ambasciatore inglese inviato a Torino per presenziare all’incoronazione a re di Sicilia di Vittorio Amedeo II, duca di Savoia (1714). Due anni dopo ripartì per l’Italia al seguito di George Ashe, figlio del vescovo di Derry George, di cui era precettore, con cui arrivò a Roma all’inizio di gennaio del 1717 per visitare musei, chiese, resti archeologici. Poi il 5 maggio decise di proseguire per Napoli, dove assistette all’eruzione del Vesuvio, lamentandosi per i pessimi alberghi. Infine, partì per le Puglie tornando a Napoli ai primi di giugno. Poiché era interessato ai fenomeni vulcanici visitò anche le isole di Ischia, famosa per le sue terme. e Procida, poi i Campi Flegrei. Infine l’11 aprile 1718 ripartì per Roma (Berkeley, 2010: 91ss.).
I Campi flegrei nella prima epoca borbonica (1734-1806)
Nel corso del Settecento, dopo l’arrivo di Carlo di Borbone (1734), quando il regno ritrovò la sua indipendenza, i grantuoristi inserirono la capitale partenopea nei loro itinerari. In quel periodo i Campi Flegrei divennero tanto famosi da indurre i pescatori e marinai puteolani ad utilizzare le loro barche per condurre i “forestieri alle antichità”. Poi furono scoperte le rovine di Pompei ed Ercolano, a metà Settecento, e a fine secolo quelle di Capri, un’isola di pescatori poco conosciuta dai “forestieri” (Sirago, 2017b). I Campi Flegrei divennero così un percorso obbligato per i Gandtuoristi (Brilli, 2007). I “Ciceroni”, un antico “mestiere” citato in Bouchard, a Pozzuoli sostavano presso Porta Napoli o nella Piazza Maggiore, oggi Piazza della Repubblica, offrendo i loro servigi ai “turisti”. Per evitare disordini era stato emanato un Regolamento di Polizia e relative tariffe per i luoghi da visitare Dal Bono, 1866, II: 157-172). Ad essi venne imposta una specie di divisa, un cappello con una fascia gialla su cui era scritto “Guida pe’ forestieri”, un bastone per camminare nei luoghi impervi e la fiaccola per illuminare grotte e luoghi oscuri, come la cosiddetta Grotta della Sibilla presso il lago di Averno (in realtà Grotta di Cocceio); egli doveva possedere anche una “patentiglia” per mostrare il suo ruolo (Dal Bono, 1866, I: 157; Mermati, 2020: 325-326).
Il marchese de Sade, venuto a Napoli nel 1766, nel suo Viaggio in Italia, raccontava della ferocia e dell’insistenza dei puteolani nei confronti dei turisti, raccomandando di procurarsi qualche biglietto di presentazione per essere ospitati in case private, visto che gli alberghi locali non erano né sicuri né abitabili (De Sade, 1995, I: 230ss.). Anche Vivant de Non non amava i ciceroni, utili solo per i viaggiatori ignoranti che “volevano osservare per dire di avere visto” (Dupuy-Vachery, 2007: 217).
I resti archeologici erano però in bella vista, per cui in un primo tempo il re Carlo di Borbone non vi prestò attenzione. Nel 1745 decise di acquistare a Pozzuoli la Vigna delle tre colonne dove cinque anni dopo iniziarono i primi scavi che, continuati per tre anni e conclusi nel 1781, portarono alla luce il Tempio di Serapide (Miniero, 2020: 236-237). Ma poiché non era stata emanata nessuna legislazione per il territorio, esso veniva “saccheggiato” e i reperti ritrovati venivano venduti (Nuzzo, Valeri, 2020). Anche a Cuma a partire dal 1755 vennero fatti degli scavi ma non si fecero indagini sistematiche, per cui anche qui i reperti ritrovati furono venduti a collezionisti (Capaldi, 2020). Comunque, molti “turisti” venivano a visitare le “antichità”, attratti anche dal termalismo. In tutti i dipinti di fine Settecento vi è una visione idilliaca del territorio, una “attrazione turistica”, ben diversa dalla realtà, visto che le zone erano per lo più deserte e poco abitate (Mermati, 2000). Con la normativa regia del 1755 si volle porre un freno all’esportazione di beni artistici ed archeologici, soprattutto in luoghi disabitati come i Campi Flegrei. Ma si dovette attendere l’Ottocento per una sistematicità degli scavi (Mermati, 2000).
Charles de Brosses, durante il suo soggiorno napoletano, il 26 novembre 1739, accompagnò Carlo a Procida, dove il sovrano amava cacciare, sostando nel palazzo d’Avalos, da lui definita una “piccola casa”, trasformata in “Real Caccetta” su progetto dell’ingegnere Agostino Caputo del 1738. Di ritorno dall’isola andarono tutti nel golfo di Baia, per pranzare con don Michele Reggio, generale delle galere, che voleva fare loro un “regalo” sulla sua galera “Reale”: solitamente le galere al suo comando rimanevano ancorate nel golfo attendendo che il re terminasse la caccia. Poi visitò Pozzuoli e i suoi resti, specie quelli dell’antico molo (composto da 20 archi, secondo le fonti antiche), di cui ne restavano 14. Poi tornò a Baia per salutare il generale Reggio e qui visitò le antiche rovine romane, tra cui il tempio di Diana e quello di Venere, seguendo il percorso consigliato dal Sarnelli nella sua “Guida” (Di Liello, 2005: 69). Pranzò nuovamente sulla galera del generale, una esperienza di cui conservò un ricordo indelebile (De Brosses, 1869: 361-371).
Uno dei viaggiatori inglesi più interessanti è lo scozzese Patrick Brydone, soldato nella guerra dei sette anni, poi “travelling tutor” (accompagnatore di giovani aristocratici inglesi nel Grand Tour), una esperienza che lo portò a pubblicare un “Diario di viaggio”, un romanzo epistolare con lettere fittizie. Nel 1769 era stato assunto come precettore di William Fullarton, con cui tornò in Italia. Giunto a Napoli nel dicembre del 1770 fu accolto da sir Hamilton, ministro plenipotenziario della Gran Bretagna, un colto erudito appassionato come lui dello studio della vulcanologia (Sirago, 2023d), che lo condusse sul Vesuvio, facendogli visitare anche le rovine di Pompei ed Ercolano e dei Campi Flegrei. Poi lo introdusse nella cerchia della nobiltà partenopea. Il piacevole clima di maggio lo indusse anche a praticare la balneazione, un vero balsamo per lo scirocco che si era sollevato durante la sua permanenza, una abitudine trasmessa probabilmente a Sir Hamilton (Brydone, 1773: 1-48, I e II lettera, 14-15 maggio 1770). Con l’ambasciatore inglese visitò anche i Campi Flegrei, arrivando nella Baia con una imbarcazione, la “Charming Molly”: qui venne condotto alle rovine di Baia e dei dintorni e visitò la pittoresca città di Pozzuoli, con la solfatara, ricordando le piacevoli letture dei classici (Brydone, 1773: 20).
Alcuni anni dopo sir Hamilton accolse con vivo piacere il suo amico Henry Swinburne, antiquario e naturalista: egli giunse a Napoli il 28 dicembre 1776 da Marsiglia con la moglie Martha Baker e i figli e col suo amico e compagno di studi Thomas Gascoigne, con cui aveva già compiuto diversi viaggi. Con Hamilton aveva affinità ideologiche e metodologiche, simili a quelle dei naturalisti-antiquari di cui il ministro si circondava, come Gaetano de Bottis, con i quali intratteneva rapporti epistolari. In breve, il ministro inglese divenne il suo principale punto di riferimento, presentandogli i suoi amici che manifestavano simili interessi (Toscano, 2006: 25ss.). e lo accompagnò a visitare le rovine di Ercolano e Pompei e i fenomeni vulcanici del Vesuvio. Visitò anche i Campi Flegrei, interessandosi sia ai fenomeni vulcanici che alle “antichità”, e la città di Pozzuoli in cui fioriva il commercio, soprattutto per il rifornimento della Capitale (Swinburne, 1790, III: 25-57). Probabilmente su suggerimento di Hamilton, decise di visitare i resti archeologici del Sud, alla scoperta dei resti della Magna Grecia (Swinburne, 1790).
In quel periodo vennero pubblicati i primi libri sui Campi Flegrei, tra cui alcuni con i disegni di Francesco Antonio Letizia, pubblicati nel 1774, e i Campi Flegrei di Sir Hamilton pubblicati tra il 1776 e il 1779, in cui il ministro analizzava soprattutto i fenomeni vulcanici.
Lo sviluppo del turismo borghese nell’Ottocento: i Campi Flegrei tra termalismo e balneazione marina
Dalla fine del 1700 vennero “riscoperte” le proprietà terapeutiche delle acque termali e marine, conosciute fin dall’epoca ellenistica (Floyer,1715), per cui furono create delle città di loisir a Bath (Inghilterra) e Vichy (Francia), dove alle cure termali si univano piacevoli passatempi per trascorrere il tempo piacevolmente: le nuove città di villeggiatura rispondevano alle esigenze curative e ludiche della nascente borghesia che, amante dei divertimenti, dei balli, della musica, delle rappresentazioni teatrali, frequentava tali luoghi anche nella speranza di fare incontri romantici (Sirago, 2013, 2013: 19-21).
I Campi Flegrei e l’isola d’Ischia, frequentati fin dall’epoca romana, vennero “riscoperti” e riorganizzati per offrire attrezzature logistiche e terapeutiche Sirago (2016d), su modello delle città di loisir europee. Questa nuova “cultura” del termalismo e della balneazione si diffuse a Napoli grazie ai “grantouristi”, ospitati dall’ambasciatore inglese, lord Hamilton, anche egli amante del nuoto e della villeggiatura, che trascorreva nel suo “casino” di Posillipo, Villa Emma (Sirago, 2023d).
In breve nel territorio del golfo napoletano, ricco di fonti termali e dal paesaggio incantevole, furono creati numerosi “centri di villeggiatura”, in primis ad Ischia (Sirago, 2015), poi nel territorio puteolano, a partire da Bagnoli, il territorio degli antichi “balneoli” romani (Di Liello, 2002). Cominciarono ad essere studiate le proprietà terapeutiche delle numerose fonti termali e vennero costruiti appositi luoghi di cura a cui si affiancavano attrezzature alberghiere à la page, dove si organizzavano serate danzanti e piacevoli “intrattenimenti” descritti in modo brioso da Matilde Serao nelle pagine del quotidiano “Il Mattino”, dove la giornalista annotava i progressi della “nuova colonia dei villeggianti” napoletani e stranieri, molto numerosa a fine Ottocento (Sirago, 2010).
Il territorio dei Campi Flegrei, conosciuto fin dall’antichità per il suo termalismo venne visitato dai primi dell’Ottocento da numerosi viaggiatori per i quali l’erudito Pasquale Panvini nel 1818 scrisse una guida “a forma di viaggio”, più agevole e fruibile per la nuova tipologia dei viaggiatori “romantici” (Panvini, 2018: VII), antesignani dei “turisti” borghesi (Di Liello 2015), attratti non solo dalle “antichità” ma anche dagli splendidi scorci paesaggistici (Di Liello, 2010).
In una parte del territorio, chiamata “Bagnuolo” per le numerose fonti termali, frequentata dai “grantouristi” per le sue “antichità” e i suoi splendidi scorci, nel 1823 erano state aperte trattorie con “stanze mobiliate” affittate ai villeggianti estivi. In quella di Giuseppe di Pierno furono scoperte delle sorgenti termali [56].
Anche Pozzuoli era diventata una ridente città di villeggiatura dove le famiglie patrizie napoletane avevano costruito lussuose ville, come quella del principe di Cardito, in cui d’estate si riuniva l’aristocrazia. Lo stesso re Ferdinando, pur anziano, continuava a cacciare nel bosco degli Astroni e organizzare battute di pesca lungo la costa flegrea (Annecchino, 1960).
Nel 1810 il comune di Pozzuoli ripristinò le terme di “Subveni homini”, nei pressi della cittadina, facendo costruire “de’ bagni decentemente forniti di tutt’i commodi” [57]. Poi erano state riorganizzate le terme di “Pisciarelli” e le “stufe” di Agnano [58]; e negli anni ‘20 si era studiato un piano analitico per risistemare le “terme di Serapide”, a Pozzuoli [59]. Infine nel 1831 era stato pubblicato uno studio medico sulle proprietà terapeutiche delle “acque termo-minerali balneolane” (M.S. Ronchi M.S., Madia A., de Rensi S., Cassola F., 1831, ripubblicata nel 1883). Dieci anni dopo fu stilato un elenco delle fonti di nuovo in funzione nella Campania, tra cui quelle flegree: le “acque balnearie” al lido di Bagnoli, nel giardino della trattoria di Giuseppe di Pierno, che aveva costruito un edificio con 20 vasche, inglobandovi la trattoria; le acque di “Subveni Homini”, di “Pisciarelli”, “con due bagni di fabbrica per le persone civili”, di “Serapide”, “con comode e decenti stanze”, di “Nerone”, tra Baia e il Lago di Lucrino, e i “Sudatori di San Gennaro”, presso il lago di Agnano [60]. Intanto nel 1850 la città di Napoli, per sopperire alla crescente richiesta di strutture turistiche per il termalismo, aveva acquistato alcuni terreni sulla “spiaggia di Bagnoli” dove venne costituito il primo nucleo del futuro villaggio, che dipendeva dalla sezione di Chiaia [61] (Cardone, 1989).
Nel secondo ‘800 lungo la costa, da Bagnoli a Pozzuoli, si sviluppò una fiorente attività turistica, basata sul termalismo (Di Liello, 2002; Lombardi, 2009), ampiamente illustrata nelle celebri “Guide Baedeker”, il più celebre prodotto del viaggio borghese ottocentesco (Di Liello, 2005: 96). Tale attività dava lavoro a 500-600 persone, addette ai vari settori (ristoratori, albergatori, ecc., compresi i medici di cui erano forniti gli stabilimenti Corona, 2000). Ben presto al termalismo si affiancò la balneazione marittima, una attività curativa che si trasformò rapidamente in ludica. Così, come era avvenuto a Napoli furono innalzati stabilimenti balneari dotati di ogni comfort, anche di terrazze dove di sera si davano spettacoli teatrali e si organizzavano eleganti balli (Sirago, 2013).
Uno degli stabilimenti più frequentati a fine ‘800 era quello del di Pierno, sito nell’odierna piazza di Bagnoli, costruito tra il 1830 e il 1840, rimodernato poi dal nuovo proprietario, Gennaro Masullo, che oltre alle vasche e ai camerini per i bagni termali aveva fatto realizzare anche uno stabilimento per i bagni marini. Nel 1922 tutto lo stabilimento, sia termale che marino, era stato rivenduto ai fratelli Antonio e Giovanni Cotroneo (Masullo, 2001). In quel periodo vennero aperti altri stabilimenti termali, Tricarico, Manganella, Fasullo, Rocco, Balneolo, Vitolo, La Pietra – Pepere, Di Leo, Villa Charlotte Calatura (Giamminelli 1987) e furono costruiti numerosi alberghi di lusso come il Serapide e il Grand Bretagne a Pozzuoli e il celebre Hotel Terme ad Agnano (Di Liello, 2015: 194).
A fine Ottocento si contava una variopinta e numerosa “colonia dei bagnanti” che partecipava a serate danzanti e sontuose cene servite sulle terrazze dei lussuosi stabilimenti come il “Serapide” [62]. Perciò il “Giornale d’Italia” nel 1904 notava con soddisfazione: «Gli stabilimenti balneari sono rigurgitanti [di gente] in tutte le ore del giorno. Questo concorso straordinario di forestieri è stato una vera provvidenza per Pozzuoli» [63]. Ancora nel dopoguerra si continuavano ad allestire sontuosi balli al “Serapide” [64].
Il termalismo e la balneazione marina nel territorio flegreo si erano sviluppati anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione che avevano consentito ai frequentatori occasionali di potervisi recare nei giorni festivi. Difatti dal 1878 era operante una linea tramviaria trainata da cavalli che collegava la città con Bagnoli, sostituita nel 1883 da quella a vapore, che però non andava oltre Pozzuoli, anche se vi era una diramazione per Agnano. Il 15 dicembre 1889 fu inaugurato il primo tratto della ferrovia cumana tra Montesanto e Pozzuoli, con stazioni intermedie in corrispondenza dei centri termali: e i collegamenti furono ulteriormente potenziati nel 1925 quando fu aperta la stazione Solfatara della linea Direttissima Roma-Napoli (Di Liello, 2015: 196-197).
Il rapido incremento di una zona che poteva diventare una nuova “città di loisir” spinse l’ingegnere Lamont Young a stilare nel 1875 un progetto per un nuovo quartiere, il “Rione Venezia”, con laghi, canali di mare, edifici balneari, alberghi, un “palazzo di cristallo”, attrezzature ricreative e sportive. Il progetto fu approvato nel 1892 ma non fu possibile trovare i fondi per la sua realizzazione, troppo avveniristica e fantastica per i tempi (Alisio, 1993: 234-255).
Fu così costruito a partire dal 1885 il solo “Quartiere Giusso” sui terreni di Candido Giusso, acquistati per creare un “rione di villeggiatura”, un progetto più economico e meno ambizioso di quello sognato da Young (Di Liello, 2015: 197ss.). Nel 1904, con i fondi della legge sull’industrializzazione voluta dal ministro Francesco Saverio Nitti, si decise di costruire lo stabilimento dell’Ilva sulla spiaggia di Coroglio: in effetti il Nitti era convinto che lo sviluppo turistico non avrebbe potuto dare i benefici che a suo parere avrebbe potuto apportare un importante insediamento industriale per cui decise di privilegiare questo settore a scapito di quello turistico. Lo sviluppo della balneazione continuò negli anni successivi alla costruzione dello stabilimento e gli stessi operai crearono il “Circolo Ilva Bagnoli” divenuto poi il Circolo Canottieri, ancora attivo. Lo stesso Circolo, oltre a promuovere diverse attività ricreative, ospitò numerose colonie marine per i figli degli operai al “Bagno Sirena”. Ma a causa dell’inquinamento la zona subì un progressivo degrado; e anche dopo la dismissione dell’Italsider, negli anni ’90, la situazione non è migliorata, poiché la riqualificazione è complessa e costosa. Ma oggi si stanno prendendo in esame vari progetti con i quali si potrebbe realizzare un quartiere residenziale simile a quello sognato da Young (Sirago, 2013: 77-78).
Conclusione
Nel territorio flegreo come in quello caprese la popolazione fin dai primi del Cinquecento era dedita alla pesca: durante tutta l’età moderna questa è stata l’attività predominante dei puteolani che però si occupavano anche di trasportare nella Capitale le derrate alimentari prodotte nel territorio. I marinai spesso affiancavano a queste attività anche quelle di “cicerone”, o accompagnatore dei forestieri che venivano a Pozzuoli e in tutto il territorio sia per curarsi con le acque termali che per “visitare le antichità”. Dai primi dell’Ottocento agli eruditi “grandtouristi” si sostituirono i nuovi “borghesi”, che avevano un tempo più limitato di tempo libero, per cui facevano un viaggio più breve, magari organizzato in gruppi, come quelli di Tomas Cooh, il primo “tour operetor” (Dawes, 2003) grazie alle nuove “Guide”, più agevoli e maneggevoli. Il territorio flegreo pian piano venne urbanizzato e dotato di ogni comfort per i turisti borghesi.
A fine Ottocento furono fatti numerosi progetti per ampliare il settore alberghiero e riorganizzare quello termale e balneare. Ma dagli inizi del Novecento, quando fu deciso di impiantare il complesso industriale dell’Ilva, il sogno dell’Ingegnere Young svanì dando luogo ad una nuova “città industriale”. Poi dal 1992, dopo lo smantellamento dell’Italsider, si è cercato di riprogettare l’urbanistica del territorio per farlo ridiventare un ameno luogo di villeggiatura, come era in epoca romana. Ancora oggi però non vi sono risultati apprezzabili.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Archivio di Stato, Napoli, (d’ora in poi ASN), Sommaria, Partium276, ff.133v-140v.,1593.
[2] ASN, Farnesiano, 1198, apprezzo del 1770-1771, in cui è citato quello del 1650.
[3] Biblioteca Nazionale, Napoli, d’ora in poi BNN, ms. XII D 38, Nuovo et esattissimo Portolano di tutto il mar mediterraneo…. composto dai Piloti delle Galere del S.R.J. residenti in Malta, 1707.
[4] ASN, Segreteria d’Azienda, 17/21, 3/6/1743.
[5] ASN, Farnesiano, 1530, ff. 157t.ss, 25/9/1765; 1534, 27/6 e 8/8/1765; 1536, 27/2/1766.
[6] ASN, Farnesiano, 1538, 24/4, 15 e 22/5/1766; 1537, 7/8/1766.
[7] ASN, Farnesiano, 1198, apprezzo del 1770-1771, cit.
[8] ASN, Farnesiano,1539 (1763).
[9] AGS, d’ora il poi AGS, Secreterias Provinciales, Legajo 23, 1459, capitoli di Pozzuoli.
[10] AGS, Seterias Provinciales, Legajo 23, 1509, capitoli di Pozzuoli.
[11] AGS, Secreterias Provinciales, Legajo 23, 1536, capitoli di Pozzuoli.
[12] ASN, Commissione Liquidatrice del Debito Pubblico, 489, inizi dell’Ottocento, elenco dei beni redatto dopo la legge eversiva della feudalità (1806) per ottenere il compenso stabilito.
[13] ASN, Sommaria, Partium, 1969, ff. 54t-55, 30/6/1613 e 2225, f. 173, (1624-1625)
[14] ASN, Sommaria, Partium, 15, 1594, ff. 43-44 (il volume manca).
[15] BNN ms. XV D 39, ff.75t.ss.
[16] ASN, Museo, 99 C 64, f. 13t., 1535 e f. 174t., 1590-1597 e Sommaria, Consulte, ff. 209-210, 21/2/1701; AGS, Secreterias Provinciales, 9/6/1593.
[17] BNN, ms. XIII D101, portolano di metà Cinquecento.
[18]AGS, Secreterias Provinciales, 21.
[19] AGS, Secreterias Provinciales, 23, 1649.
[20] ASN, Museo, 99 C 64, f. 1t, 1495-1505; Creditori dello Stato, 274/6, f. 29, inizi dell’Ottocento
[21] ASN, Commissione Liquidatrice del Debito Pubblico, 4227, inizi dell’Ottocento, elenco dei beni redatto dopo la legge eversiva della feudalità (1806) per ottenere il compenso stabilito.
[22] ASN, Sommaria, Partium, 937, f. 354, 20/4/1584.
[23] BNN, ms. XII D 38, Nuovo et esattissimo Portolano di tutto il mar mediterraneo…. composto dai Piloti delle Galere del S.R.J. residenti in Malta, 1707
[24] Archivio Historico Nacional, Madrid, Legajo 1760, 23/8/1703, Legajo 2088, 27/8, 7 e 12/11/1703.
[25] AGS, Estado, Nápoles, Legajo 5820/16, 1739-1740 e 5927/6, nov.1739 (Baia); ASN, Sezione Militare, 31II, ff.72-74t. e f. 110, luglio 1741.
[26] ASN, Catasto Onciario, 307, 1745.
[27] BNN, ms. XII D 43, portolano del 1575.
[28] AGS, Estado Nápoles, Legajo 1103/206, 25/11/1606, il viceré al sovrano.
[29] ASN, Sommaria, Consulte, 47, ff.142v.-144v., 17/11/1643.
[30] BNN, ms. XII D 38, Nuovo et esattissimo Portolano di tutto il mar mediterraneo…. composto dai Piloti delle Galere del S.R.J. residenti in Malta, 1707.
[31] ASN, Sommaria, Consulte, 172, ff. 58t.-59, 22/4/1735.
[32] ASN, Sommaria, Consulte, 171, ff. 74t.-75, 21/4/1735; AGS, Estado, Nápoles, Legajo 5927/6, nov.1739.
[33] ASN, Segreteria d’Azienda, 8/37, 15/2/1739.
[34] ASN, Segreteria d’Azienda, 8/21, 21/2/1739.
[35] ASN, Farnesiano,1534, 27/6/1765.
[36] ASN, Farnesiano,1538, 30/10/1766.
[37] BNN, ms., carte Meola, busta XVI G 17
[38] Biblioteca Nazionale, Napoli, d’ora in poi BNN, ms. XV D 39, Uffici, ff. 9-49, Istruttioni.. al Commissario di controbbanni … di Terra di Lavoro.
[39] ASN, Sommaria, Consulte, 77, ff. 48t.-49t, 10/10/1678.
[40] ASN, Sommaria, Consulte, 77, ff.204-295, 10/3/1677.
[41] AGS, Secreterias Provinciales, legajo 58, 17/71612.
[42] ASN, Sommaria, Partium, 975, ff. 145-158t. (1584-89).
[43] Archivio General, Simancas, Secreterias Provinciales, legajo 58, 17/7/1690.
[44] ASN, Sommaria, Consulte, 16, f. 28v.-34, 1/6/1602; Sommaria, Partium, 2166, ff. 29t.-30t., 12/2/1626.
[45] ASN, Sommaria, Partium, 1712, f. 185, 17/4/1605.
[46] Asn, Sommaria, Partium, 2280, f. 210, 1635.
[47] ASN, Sommaria, Consulte, 88, ff. 68-68t., 18/11/1693
[48] ASN, Catasto Onciario, 355, 1743, Bacoli.
[49] BNN, ms. XII D 38, Nuovo et esattissimo Portolano di tutto il mar mediterraneo…. composto dai Piloti delle Galere del S.R.J. residenti in Malta, 1707.
[50] ASN, Monasteri Soppressi, 2695, f. 173.
[51] ASN, Monasteri Soppressi, 2695, f. 173.
[52] BNN, ms. X D 39, 1631.
[53] ASN, Notaio O.M. Critari, protocollo 47/29, ff. 179ss.
[54] BNN, ms. XI D 10, f.16 (1625).
[55] BNN, ms. XI D 10, f.16 (1625).
[56] «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 20/2 e 5/12/1823.
[57] «Monitore Napoletano», 4/7/1810.
[58] ASN, Intendenza di Napoli, I, 1624/1294, 1814.
[59] ASN, Intendenza di Napoli, I, 1635/1891, 1817 – 1819.
[60] «Annali Civili del Regno di Napoli», f.lo. 53, sett. – ott. 1841, pp.64 – 78, pp. 64ss.
[61] ASN, Intendenza di Napoli, I, 10.025/1860, 1850.
[62] «Il Mattino», 20 – 21/7/1892 e 25/8/1895.
[63] «Il Giornale d’Italia», 11/8/1904.
[64] «Il Mattino», 26/7 e 29 – 30/8/1919.
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Jacopo Sannazaro di Napoli. Dal primo settembre 2017 è in pensione. Affiliazione: Nav Lab (Laboratorio di Storia Marittima e Navale), Genova. Membro della Società Italiana degli Storici dell’Economia, della Società Italiana degli Storici, della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, della Società Italiana di Storia Militare. Ha scritto alcuni saggi e numerosi lavori sulla storia marittima del regno meridionale in età moderna. Tra gli ultimi suoi studi si segnalano: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2013; Gente di mare Storia della pesca sulle coste campane, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2014; Il mare in festa Musica balli e cibi nella Napoli viceregnale (1503-1734), Kinetés edizioni, Benevento, 2022.
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