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Un piede di qua, uno di là. In mezzo l’umanità

B. Fremantie, Viaggio alle Due Sicilie, 1817-1820 (collezione privata)

Betsey Fremantie, Viaggio alle Due Sicilie, 1817-1820 (collezione privata)

di Giuseppe Restifo 

Il longobardo Autari riconobbe lo Stretto come simbolo di limite; toccando con la punta della lancia la colonna che sorgeva dal mare sotto costa, la definì come confine dei domini del suo popolo. Ma Autari non era “missinisi” e manco reggino; era uno dei tanti “barbari” che si sono affacciati sullo Stretto e lo hanno percepito, sbagliando, come un limite.

“Missinisi” e reggini, nella loro storia millenaria, mai hanno coltivato l’idea di un “Ponte” che unisse le due sponde; a unire c’era il mare, il grande porto di Messina, i tanti piccoli approdi calabresi e siciliani. Questi elementi – quelli dello stretto di mare – hanno avuto centralità nelle vicende che ne hanno segnato la fama nel mondo: una storia così antica da essere narrata anche dalla letteratura e tale da essere protagonista di suggestivi miti letterari, che hanno accompagnato la descrizione delle bellezze e delle storie legate allo Stretto.

La particolarità del “distacco fisico” tra la Sicilia e la Calabria, tra la Sicilia e il Continente, ha scandito i tempi attraverso precise fasi storiche. Solo un occhio (o un interesse) esterno si è posto il problema di “colmare” la distanza fra le due sponde con un “attraversamento stabile”, che ha preso forma di proposte, di progetti e soluzioni alternative, in ogni caso sempre calate dall’alto sul territorio.

Ricostruzione attraversamento dello stretto in età romana

Ricostruzione attraversamento dello stretto in età romana

Non è assolutamente vero quanto sostenuto da Pietro Ciucci: «Tutti coloro che si sono trovati, nel corso della storia, tra Scilla e Cariddi, luogo di miti e leggende, hanno immaginato e sognato un ponte che unisse le due rive dello Stretto» (Ciucci, 2005: X). Tra Scilla e Cariddi si ritrovò un giorno pure Lucio Cecilio Metello, console nel 250 a. C. Metello non era “missinisi”, era romano, e aveva il problema di far attraversare lo Stretto a 104 elefanti, catturati a Palermo nella battaglia contro Asdrubale, per portarli dalla Sicilia al Continente. Così nacque il leggendario ponte di botti, il primo sullo Stretto, ma definitivamente provvisorio. Non vogliamo dare idee a chi si batte per l’“attraversamento stabile”. Possiamo narrare con lo storico Strabone che Lucio Cecilio Metello «radunate a Messina un gran numero di botti vuote le ha fatte disporre in linea sul mare legate a due a due in maniera che non potessero toccarsi o urtarsi. Sulle botti formò un passaggio di tavole coperte da terra e da altre materie e fissò parapetti di legno ai lati affinché gli elefanti non avessero a cascare in mare» (Angelini, 2011: 36).

30202630728Tanto lavoro dunque per le maestranze “missinisi”, ma precario e provvisorio, non a tempo indeterminato. A Lucio Cecilio Metello, d’altronde, dello sviluppo dell’Area dello Stretto non importava niente; gli importava far arrivare gli elefanti a Roma, per celebrare il suo trionfo. E comunque dopo un po’ il suo ponte di botti sparì, inghiottito da Cariddi, per la mancata manutenzione (cui evidentemente i “missinisi” non erano interessati) e soprattutto perché impediva il passaggio delle navi. Quindi Storia romana batte Ponte sullo Stretto uno a zero, e palla al centro, senza bisogno di VAR.

Per inciso, questo discorso sulla storia serve pure a smentire quanti assimilano gli storici a dei simpatici eruditi, con le loro filologiche manie di lettura delle fonti, tutti proiettati nel passato e per giunta incapaci di vedere le “magnifiche e progressive sorti” dell’oggi. «Comprendere non ha nulla di passivo», diceva Marc Bloch (1998: 108): chi studia la storia opera scelte e distinzioni, ovvero analizza la realtà che si propone di indagare. Così si affronta l’indispensabile e fruttuosa ginnastica dello studio del passato, poiché esso soltanto ci permette di misurare fino in fondo gli esiti contemporanei delle vicende che ci hanno preceduto (Bloch, 2014: 57). «Lo storico deve liberamente lavorare alla frontiera, sul confine, un piede di qua, uno di là. Lavorare utilmente». Egli appare per certi versi allora come un “lavoratore socialmente utile”, in quanto si potrebbe definire, con Lucien Febvre (1976: 174), la funzione sociale della storia come l’organizzazione del passato in funzione del presente. Infatti è impossibile comprendere il tempo in cui viviamo senza conoscere quanto l’ha preceduto; nessun dubbio sussiste sul fatto che il presente sia inintelligibile senza un certo studio del passato.

Nella storia di lunga durata delle rive dello Stretto si collocano anche momenti ed episodi in cui è possibile leggere pure nel “profondo”. Una lapide esisteva in Messina ed era commemorativa dei giovani di Messana, annegati nello Stretto, quando si recavano ad una festa in Reggio. Essa si riferiva al seguente passo di Pausania: 

«Solennizzavasi con molta pompa nello anno 428 a. C. una festa in Reggio ed i Messani inviarono 35 figliuoli col loro maestro ed il suonatore di piffero; ma nel tragitto del canale miseramente annegarono. I Messani piansero la morte dei fanciulli, e, per memoria, fecero i parenti a ciascuno dei giovani erigere in Olimpia, nel bosco Sacro a Giove, una statua di bronzo da Gallone, celebre scultore, e dopo un certo tempo anche relative iscrizioni ed elogi in versi furono fatti dal poeta Ippia. In Messana per eternare la memoria si faceva scolpire una iscrizione» (Miraglia, 1904: 62). 

9788868262440_0_536_0_75L’episodio dei trentasette malcapitati del coro messinese annegati, che tanta memoria ha lasciato, dimostra come l’evento luttuoso fosse considerato un incidente, non un ostacolo per il “dominio” dello Stretto.

Nel 2019 d. C. è stata scoperta una lapide nel piazzale antistante la Stazione marittima di Messina: ricorda le quattro vittime dell’incidente del “Segesta Jet”, speronato dalla nave portacontainer “Susanne Borchard” la sera del 15 gennaio 2007. L’aliscafo delle Ferrovie dello Stato stava rientrando nel porto “storico” messinese da Reggio Calabria con oltre 150 passeggeri a bordo. Alle 17.54 la collisione con la nave che attraversava lo Stretto. Lo schianto provoca la morte dei quattro membri dell’equipaggio Sebastiano Mafodda, Marcello Sposito, Domenico Zona e Palmiro Lauro. Una lapide adesso li ricorda.

Lo Stretto è un canale di mare e il mare è generoso e rapace, come sanno tutte le genti che stanno da millenni sulle rive del Mediterraneo. Lo Stretto può essere anche un confine, ma un confine sui generis discriminante solo dal punto di vista politico-istituzionale, a seconda delle varie fasi storiche.

Ne è prova una lettera che da Reggio Calabria, impossibilitato ad andare dall’altra parte, in Sicilia, lo scrittore francese Paul-Louis Courier, facente parte dell’armata napoleonica, inviò in patria nella primavera del 1806: 

«Noi vediamo come dalle Tuileries voi vedete il Faubourg Saint-Germain; il canale non è più largo; e tuttavia abbiamo difficoltà ad attraversarlo. Lo credereste? Se soltanto mancasse il vento, noi faremmo come Agamennone: sacrificheremmo una fanciulla. Grazie a Dio, ne abbiamo in abbondanza. Ma non abbiamo una sola barca, ecco il guaio. Ci dicono che arriveranno; e fino a quando avrò questa speranza, credetemi, signora, che non volgerò lo sguardo indietro, verso i luoghi dove voi abitate, anche se tanto mi piacciono. Voglio vedere la patria di Proserpina, e sapere perché il diavolo ha preso moglie proprio in quel paese» (Collura, 2020: 213). 

colluraReggio nell’età napoleonica è proprio su un confine politico e militare: dall’altro lato c’erano i nemici, borbonici e inglesi. Ma forse all’occhio dello scrittore francese sfuggiva, poco più a Nord, a Catona, a Villa, a Cannitello, l’intenso traffico di barche di contrabbando, che rendeva il confine di fatto sempre più inesistente. Proprio quell’intenso traffico di barche, sul bordo della legalità, fa sì che la peste di Messina, nell’estate del 1743, si trasferisca sulla sponda calabrese. Messina era circondata da un cordone sanitario e stava morendo di fame; i barcaioli di Cannitello e di Villa S. Giovanni, di sotterfugio, traversavano lo Stretto con vettovaglie varie. Al ritorno sbarcarono insieme alla Pasteurella pestis, invisibile ai loro occhi, ma gravida di pestilenziali conseguenze per tutta la Calabria meridionale, Reggio compresa.

Altro limes sullo Stretto, ma sempre di carattere istituzionale, fu costituito in età moderna da due modelli inquisitoriali diversi, uno per il regno di Napoli e uno per il regno di Sicilia. L’Inquisizione tuttavia non riuscì a impedire alla Madonna della Lettera di essere “missinisi” e “palmitana”. La vicenda dello scambio del culto mariano fra Messina e Palmi è espressa saldamente nelle storiche macchine festive della Vara peloritana e della Varia appunto di Palmi.

Lo Stretto è dunque tutt’insieme un crocevia, ma anche un nucleo culturale. Il passaggio funziona soltanto se sul posto c’è una dinamica locale. Le città ci sono perché, senza le città, lo Stretto sarebbe un deserto culturale. E deserto culturale Messina e Reggio non lo sono state mai, fin dall’inizio della presenza dei Greci con la loro peculiare tendenza a sacralizzare lo spazio degli uomini. Né deserto culturale avrebbe potuto esserci in un’area sempre disponibile ad accogliere elementi delle civiltà occidentale e orientale, settentrionale e meridionale, come dimostra non soltanto la vicenda dei culti.

Porta della Sicilia, Porta verso il Levante, Porta dell’Oriente e del Ponente: il termine “porta”, usato spesso per definire Messina, riflette certamente una condizione durata secoli. Percorriamo allora i mille anni tra il periodo arabo e il 2000, quando ancora leggiamo di Messina “porta della Sicilia”, per trarne elementi di una storia di lunga durata. Questo tipo di approccio è consentito dall’essere ancora in vita l’oggetto storico studiato: la città marittima di Messina. Naturalmente, giocare sulla lunga durata ha un suo fascino, una sua forma di seduzione; tuttavia, al di là delle permanenze, occorre ricollocare le congiunture, che non è fenomeno si possa tralasciare. Si rischierebbe altrimenti di trovarsi spiazzati di fronte a certe “novità”, che emergono “improvvise” in alcuni passaggi.

Se Messina è “porta” allora è una “città d’accesso”, soglia d’ingresso di un insieme regionale e allo stesso tempo soglia girevole e transito verso le più generali strutture urbane impiantate in Europa e nel Mediterraneo a partire dall’età medievale. Per città d’accesso della Sicilia si intendono quei porti marittimi della grande isola, il cui traffico scavalca la soglia del piccolo cabotaggio per entrare nei circuiti commerciali di lunga distanza. Ogni giorno, per almeno nove dei dieci secoli considerati, negli scali siciliani si può osservare un fitto andirivieni di piccole imbarcazioni, che con il loro via vai coprono il periplo dell’isola, prendendo e portando di porto in porto mercanzie di produzione per lo più locale. Le merci, destinate in massima parte al consumo interno e quotidiano, preferiscono le vie del mare a quelle di terra, per la maggiore difficoltà di percorrenza opposta da queste, se non addirittura per la loro impraticabilità in alcune stagioni dell’anno.

hoembergerAl contrario, la circolazione dei generi di lusso aveva origine in un “altrove” che non erano la Sicilia e le aree prossime. Gli scambi con le terre lontane, che fin dall’antichità avevano riguardato le merci preziose, anche nel passaggio dalla presenza araba alla conquista normanna si confermano di competenza di alcune città portuali della regione. Queste città, pochissime per la verità, svolgevano la funzione di porta d’accesso per tracciati commerciali remoti, ma erano anche nodi di una rete pressoché senza vincoli diretti: il mare è aperto e su di esso si possono tracciare rotte a proprio arbitrio, non condizionate se non dall’interesse allo scambio e dalla rete di relazioni che si riesce a stendere da un porto verso altri porti, anche lontani, anche di lingue molto diverse.

Questi centri urbani non sono dissimili da tutti quegli altri centri del Mediterraneo che formavano, secondo Hohenberg e Lees, un Sistema Reticolare (Hohenberg-Lees, 1992: 60). Il Sistema, dotato di proprietà affatto diverse, è di completamento al Sistema dei Luoghi Centrali: invece che una gerarchia ricorsiva di centri analoghi, distinti essenzialmente dal numero e dalla rarità dei servizi offerti, presenta un ordinamento di città e di insediamenti urbani funzionalmente complementari. La proprietà fondamentale di una città, dal punto di vista del sistema reticolare, non è quella di essere un centro, ma un nodo.

La città di Messina faceva parte di un sistema regionale, collegato alla più ampia rete mediterranea. Considerando la longue durée, il sistema portuale dello Stretto assume assetti diversi, a seconda dei cicli economici del mare su cui si affaccia, e presenta a sua volta una gerarchia interna in cui risalta il ruolo di Messina. Sebbene la città dello Stretto, per gran parte del periodo considerato, sia in competizione con Palermo per il titolo di capitale del Regno di Sicilia, in termini di apertura ai commerci a lunga distanza ha un’indubbia prevalenza. Ma poiché le città reticolari stabiliscono facilmente un controllo remoto, l’influenza di una città come questa ha poco a che vedere con l’esercizio di un governo formale sul territorio. Messina, per certi versi, può essere definita la “piccola” capitale dello Stretto, una ristretta zona di terra dove esercitare il proprio dominio. La città è a capo di una mini-gerarchia territoriale, che vede al secondo posto Reggio Calabria e poi, via via, cittadine, piccoli centri marittimi, da cui partono numerose rotte marittime fino al porto falcato dello Stretto; e poi, ancora ed infine, i minuscoli borghi sparsi nelle campagne di questa contrada.

Dallo stesso distretto la città estrae prodotti specializzati, non solo per il suo consumo interno, ma anche per l’esportazione. In questa un peso notevole ha il vino; gli interessi dei patrizi messinesi nella produzione e nel commercio del vino, che si spinge fino ad Acri, sono documentati nel Duecento. Ma agli inizi di questa storia si segnala anche il porco salato; l’allevamento dei suini era stato facilitato dal fatto che l’area nord-orientale della Sicilia si era mantenuta legata alla sua tradizione greca (Abulafia, 1991: 31). Non si trattava solo di una consuetudine bizantina di rapporto con i manoscritti, ma anche con i maiali. Il vero “dominio” della città dello Stretto si svolge nel Mediterraneo.

abulafiaLe caratteristiche spaziali di quest’area – percorsi commerciali, nodi, punti di accesso, avamposti – sono in gran parte invisibili su una mappa convenzionale. Poiché le città mediterranee del sistema reticolare sono nodi interconnessi di una rete, spesso senza né origine né destinazione finale, sono in qualche modo intercambiabili, come le rotte stesse. Infatti, sebbene la storia sia vecchia di secoli, va seguita nella sua alternanza di cicli alti e bassi e di tendenze economiche.

Già dal Mille le correnti d’acqua marina che passano innanzi alla città dello Stretto prefigurano un inserimento di Messina nel sistema reticolare mediterraneo. La città, giudicata come praticamente inesistente sotto la potestà musulmana, cresce enormemente dopo la conquista normanna e con l’apertura della via commerciale che lega Pisa e Genova con il Levante. La conquista di Messina da parte dei Normanni, nel 1061, non muta soltanto il carattere della guerra fino a quel momento condotta nel Sud dell’Italia: la capacità di mobilitazione navale sul piano bellico deve appoggiarsi su un cantiere, su un comodo rifornimento di legno, su un modello arabo di arsenale, sull’istituzione di una marinaria, sopra le comunità immigrate lombarde.

L’armamentario militare attrezza un equipaggiamento portuale e su questo può prendere slancio l’economia nella sua proiezione sul mare. Gli armatori delle Repubbliche marittime italiane trovano un senso nel guardare allo Stretto di Messina, nel tirare la linea delle loro rotte verso le città costiere maghrebine e verso il Levante (Bresc, 2002: 105-106). «È un caso di particolare interesse, perché Messina fu in un certo senso rifondata dagli italiani colonizzatori – da immigranti amalfitani, pisani, genovesi, lucchesi e così via, che trasformarono una città di carattere greco in un centro attivo di commercio latino» (Abulafia, 1991: 22).

Il geografo arabo di origine andalusa Al-Idrisi, giunto in Sicilia verso il 1139, parlando di Messina ne decantò il “movimento”: 

 «Messina è da comprendere tra i paesi più illustri e prosperi anche per il continuo andirivieni di viaggiatori. Essa ospita un arsenale, quindi è qui che ormeggiano e da qui salpano le imbarcazioni provenienti da tutti i paesi costieri dei Rum. A Messina dove si raccolgono le grandi navi, nonché i viaggiatori e i mercanti dei più svariati paesi latini e musulmani, i mercati sono fiorenti, le mercanzie hanno smercio e numerosi affluiscono gli avventori» (al-Idrisi, 1994: 41). 

Secondo Abulafia, Messina fu un ‘fenomeno’ normanno e un ‘fenomeno’ legato alle crociate. Questa tesi è contrastata da Epstein, il quale tende a mettere in rilievo la crescita della città piuttosto in relazione al controllo dei traffici sullo Stretto (Epstein, 1992: 243-245). Il nostro quesito riguarda tuttavia il ruolo della città-porto come nodo del sistema reticolare mediterraneo, relativamente poco importando poi di quale “nazionalità” siano i mercanti che si volgono al traffico internazionale. Interessa verificare il luogo fisico come punto del concatenamento a trama, che costituisce il reticolo mediterraneo. Al momento della conquista normanna, questo luogo si presenta, per certi versi, come “vuoto”. Effettivamente a Messina i trafficanti non cristiani sono poco numerosi.

Fra l’XI e il XII secolo il suo prestigio andrà crescendo (Abulafia, 1991: 90). Nel 1197, anno cruciale per Messina, l’imperatore Enrico VI concesse alla città un privilegio importante, il Porto Franco. Tale disposizione, vera e propria garanzia per i traffici dello scalo, conteneva molteplici immunità. In particolare, essa concedeva al porto la libera importazione ed esportazione di merci di qualsiasi genere, senza obbligo di dazio. Due sistemi imperiali lottano per la supremazia nel Mediterraneo tra il 1453 e il 1571; entrambi vogliono dirigere il flusso di beni economici all’interno delle loro due reti separate attraverso l’uso dei monopoli combinato con l’uso della forza. Ma il sistema a rete che copre l’intero bacino sembra resistere, scavalcando i confini politici specifici dell’Impero spagnolo e dell’Impero ottomano, anche se oltre questi confini vigilano burocrazie attente e forze armate sempre pronte all’azione. A metà del Cinquecento i commerci tra il Mediterraneo occidentale e il Levante riacquistano la loro importanza: la tela si ritesserà e Messina sarà “intessuta”.

de-landaDue direzioni, secondo Maurice Aymard (1991: 147), intersecano lo straordinario porto dello Stretto: la rotta tra l’Adriatico e il Tirreno, in particolare tra la Puglia maggior produttrice di grano e di olio e Napoli gran divoratrice, e le linee di comunicazione tra l’Oriente e l’Ovest del Mediterraneo. Esiste anche una rete pecuniaria nel Mediterraneo: oro e argento entrano in questo mare venendo da lontano e ne escono per andarsene lontano. Ci sono nodi di accumulo e legature di passaggio: Messina sembra appartenere a questa seconda categoria. Le galere genovesi in agosto di ogni anno si recano a Messina, portando casse di “reales” per l’acquisto della seta, merce pregiata che scorre nei canali della rete mercantile a lunga percorrenza e privilegio di alcune città portuali del sistema mediterraneo. 

La città-porto dello Stretto da lungo tempo è porta d’accesso del sistema reticolare mediterraneo e la presenza di mercanti stranieri costituisce un fattore stabilizzante dal punto di vista storico. Il governo comunale di Messina non adotta politiche particolari nei confronti dei mercanti stranieri, essendo una sorta di via di mezzo tra il modello livornese e quello genovese. Lo straniero è “relativamente straniero” sulla sponda dello Stretto: alcuni gruppi – ad esempio quelli pisani o genovesi – sono presenti a Messina fin dal periodo normanno, altri hanno presenze più recenti, ma si integrano abbastanza facilmente. Questi agenti economici favoriscono anche l’ingresso e la diffusione di materiali eterogenei nel contesto urbano, aumentandone la variabilità e la ricchezza. Tale arricchimento si può misurare anche sul piano del “pool” genetico urbano. Le città di Reggio e Messina, come d’altronde tutte le città d’antico regime, dipendevano dalle aree rurali e/o dalle aree esterne per l’afflusso di geni come lo erano per l’afflusso di cibo. Materiali dei pool genetici rurali o di quelli stranieri, ovviamente, non si mescolavano liberamente con quelli del patrimonio genetico della città (vale a dire, i geni dei cittadini legittimi della città, quelli che possono trasmettere i propri diritti, privilegi e doveri alla propria progenie). Piuttosto, i due “pool” coesistevano e si scambiavano piccoli flussi di geni. Ad esempio, un modo tipico per ottenere la cittadinanza era quello di sposare la figlia di un cittadino (quindi iniettando geni esterni); e, d’altro canto, naturalmente, i geni dei cittadini si potevano insinuare “illegittimamente” nel bacino migrante della popolazione (De Landa, 2000: 126-127). 

Una città come Messina può fungere da porta d’ingresso di culture straniere, favorendo l’inserimento e la diffusione di materiali eterogenei che aumentano la sua diversità e quella delle città a Stretto contatto con essa. L’ingresso a Messina di materiali eterogenei è particolarmente marcato in campo artistico e architettonico: nel corso del Cinquecento la città dello Stretto è pronta ad accogliere rappresentanti soprattutto della scuola toscana, impiegando le loro competenze per i monumenti e le fortificazioni.

31yam0yijil-_sr600315_piwhitestripbottomleft035_sclzzzzzzz_fmpng_bg255255255Le città d’accesso, d’altro canto, hanno contribuito a diffondere forme ed elementi eterogenei provenienti da culture “altre”. Più tardi, le città del sistema reticolare diffonderanno le idee dell’umanesimo, dell’illuminismo e del pensiero radicale, dando rifugio ai pensatori perseguitati e alla pubblicazione di libri proibiti. La circolazione ed elaborazione di “materiali culturali” attraverso questi sistemi di città sono importanti nel lungo periodo quanto la mentalità degli abitanti delle città stesse. Questi ultimi sono, ovviamente, un elemento attivo nel mix, nella misura in cui le strutture psicologiche, una volta nate, influenzano le dinamiche del processo decisionale e quindi i flussi di energia e denaro, conoscenza e idee. Ma ciò che è fondamentale sottolineare qui è che l’intero processo non emana da qualche “essenza” ospitata nella testa delle persone, ma piuttosto dai frutti dell’esperienza storica.

Non ci sono solo commerci nella rete mediterranea del Cinquecento: nei primi settant’anni del secolo c’è anche il grande conflitto tra i due imperi che condividono il Mediterraneo e si contendono la supremazia. In questo contesto, viene maggiormente esaltata la posizione di frontiera militare dello Stretto: sotto le reti marziali e sotto le reti commerciali ci sono le trame spionistiche, che a Messina hanno un punto dove raccogliere informazioni, vere o false che siano, per poi muovere in ogni direzione, verso chiunque fosse interessato a questa azione di “intelligence”.

“Bene” prezioso sono anche gli schiavi: pure in questo caso particolare si può ben parlare di una rete mediterranea, alla quale Messina è propriamente intrecciata. Sul Mediterraneo si estendono rotte e commerci, ma manca una mappa delle correnti della schiavitù, così come dell’ambra e delle spezie, delle sete e dei profumi, del grano e del sale. In quella mappa andrebbero individuati meglio i mercati degli schiavi, e Messina potrebbe candidarsi per una buona posizione in età moderna.

Quando si parla di sistema reticolare nel Mediterraneo è riduttivo pensare solo ai viaggi di beni di valore, agli scambi commerciali di “lungo corso”. La rete è più complessa, si muove, si agita, aggroviglia mercato e antimercato, guerra e pace, scambio economico e confronto militare. I mercanti messinesi, o per commissione o per conto proprio, mandano in Levante, a Smirne, Arta, drappi di seta, tabì (stoffa di seta pesante, simile al taffetà). La maggior spedizione, dicono tutti al lucchese Arnolfini presente a Messina nel 1768, è quella che si fa per il Levante, particolarmente per Arta e Smirne. Quest’ultimo porto a sua volta ha un “network” del suo commercio esterno che include i porti italiani di Livorno, Genova, Messina, Ancona, Trieste e Venezia, così come i maggiori porti dell’Europa occidentale come Londra, Marsiglia e Amsterdam (Driessen, 2005: 133).

Quindici anni dopo le “impressioni” del mercante lucchese, nel 1783 Messina viene colpita duramente dal terremoto, ma già l’anno successivo, il 1784, vede la promulgazione dell’Editto reale per lo ristabilimento, ed ampliazione de’ privilegi e del salvacondotto della Scala, e Porto-Franco della Città di Messina. Nel 1784 il momento sembrava favorevole per Messina e, in realtà, la creazione del porto franco ne poteva accentuare il ruolo intermediario tra l’economia meridionale e l’economia mediterranea in senso lato. Si cercava così di superare il livello di semplice porto “regionale” (Aymard, 1973: 503).

Così Messina si avvia alle grandi mutazioni del sistema reticolare mediterraneo, introdotte dall’età napoleonica, dalla navigazione a vapore, dall’affermarsi della costruzione economica ottocentesca. L’economia mondo capitalistica (“the Modern World-System”) si stava dimostrando capace di fare ciò che nessun’altra economia mondo era stata in grado di fare. Aveva cominciato a espandersi e a inglobare gli imperi mondo confinanti, esordendo nel quadrante mediterraneo con quello ottomano, in attesa di aprire varchi in quello russo e di procedere alla incorporazione di innumerevoli sistemi, fra cui possiamo annoverare il Mezzogiorno italiano con la sua città portuale di Messina (Wallerstein, 1985: 105).

Renato Guttuso, La leggenda di Colapesce, part.

Renato Guttuso, La leggenda di Colapesce, part.

La modernizzazione che s’affaccia sullo Stretto agli inizi del XX secolo non travolge i “cunti” che allo Stretto sono legati. Molto singolare e pieno di fascino è, ad esempio, il racconto di un pescatore calabrese, il famoso “zu Peppe”, che nel 1907 condusse sulla sua barca il reporter Carrère fino alla sponda siciliana intrattenendo gli astanti sul mitologico popolamento delle terre dello Stretto e sull’eterna lotta venutasi a stabilire tra i loro abitanti e la fata Morgana. Secondo “zu Peppe”, il “nostro paese” era un vero e proprio “paradiso terrestre”, privo di tempeste e disastri, tanto da essere popolato festosamente dagli dèi e dalle sirene, con gli uomini relegati a vivere “verso Tramontana”, verso l’Africa o in Arabia.

Allorché, però, i nostri antenati, “gente intrepida”, vennero a stabilirsi in queste zone si scatenò una guerra terribile: i giganti mangiarono gli uomini nelle caverne, le sirene li attirarono negli abissi e il dio Nettuno aprì «il mar davanti ai bastimenti, che sparivano tosto»; ma gli esseri umani lottarono con enorme coraggio accecando i giganti e invadendo i palazzi delle sirene, così da suscitare l’ammirazione di Nettuno che, una volta proclamato loro re, li aiutò a scacciare gli dei su un alto monte, fino a quando furono sospinti definitivamente all’inferno con i demoni dalla venuta di Gesù Cristo sulla terra. Allora le sirene, rimaste a vivere sul fondo del mare, si raccolsero agli ordini della più bella e cattiva divinità marina, la fata Morgana, costruendo un castello il più delle volte invisibile per magia e penetrando al centro della terra attraverso delle barche solo a loro note. Da lì continuarono a vendicarsi delle vittorie degli uomini «talor scotendo i flutti nelle tempeste terribili, talor se il possono, soffiando sul fuoco de l’Etna, o sollevando qualche piega del suol che sopporta le nostre case» (Noto, 2008: 161-162). 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Riferimenti bibliografici 
D. Abulafia, Le due Italie: relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i Comuni settentrionali, nota introduttiva di G. Galasso, Guida, Napoli 1991.
al-Idrisi, Il libro di Ruggero: il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, traduzione e note di U. Rizzitano, Flaccovio, Palermo 1994.
A. Angelini, Il mitico Ponte sullo Stretto di Messina. Da Lucio Cecilio Metello ai giorni nostri: la storia, la cultura, l’ambiente, Franco Angeli, Milano 2011.
M. Aymard, Messine au XVIIIe siècle, in “Annales E.S.C.”, 1973, vol. 28, n. 2.
M. Aymard, Palermo e Messina, in M. Ganci-R. Romano (a cura di), Governare il mondo. L’impero spagnolo dal XV al XIX secolo, Società siciliana per la storia patria, Palermo 1991.
M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998.
M. Bloch, Che cosa chiedere alla storia?, a cura di G. G. Merlo-F. Mores, Castelvecchi, Roma 2014.
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P. Ciucci, Premessa, in F. Ghedini-J. Bonetto-A. R. Ghiotto-F. Rinaldi (a cura di), Lo Stretto di Messina nell’antichità, Stretto di Messina, Roma 2005.
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H. Driessen, Mediterranean port cities: Cosmopolitanism reconsidered, in “History and Anthropology”, 2005, 16:1.
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L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino 1976.
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Giuseppe Restifo, ricercatore indipendente, dopo essere stato professore ordinario di Storia moderna presso l’Università di Messina, i suoi interessi guardano alla Storia del Mediterraneo, dal punto di vista della demografia storica, delle realtà sociali, delle vicende militari, degli aspetti ambientali. Fra gli altri volumi ha pubblicato I porti della peste. Epidemie mediterranee fra Sette e Ottocento (2005); La piaga delle locuste. Ambiente e società nel Mediterraneo d’età moderna (2014); Capizzi fra Tre e Seicento. In un mondo mediterraneo di tensioni (2022); e Taormina. Una storia… e non solo (2023).

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