di Sergio Todesco
Le recenti iniziative assunte dai Governi Nazionale e Regionale in tema di Ponte sullo Stretto hanno mobilitato una serie di riflessioni sull’opera che, pur diversamente modulate, mi sono apparse unidirezionali, nel senso che anche quelle non sperticatamente favorevoli hanno dato come scontato e in qualche modo “fatale” che il Ponte abbia da farsi. Essendo nettamente contrario a che il Ponte si faccia, mi proverò a fornire qui di seguito alcune considerazioni di segno contrario.
Intanto, sulle iniziative cavalcate con un ardore e una sicumera degni di miglior causa dal ministro Matteo Salvini, c’è da osservare che costui si conferma sempre più come persona che ogni giorno prima di alzarsi dal letto getta i dadi per sapere che esternazione quotidiana fare per sentirsi ancora viva. Lo stesso giovanotto infatti, che oggi da ministro delle Infrastrutture sproloquia sulle mirabolanti ricadute economiche e sociali legate al Ponte sullo Stretto, ancora pochi anni fa, nel 2016, sosteneva che il Ponte fosse un progetto inutile e irrealizzabile, e che andasse piuttosto potenziata la rete delle disastrose ferrovie siciliane [1].
Occorre subito osservare che le parole d’ordine oggi partorite dai politici sono nient’altro che enormi bufale. Ne indico brevemente alcune:
a- il Ponte non sarebbe “green”, come spiritosamente affermano alcuni, in quanto la sua realizzazione esigerebbe un tale movimento di terra da stravolgere del tutto il precario assetto territoriale dell’area in cui dovrebbe sorgere. Quando si osservano i plastici prodotti da questi tristi influencers delle coscienze pare che la struttura debba stare in piedi poggiando su esili basamenti; in realtà ognuna delle aree occupate dai pilastri sui quali il Ponte dovrebbe poggiare misurerebbe circa cento metri per lato; provate a immaginare di eseguire fondazioni estese un ettaro ciascuna, e la risposta del territorio…;
b- il progetto del Ponte non è allo stato attuale cantierabile (e chissà tra quanti anni lo sarebbe), e quindi dall’Unione Europea non è arrivato in realtà alcun nulla osta al Ponte, come afferma il Salvini sotutto, essendo stato l’eventuale finanziamento subordinato appunto a un progetto definitivo;
c- il Ponte non sarebbe un “volano economico”, né un’attrattiva turistica come si continua a dire da decenni, in quanto in un mercato globalizzato sempre più le merci viaggeranno per mare o via aerea, e sempre meno attraverso treni e mezzi gommati. Se guardiamo alle condizioni viarie siciliane viene da ridere (ma tristemente) pensando che il risparmio di un’ora sull’attraversamento dello Stretto possa compensare lo sfacelo delle nostre strade, autostrade e linee ferrate. Sull’A18 Messina-Catania si viaggia ormai in emergenza su unica corsia a doppio senso di marcia; sull’A20 Messina-Palermo il manto stradale è un formaggio svizzero e i viadotti fanno sudare freddo chi li attraversa; sull’A19 Catania-Palermo i numerosi cantieri fanno di questa autostrada un percorso perennemente accidentato. La rete ferroviaria non è da meno, con un binario unico di memoria ottocentesca. Per andare in treno da Trapani a Palermo occorrono oltre quattro ore, da Gela a Catania tre ore e mezza, tre ore per raggiungere Palermo da Catania. Taccio infine, per pudore, della condizione delle strade statali e provinciali.
Qualche burlone è giunto a parlare del Ponte come di un’opera ecologica! Cosa dire su tale affermazione? Che alla faccia tosta e alle menzogne non c’è limite.
Ho già in passato osservato che alla “realtà” di un Ponte sullo Stretto (per cento e una ragione irrealizzabile) si sia da sempre sovrapposta la sua “retorica”, che ha consentito a tanti, tantissimi “esperti” di dare aria alla propria bocca, e a pochi, pochissimi furbetti di pompare miliardi allo Stato Italiano, ossia a noi tutti. Vien da chiedere ai fautori del Ponte cosa ne pensano di ciò che comporterebbe, diciamo per quattro o cinque anni, il solo movimento di terra e il trasporto dei materiali risultanti dai fantomatici lavori. E la stessa domanda andrebbe rivolta a tutti i messinesi, se siano essi disposti a vedere scorrere file interminabili di tir carichi di macerie sulla Litoranea o sulla Panoramica, mentre cercano di raggiungere l’ufficio o di fare una passeggiata in centro…
Sarebbe altresì utile che tali laudatores del Ponte spiegassero alle migliaia di famiglie che vivono nella zona di Capo Peloro per quale superiore motivo alcune di esse, cui verrà espropriato il terreno su cui sorge la propria casa, dovrebbero trasferirsi altrove, e perché molte altre dovrebbero esser condannate a subire, vita natural durante, l’enorme ombra incombente sulle proprie teste causata da questa gigantesca struttura di acciaio e cemento.
Un Ponte di 3.600 metri in una delle aree più sismiche del pianeta! Capisco che questa classe politica sia in mala fede per avidità di bisinìssi, riesce più difficoltoso comprendere come semplici cittadini possano abboccare a tale miraggio. Alcuni associano la costruzione del Ponte all’avvento di un improvviso miracoloso progresso civile ed economico. Ma quando mai! Il progresso civile ed economico si raggiunge allorquando matura una maggiore consapevolezza della preziosità e intangibilità dei beni comuni, che sono quelli che migliorano la qualità di vita di tutti.
Oltre ai devastanti mutamenti che un ponte sullo Stretto produrrebbe sotto il profilo ecologico esistono motivi di più squisito ordine simbolico che fanno di questo progetto una bruttura cosmica. Lo Stretto di Messina è infatti una sorta di ombelico del Mediterraneo, trovandosi al contempo equidistante e luogo di interferenze tra nord e sud, tra est e ovest. In ragione di tale peculiare posizione ha registrato nel corso del tempo il passaggio e spesso lo stanziamento di numerosi popoli e culture, portatori di forme assai diverse di civiltà; a seguito di ciò esso si è venuto costituendo come un palinsesto territoriale che ha visto progressivamente stratificarsi contesti, fenomeni e realtà “immateriali” di varia natura, fabulazioni, saperi, memorie che dal mondo antico fino a oggi hanno continuato a segnare con la loro molteplicità lo specialissimo habitat antropologico che si è determinato in questo tratto di mare, finendo con il costituire un unicum di cui non esiste eguale.
Invece che riflettere sulle specificità storiche, antropologiche, naturali e naturalistiche di questo angolo di mondo, si fa ormai a gara a chi riprende per primo quegli incomprensibili progetti strategici che paiono mutuati da Risiko, fatti di corridoi, anditi, sottopassaggi, strade maestre, assi privilegiati che tutti portano alla Sicilia, la quale pare esser diventata Samarcanda, il centro e il culmine di ogni flusso commerciale. In realtà, come è stato da più parti osservato, non è certo il transito delle merci a portare ricchezza ma la loro lavorazione. E in quanto ai passeggeri, diretti in treno o in auto dal continente in Sicilia, il ponte non sortirebbe altro che un’ulteriore marginalizzazione di Messina, Reggio Calabria, Villa San Giovanni, bypassate e vieppiù ridotte a non-luoghi.
I lavori connessi alla realizzazione di un Ponte, lasciando da parte con pudore le baggianate del ministro che li vede già realizzati entro la presente legislatura, durerebbero in realtà almeno dieci, quindici anni. Gli strombazzati posti di lavoro che ne sortirebbero sono del tutto fantasmatici e frutto di demagogia politica. Lo stesso progetto del Ponte chiarisce che «l’impatto occupazionale dell’opera appare modesto in relazione al costo dei lavori». In compenso l’eventuale avvio dei lavori metterebbe in perenne quarantena le reali iniziative davvero utili per i nostri territori, per le nostre comunità. Mi provo qui a enumerarne alcune:
a) la messa in sicurezza totale del territorio, che eviterebbe quelle sciagure a orologeria che puntualmente si abbattono sulle comunità locali, mentre puntualmente i politici di turno fanno gli scecchi nel lenzuolo e maledicono la sorte ria e perversa;
b) la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici e di tutti gli edifici pubblici, che hanno spesso raggiunto condizioni di fatiscenza e pericolosità indecorose;
c) l’ampliamento e il completamento delle reti viaria e ferroviaria siciliane fino a farle giungere perlomeno ai livelli di quelle del Nord. Forse in tal modo si arresterebbe in parte lo spopolamento di pezzi sparsi di territorio che diventano sempre più soggetti a desertificazione;
d) l’istituzione di nuovi sistemi di turismo culturale che sottraggano i nostri beni al rango di merci (quali sono percepiti, e diventano di fatto, in questo momento) e li restituiscano alla loro reale natura di risorse, opportunità di sviluppo, marcatori identitari. Come ottenere tali risultati? Beh, intanto predisponendo molteplici sistemi reticolari di tipo ecomuseale, restituendo alle comunità la consapevolezza del valore di quanto le circonda e promuovendo modalità di fruizione rivolta non più a turisti mordiefuggi ma a viaggiatori ben disposti a farsi coinvolgere in forme di turismo relazionale, di accoglienza, tarato secondo logiche stagionali in grado di raggiungere ogni tipologia di utenza;
e) il tornare a lavorare al progetto di far riconoscere lo Stretto quale Patrimonio Unesco dell’Umanità. Allora i turisti sarebbero miriadi!
f) l’attivazione di Musei, Biblioteche, Centri Sociali, luoghi di confronto tra le persone valevoli a riscattarle dal ruolo passivo di utenti controllati a vista dai propri televisori;
g) infine cultura, cultura, cultura. Libri, teatro, musica, cinema portati dappertutto, a cominciare dalle periferie, laddove si annida il principale serbatoio dei populismi, che hanno bisogno di seguaci e non di cittadini liberi e consapevoli;
Mi pare di poter prevedere che tutte queste cose produrrebbero posti di lavoro in misura infinitamente maggiore di quelli promessi per la costruzione della bruttura cosmica. E pare poco tutto ciò, a confronto di alcuni milioni di tonnellate di acciaio e cemento utili solo a risparmiare un’ora di tempo (ah, il tempo!) privando questo Stretto di una facies che resiste da migliaia di anni, che ha visto affermarsi e transitare civiltà, flussi mercantili, mitologie e fabulazioni, migrazioni, partenze e ritorni, sogni?
Se ci fosse stato il Ponte non avremmo avuto un capolavoro come Horcynus Orca, e neanche una voce poetica come quella di Maria Costa. Se ci fosse stato il Ponte Ulisse, gli Argonauti, Scilla e Cariddi, Colapesce non ci sarebbero. Si vuol farlo davvero? Saranno tempo e denaro sprecati, perché questa oscenità non si farà mai. Unico risultato che potrà sortire un eventuale avvio dei lavori sarà quello di donarci una Messina e una costa calabra devastate e sempre più ridotte a luoghi marginali, angoli di mondo vocati alla bellezza e viceversa ridotti a luoghi resi invivibili per quanti ancora li abiteranno.
In sintesi: la bellezza, la storia, la memoria, l’identità dello Stretto esigono che su di esso non insista un mostro di cemento e acciaio privo di ragion d’essere. La battaglia di quanti si oppongono al ponte non è dunque una battaglia politica. È soprattutto una battaglia civile e culturale che intende salvaguardare per sempre l’assetto attuale di una porzione di territorio unica nel suo genere.
Se poi si volesse esaminare l’enorme patrimonio immateriale del quale lo Stretto di Messina è stato muto testimone nel corso dei secoli, basterebbe enumerare la serie di realtà che hanno connotato questo angolo di mondo per rendersi conto di come il Ponte cancellerebbe l’aura determinatasi nel tempo attraverso stratificazioni culturali che, tutte insieme, hanno concorso a costruire un’identità plurima, preziosa al mantenimento del senso di appartenenza di quanti vivono questo luogo nella consapevolezza dell’articolato lavorìo che lungo le sponde dello Stretto innumerevoli generazioni hanno posto in essere per conferire senso al territorio. Come già fatto in un contributo di qualche anno fa (cfr. Lo Stretto di Messina come bene immateriale, in Dialoghi Mediterranei n. 47 del 1 gennaio 2021 [2]) provo a enumerarne alcune, soffermandomi poi, a titolo esemplificativo, in una specifica attività che tuttora contraddistingue la cultura tradizionale locale.
Se volessimo ripercorrere la storia di Messina attingendo alle svariate mitologie sulle quali gli antichi esercitarono il proprio pensiero selvaggio, scopriremmo con una certa sorpresa che il genius loci si è qui prodigiosamente moltiplicato in un vero e proprio pantheon di figure numinose, tutte impegnate a vario titolo a fornire alla città coordinate mitologiche, geografiche, socio-religiose, esistenziali. Così il falcetto con cui Crono, il più giovane dei sette titani figli di Urano, castrò il padre sarebbe poi stato da lui scagliato in questo Bosforo d’Italia dando luogo all’ampia zona falcata che contrassegna il porto di Messina. Così le peregrinazioni di Orione, forse già accecato dal padre della donna da lui violata, lo avrebbero condotto nell’area dello Stretto, dove avrebbe atteso ad assicurare la configurazione definitiva della zona di Capo Peloro.
In modo non dissimile gli scrittori che tra il XVI e il XVII secolo vollero ancorare le origini della città dello Stretto a un evento mitico avvenuto in illo tempore, in un tempo metastorico per ciò stesso fondante e garante di tutta la storia successiva, si appropriarono di brandelli mitologici provenienti da altri più vasti affreschi narrativi inserendo nelle vicende locali tali presenze agiografiche, eroiche o numinose, da Ercole a Eolo, da Odisseo a Enea, e poi nell’Era volgare da San Paolo a Sant’Antonio di Padova a San Francesco di Paola, da Re Artù alla sorella sua Morgana, eletti al rango di eroi civilizzatori, mitici progenitori o esseri dotati di una particolare carica sacrale, atta a conferire una volta e per sempre spessore e pregnanza, identità e memoria sempiterna al sito.
Scrivevo in quell’articolo del 2021:
«Le cause di una tanto vasta messe di leggende, tradizioni, mitologie, vanno certamente ricondotte alla natura geograficamente e geologicamente oltremodo speciale di quest’area, ma tra esse pare probabile che abbia storicamente assunto una peculiare pregnanza la liminarità… Laddove un tratto di mare separa due terre in origine unite, si avverte in modo particolare il senso del confine. La natura tettonicamente precaria dell’areale ha inoltre contribuito ad accrescere le caratteristiche di confine, di margine indefinito e, per ciò stesso, rischioso, precario come tutti gli spazi che non stanno “al centro” ma si affacciano su un “altrove”. La leggenda di Colapesce, laddove si riferisce della condizione d’instabilità in cui verserebbe quest’angolo di Sicilia a causa dell’ammaloramento della colonna che lo sostiene, altro non sarebbe dunque che una metafora della “instabilità” naturale del sito…».
Tra le realtà immateriali o di peculiare valenza storica, sociale e antropologica che hanno concorso a delineare l’identità dell’area dello Stretto di Messina nel corso della storia mi provo a enumerare qui di seguito le seguenti:
a-le peculiarità mitologiche, leggendarie, sacrali (miti di fondazione: Zanklo, Crono, Saturno, Orione; mitologie nello Stretto: Poseidone, le Sirene, Leucosia, Partenope, Ligea; mitologie a Capo Peloro: le tre ninfe, Tifeo, Tifone, Zeus Pelorios; eroi: Ercole, Ulisse, Enea, gli Argonauti; metamorfosi: Glauco, Scilla e Cariddi; leggende: Arione e il delfino, Colapesce, Artù, la Fata Morgana; mitologie popolari: le storie di Giufà; presenze sacrali e numinose: Madonna della Lettera, San Paolo, San Francesco di Paola; la Falce e la presenza di San Raineri;
b-le peculiarità storiche: lo sbarco dei Normanni in Sicilia; la partenza per le Crociate (Riccardo Cuor di Leone); la rotta francigena; la partenza per la Battaglia di Lepanto (Don Giovanni d’Austria); i forti umbertini e i presidî di avvistamento costiero; la spartenza, l’emigrazione e i flussi migratori;
c-le peculiarità socio-economiche e tecnologiche: i Ferry Boat e i collegamenti tra le due sponde; la cantieristica tradizionale e i mastri d’ascia siciliani e calabresi; le Dogane e i Porti Franchi; i fari, i due Piloni ENEL;
d-le peculiarità naturali e naturalistiche: il paesaggio; i laghi di Faro e Ganzirri; i terremoti e i maremoti; la microflora e la microfauna dello Stretto; le specie abissali; le migrazioni stagionali dei volatili;
e-le peculiarità letterarie: la letteratura di viaggio e il “Bosforo d’Italia”; Horcynus Orca e la metafora dello Scillecariddi; Maria Costa e la poesia popolare sul mare;
f- le peculiarità antropologiche: la pesca del corallo nello Stretto; le saline; la caccia al pesce spada; la molluschicoltura; il pellegrinaggio a Polsi e le devozioni condivise dalle comunità costiere; le filande; le Vare – Messina e Palmi – e i Giganti, siciliani e calabresi.
Già da tale semplice enumerazione lo Stretto di Messina appare essere stato oggetto, nel corso degli ultimi quattromila anni, di dinamiche di “investimento di senso”, intendendo con tale espressione più che la specialissima natura dei luoghi la lucida consapevolezza – manifestatasi in seno a gruppi umani e tradizioni letterarie – della peculiare specificità dello Stretto di Messina quale tòpos privilegiato per un serie impressionante e davvero sterminata di produzioni dell’immaginario da parte di numerosi popoli e culture.
Tali beni ed eredità immateriali (compresi gli usi, le tradizioni e i costumi legati all’esercizio di attività materiali, in quanto produttori di saperi, abilità, competenze e tecniche del corpo di per sé immateriali) fanno da degno corollario alle caratteristiche riconducibili alla configurazione geo-morfologica del sito e al particolare habitat biologico-marino che in esso si è creato, che rendono lo Stretto di Messina meritevole di essere annoverato tra i patrimoni dell’umanità; un auspicabile provvedimento in tale direzione sarebbe ancora più significativo in quanto quello di Messina sarebbe il primo Stretto al mondo ad avere attribuito tale riconoscimento.
La caccia al pesce spada
La tradizionale caccia al pesce spada (Xiphias gladius), praticata lungo le due sponde dello Stretto di Messina da tempo immemorabile e documentata da scavi archeologici come esistente già in età del bronzo, ha registrato la presenza, almeno fino alla prima metà del XX secolo, di un’imbarcazione di singolare interesse riguardo a configurazione materica e caratteristiche costruttive. Il luntro, (in siciliano luntru), così chiamato per probabile derivazione dal latino linter (barca da pesca a fondo piatto già utilizzata dai Romani), era un’imbarcazione lunga 24 palmi (cm. 624), larga cm. 165, con lo scafo alto circa cm. 80, dalla forma snella e slanciata (alla stregua del gladio, la lamina cornea trasparente che si trova all’interno del dorso del calamaro) e il fondo tondeggiante in modo da consentire un ridotto pescaggio. Tale configurazione, unitamente alla leggerezza del legname impiegato nella costruzione e all’esiguo spessore del fasciame, consentiva all’imbarcazione di raggiungere un’elevata velocità, anche per la particolarità del sistema propulsivo consistente nei quattro lunghissimi remi, ciascuno dei quali di dimensioni diverse; i più lunghi di essi, u stremu lungo mt. 5,72 e ’a paledda lungo mt. 5,46, poggiavano su due eleganti supporti arcuati (antinòpuli o anchinòpuli) sporgenti dalle murate di prua al fine di proiettare all’esterno della barca il loro fulcro e consentire ai due vogatori remate più vigorose, mentre i tre vogatori addetti ai due remi centrali, u menzu e u remu i puppa lunghi mt. 4,68 (il vogatore posto in mezzo si alternava nell’aiuto ai due compagni), volgevano le spalle alla direzione di marcia del luntru, che avanzava, al contrario di quanto avvenga di solito, con la poppa. Al centro del natante, tradizionalmente dipinto di nero nella parte esterna e rosso e verde all’interno dello scafo, era collocato un albero detto fareri, alto circa mt. 3,50, alla cui sommità prendeva posto, opportunamente puntellando i piedi su apposite tacche rotonde (ruteddi) presenti a vari livelli, un avvistatore (u farirotu) il cui compito era quello di avvistare, seguendo le indicazioni che gli provenivano dall’avvistatore posto sulla più alta antenna della feluca (u ’ntinneri), e poi seguire il pescespada nelle sue veloci circonvoluzioni suggerendo con sincopate indicazioni (va jusu, va susu, va ’riterrà, va fora, tuttu paru cammòra, firìila tunnu etc.) rivolte ai rematori la direzione da imprimere al luntru, al fine di rendere possibile il lavoro del lanzaturi, il lanciatore collocato in piedi sull’estremità anteriore della poppa con il compito di scagliare, una volta che il pesce fosse venuto a tiro, una delle due lance con asta di legno e punta di ferro (traffinera o ferru) che egli aveva a disposizione, opportunamente poggiate sui loro supporti verticali (maschitti).
La pesca del pescespada aveva luogo da aprile a giugno lungo la costa calabra e nei mesi di luglio e agosto lungo il litorale messinese, in concomitanza con la fase di riproduzione sessuale dei branchi di pesce spada e la deposizione delle uova nelle acque dello Stretto lungo un percorso discendente che va da Palmi a Cannitello e poi, ascendente, risale da Messina a Capo Peloro. Accordi tradizionalmente codificati assegnavano ai vari equipaggi le postazioni (i posti), tratti di mare entro i quali potevano operare le grosse imbarcazioni (le cosiddette feluche, filùi) lunghe mt. 11,44, larghe mt. 4 e alte mt. 1,50, munite di un’antenna di vedetta, costruita in legno di abete e alta 22 mt., il cui compito era quello di avvistare il pesce per poi lasciare il posto al più agile luntru che si incaricava della “caccia” vera e propria.
Da una Monografia sulla pesca del pesce spada nel canale di Messina redatta in occasione dell’Esposizione Mondiale della Pesca tenutasi a Berlino nel 1880 e riedita nel 1985 a cura della Camera di Commercio di Messina e su iniziativa dello studioso Rocco Sisci, si apprende che in Sicilia, nelle stazioni (posti) con due feluche e quattro battelli (luntri) la divisione del pescato avveniva nella misura di venti parti per ogni feluca e due battelli, secondo le seguenti percentuali: due parti per l’armatore della feluca, una per la barca del lanciatore, una e mezza per il lanciatore, una per la vedetta (o foriere del luntro), tre per le due vedette che si danno il cambio sulla feluca, sei per i cinque rematori del luntru, quattro per i quattro rematori del secondo battello, una per il fabbro (il ferrajo che fornisce i ferri), mezza per la Chiesa.
A partire dalla seconda metà del XX secolo si assistette alla progressiva dismissione di tali tradizionali imbarcazioni; così il glorioso luntru venne dapprima trasformandosi in un’imbarcazione a quattro vogatori tutti rivolti verso il senso di marcia per poi cadere definitivamente in disuso, mentre la feluca, in origine imbarcazione d’avvistamento (il cui compito era quindi quello di stazionare, ormeggiata lungo la riva ovvero verso l’esterno, in una determinata posta) venne trasformandosi nelle moderne “feluche a motore”, dette anche passerelle per la lunghissima passerella (35-40 mt.) che fuoriesce dalla prua, grandi imbarcazioni a motore lunghe più di 20 metri e munite di altissimi tralicci (circa 30-35 mt.) a mo’ di antenne di avvistamento, o venne addirittura sostituita da sistemi di pesca basati sull’utilizzo di reti e palangresi indubbiamente molto più efficaci e redditizi ma incomparabilmente più poveri e del tutto privi della dimensione agonistica e in un certo senso di sfida paritetica che ha da sempre contrassegnato il rapporto tra uomo cacciatore e animale cacciato presso le culture tradizionali. Non a caso per il tipo di pesca effettuata con l’arpione come quello qui esaminato gli studiosi utilizzano assai spesso la denominazione di “caccia”. Da tale caratteristica deriva alla pesca al pesce spada una serie di caratteristiche di rilevante valenza antropologica, riscontrabili pressoché costantemente in tutte le comunità alieutiche del Mediterraneo: pari condizioni di partenza tra cacciatore e animale cacciato, andamento rituale delle operazioni di caccia, intimo legame (di tipo, si direbbe, totemico) con il pesce, fonte di sostentamento alimentare per la comunità e al contempo – se preda abbondante – indicatore di status, in definitiva animale mitico, mitizzato ovvero sottoposto a pratiche di conferimento di senso, a interventi di plasmazione e valorizzazione simbolica, etc.
Questo tipo di caccia, proprio per le sue caratteristiche di spettacolarità, ha suscitato l’interesse di storici documentaristi, tra i quali in questa sede occorre citare almeno Francesco Alliata di Villafranca (Tra Scilla e Cariddi, girato nello stretto di Messina nel 1948) e Vittorio De Seta (Lu tempu di li pisci spata, anche questo girato nello stretto, del 1954). Ciò che caratterizza entrambi i documentari è l’assenza di qualunque tentazione oleografica e viceversa uno sguardo lucido e disincantato su un universo contrassegnato da durissimi regimi esistenziali e tuttavia fiero dei proprî codici comportamentali e dei proprî modelli di cultura. Basti, ad esempio nel filmato della Panaria Film, esaminare la concitazione dell’avvistatore (farirotu) che prendeva posto, opportunamente puntellando i piedi sulle apposite tacche rotonde presenti a vari livelli, alla sommità dell’albero detto fareri, e una volta scorta la preda, seguiva poi il pescespada nelle sue veloci circonvoluzioni suggerendo con sincopate indicazioni rivolte ai rematori la direzione da imprimere al luntru, al fine di rendere possibile il lavoro del lanzaturi, il lanciatore collocato in piedi sull’estremità anteriore della poppa con il compito di scagliare sul pesce che fosse venuto a tiro una delle due traffinere a sua disposizione. Gli ordini ai rematori, impartiti con passionale concitazione, erano fatti un tempo di parole smozzicate dall’oscuro etimo (manosso, verso fuori; manano, a mano destra: mancato, a mano sinistra; stinghela, verso terra), che tuttavia tradivano la propria derivazione ellenica.
Athanasius Kircher, immaginifico poligrafo secentesco, che ebbe modo di osservare direttamente le fasi della caccia al pesce spada durante il suo soggiorno a Messina, ne lasciò una dotta descrizione nel IX libro della sua Musurgia Universalis, sive Ars Magna consoni et dissoni, in X libros, pubblicato a Roma nel 1650 per i tipi di Ludovico Grignani.
Nella Digressio de captura piscis Psyphiae (vulgo pesce Spada) que in freto Mamertino statis anni temporibus perficitur, & utrum Musica vim aliquam in animalia obtineat, Kircher riporta quelle arcaiche indicazioni:
Mamassu di paianu
Pallettu di paianu
Maiassu stignela
Pallettu di paenu palè
La stagnela
Mancata stignela
Pro nastu vardu pressu da visu, & da terra.
Al momento della cattura del pesce era costumanza ringraziare Sammàrcu binidittu. Una volta issato l’animale sulla barca e dopo aver assistito alla sua movimentata agonia, era tradizione che si passasse a ritualità di tipo magico-profilattico ancora più antiche. ’A cardata d’a cruci consiste in una serie di graffi impressi con le unghie in senso orizzontale e verticale, a formare una croce.
Nel 2010 la Pesca del Pesce Spada nello Stretto di Messina è stata iscritta nel Libro dei Saperi del R.E.I. (Registro Eredità Immateriali) della Regione Siciliana…
Basterebbe tale sintetica descrizione di un’attività che è stata praticata in tutto il Mediterraneo ma che proprio nello Stretto di Messina ha assunto caratteri peculiari a mostrare come Messina, Reggio e il loro Stretto si siano da sempre costituiti quale luogo dei miti e dei fatti storici, delle emergenze materiali e di quelle immateriali, delle realtà naturali e di quelle antropologiche, storiche, culturali.
Conclusioni
Oggi la comunità messinese è indotta a considerare lo Stretto unicamente in termini di luogo fonte di profitto (quando non addirittura di sterile e fallace fiore all’occhiello politico). La città vive, declina la propria identità, articola i suoi ritmi, le sue dinamiche sociali ed economiche etsi fretus non daretur… Oggi, a causa di un prometeico ma illusorio progetto, di una falsa narrazione su future magnifiche sorti e progressive, ogni sforzo di tutela di un paesaggio storico oltremodo carico di memorie rischia di diventare solo oggetto di narrazioni distopiche. Ma la distopia, a ben riflettere, altro non è che l’esito di un sogno utopico non realizzato. Risulta dunque necessaria la mobilitazione di un’intera società civile consapevole che valga a scongiurare una ferita ai luoghi e alle persone che li abitano destinata a mai rimarginarsi.
Con tale auspicio inauguro i contributi che seguono, che costituiscono – a me pare – una sorta di mappa intellettuale e sentimentale rivolta a comunità da sempre assuefatte a venir fuori, in qualche modo, dai disastri naturali (terremoti) e umani (guerre, politici locali) guardando in avanti verso quello straordinario orizzonte, il mare dello Stretto, che alcuni ilari governanti vorrebbero deturpare per sempre con un progetto irresponsabile.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Qui il video: https://www.youtube.com/watch?v=4lN7IcZ4ZBw
[2] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lo-stretto-di-messina-come-bene-immateriale/
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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