Se c’è una cosa che non si impara, se non trovandosi a viverla sulla propria pelle, è la genitorialità. Ovvero, la manifestazione pubblica – la sottoposizione allo sguardo della comunità, o a quello degli specialisti del sociale (educatori, assistenti sociali, ecc.) – della propria conformità ad una serie di modelli, aspettative, posizioni sociali e ruoli, anche impliciti e contradditori tra loro, che dovrebbe informare il nostro agire di padri o madri; sia rispetto alle attese dei bambini e della famiglia (ristretta e/o allargata), sia, soprattutto, rispetto a quelle della società.
Il punto è che gli schemi, le disposizioni e le rappresentazioni cui dovremmo aderire per essere “buoni genitori” non sono né universali, né ugualmente accessibili per tutti/tutte. In questo senso, se come affermava Bourdieu «la jeunesse n’est qu’un mot», intendendo dire che parlare di condizione giovanile senza riferirsi alle condizioni di classe sociale, istruzione ecc., si configurava come un velo che copriva, invece di rivelare, le ragioni di tante manifestazioni di disagio, parlare di genitorialità tout-court, senza un riferimento chiaro alle condizioni sociali e culturali cui essa si riferisce, rischia di coprire i fattori che ne determinano la diseguaglianza e di favorire la riproduzione seriale dei cliché e degli stereotipi che informano la vasta letteratura (scientifica e non) sull’essere genitori.
In questo senso, il libro di Chiara Lanini Famiglie straniere e tutela dei minori. Un’analisi del discorso sulla genitorialità (Ombre Corte edizioni 2024) risulta essere uno strumento fondamentale per mettere a fuoco come funziona il dispositivo di tutela dell’infanzia e come questo, in particolare, guardi ai genitori stranieri.
Articolato in sei capitoli, più un capitolo conclusivo, questo testo consente al lettore di avvicinarsi gradualmente al tema, mettendolo in grado di ricostruire, passo dopo passo, il dibattito sociologico sull’immigrazione e sull’integrazione, nonché sul ruolo delle famiglie nel contesto migratorio (Capitolo Primo) e di ripercorrere la genesi normativa e istituzionale del sistema di tutela dei minori in Italia, sottolineandone il carattere “pedagogico” e la forte connotazione morale, o moralistica, che rendono la condizione marginale, non tanto uno squilibrio sociale, relativamente al quale lo Stato è chiamato a intervenire, quanto una carenza dell’individuo, che va pertanto educato o sanzionato (Capitolo Secondo). A seguire, nel Capitolo Terzo, l’autrice si sofferma sul concetto di genitorialità, che indaga da molteplici prospettive disciplinari, mostrando come l’essere genitori è, contemporaneamente, un fatto biologico, psicologico, genealogico, culturale, sociale. Ed è brava, Chiara Lanini, nel mostrare come dietro un termine apparentemente anodino, si celino politiche rivolte, più o meno esplicitamente, a dare forma a una precisa idea del ruolo di madre, o di padre, e come queste stesse politiche si raccordino a specifiche configurazioni sociali.
Poi, ci sono i tre capitoli che danno conto del lavoro di ricerca svolto dall’autrice che meritano una particolare attenzione, perché tutto l’impianto di ricerca muove da un presupposto foucaultiano che vale la pena di esplicitare. Dal punto di vista teorico, tutto il lavoro si fonda sulla considerazione che il potere si configura come una forza produttiva, più che repressiva, che agisce attraverso la sua capacità di ordinare. Ovvero, di impiegare un sistema di categorie che, pur essendo costruite socialmente, non vengono messe in discussione ma assunte come attributi naturali delle cose; dunque, in grado di strutturare il linguaggio, determinando specifici regimi di verità, dando forma al modo in cui le persone osservano, pensano sé stesse e interagiscono. In altre parole, le forme del discorso pubblico, costituiscono e trasformano l’assetto sociale.
A partire da questa impostazione, l’autrice mette in campo un dispositivo metodologico che integra una raccolta di racconti di vita, attraverso i quali analizza le esperienze di educatori ed educatrici impegnati nei servizi educativi del sistema di tutela dei minori del Comune di Genova, con lo studio della costruzione del discorso sulla genitorialità delle famiglie straniere, realizzato attraverso una selezione di fascicoli giudiziari relativi a provvedimenti di sospensione o limitazione della responsabilità genitoriale. Il testo è ricco di brani estratti dalle trascrizioni delle interviste e dai fascicoli giudiziari che hanno il grande merito di portarci dentro specifici “universi di senso”; nel mondo degli educatori, attraverso gli stereotipi e le convenzioni con le quali viene costruito retoricamente il profilo delle famiglie migranti necessarie di tutela, così come nella costruzione, controversa e ambigua, del procedimento giudiziario.
Ed è attraverso questo dispositivo narrativo che il testo permette di penetrare il meccanismo di produzione dello stigma che costruisce socialmente la figura dello straniero, in una danza di pregiudizi essenzializzanti che riguardano i ruoli di genere e la classe sociale. In questo senso, accade spesso che, come osserva l’autrice,
«sebbene il quadro riporti evidenti situazioni di svantaggio, anche esplicitamente riferite alla condizione migratoria, quando il discorso si focalizza sullo specifico ruolo genitoriale sembra che questi fattori non guadagnino la rilevanza di variabili, perlomeno incidenti. Le condizioni di vita, le storie migratorie, le strategie e i costi connessi al processo di adattamento sono assunti come dati descrittivi di un contesto dentro il quale insuccessi o difficoltà assumo il segno di tratti personali o familiari carenti. Si evidenzia l’aspettativa che le condizioni date, seppure riconosciute come ostacolanti, non compromettano la possibilità di soddisfare i bisogni dei figli garantendo loro un livello di conformità educativa e di cura accettabili».
In altre parole, nella visione degli operatori intervistati l’elemento di rischio, che ha che fare con le storie e con i percorsi migratori delle persone, cessa di essere un indicatore legato al contesto sociale, per essere ricondotto alla sfera biografica, ovvero essere ridotto a una sorta variabile proxy di una condizione di disagio sociale “incarnata” e, in qualche modo, predittiva. Come se il fatto di essere nati in un altro Paese del Global South, fosse, di per sé, un indicatore della mancanza di modelli, o di riferimenti, educativi o familiari adeguati.
In questa dinamica, inoltre, si rivela la dimensione performativa della genitorialità che deve essere messa in atto, e messa in scena, attraverso una serie di atti e di competenze adeguate. E sulla quale si valuta l’adeguatezza, o l’inadeguatezza di madri, padri o famiglie straniere. In questo modo, tuttavia, ogni singola scelta, piccola o grande che sia – dall’acquisto di un capo di abbigliamento o di un telefono, alla scelta di lavorare/non lavorare o, addirittura, alla stessa scelta di migrare – può essere portato come evidenza di una manifesta incapacità di intercettare le esigenze della genitorialità attesa. Ed è nelle more di questo processo che prende forma l’inferiorizzazione morale dello straniero; un processo graduale che si intreccia, anche se Lanini non lo afferma apertamente, con una progressiva razzializzazione del soggetto genitoriale.
In questo modo, uno sguardo sulla genitorialità e sui bisogni affettivi fortemente situato nel contesto occidentale (dove occidentale significa europeo, bianco, cristiano, borghese, ecc.) «può entrare in conflitto con altri modi di pensare l’infanzia e le funzioni parentali» e far emergere una pluralità di opposizioni tra genitori “buoni” e no, ma soprattutto tra sistemi di attese differenti. Lanini, fa spesso riferimento al modello dell’intensive parenting che, in continuità con la prospettiva neoliberale accentua la responsabilità individuale nella gestione dei rischi per sé e per i soggetti dipendenti (figli) e soprattutto mette in evidenza che tale modello non può essere considerato alla stregua di un “universale culturale”. Sotto lo sguardo delle istituzioni, i modelli educativi entrano dunque in uno spazio di attrito e, conseguentemente, vengono reificati e “misurati” in termini di maggiore o minore conformità ad un set di attese tanto cogente, quanto poco definito.
Sono ragazzi adultizzati, le famiglie si aspettano che lavorino presto e contribuiscano all’economia familiare. In alcuni paesi le persone a 16 anni sono già formate. Per noi, non è coì. Quello che loro si aspettano dai figli non è quello che si aspetta lo Stato italiano. Ci sono dei gap molto gravi” (F., educatrice domiciliare – 49 anni). “Il bambino deve fare la parte del bambino e non deve essere sovraesposto a responsabilità che non sono le sue” (L. educatrice di comunità – 36 anni).
Di considerazioni come queste, chiunque abbia fatto ricerca o lavorato in ambito socioeducativo ne ha sentite molte. Ed è indubbio, che nei giudizi su modelli educativi delle famiglie straniere permangano gli echi di un senso di superiorità legato al privilegio bianco in ragione del quale «le famiglie migrate sono rappresentate in una fissità che pare sospesa nel vuoto, gli stili di vita e di attaccamento, i comportamenti, le azioni, i modelli organizzativi sono letti come qualità essenziali, del tutto private della loro valenza contestuale, dinamica e processuale». Un orientamento che Lanini riscontra anche, con ancora maggiore forza, nell’esame dei fascicoli giudiziari.
Qui, l’autrice è brava nel sottolineare come la rilevanza delle categorie, più che dei dati, in un gioco di luci e ombre, di dettagli messi perfettamente a fuoco, giustapposti a vaste aree di opacità, dia forma a specifici regimi di verità. Scrive, in merito, Lanini,
«possiamo notare come il primo elemento assente sia, in tutti i casi, proprio l’evento migratorio, che peraltro riguarda tutti i genitori, nati all’estero, nonostante sia questo un fattore di specificità che, come abbiamo visto, organizza gli stili di vita, i comportamenti, le posture, i vincoli e le logiche che presiedono le politiche, le strategie e le scelte familiari. Nei casi trattati nulla si conosce del progetto, delle motivazioni, degli investimenti, dei costi. Si ignorano i sistemi transnazionali, i legami affettivi, identitari, economici con i paesi di origine, ma anche di quali aspettative siano investite le nuove generazioni, quali ambizioni, speranze o programmi orientino le scelte formative, quali aspirazioni di mobilità sociale, quale posto sia assegnato ai giovani nell’orizzonte del disegno familiare».
E se pure nelle relazioni dei servizi sociali, come in uno scavo archeologico, emergono «segni e tracce di parti di famiglie importanti, mappe parentali che eccedono la geografia del presente (…) il qui e l’ora, governabile dall’istituzione risulta limitato rispetto a un contesto materiale e di senso che si intuisce ma non si conosce». Ed è in queste sfocature che si perde traccia della rilevanza delle dimensioni strutturali che orientano i percorsi biografici. Così, aspetti di carattere culturale, relazionale o psicologico, spesso puramente descrittivi, divengono fattori di criticità, cruciali nella costruzione del discorso sulla genitorialità, oltre che negli esiti di processi che aprono le carni, spesso già dilaniate, del rapporto tra adulti e minori nel contesto migratorio.
Complessivamente, questo è un libro importante per chiunque lavori nell’ambito dei servizi educativi o sociali e l’autrice, in parte per il suo background professionale, in parte per la sua capacità di scrittura, è in grado di prendere per mano il lettore e guidarlo nei meandri di un processo educativo-burocratico tanto complesso quanto poco trasparente, non rinunciando a portare una critica chiara e diretta al modo in cui si costruiscono le condizioni per lo sviluppo di un razzismo strutturale, nello spazio della tutela dei minori. Forse, ci sarebbero stati gli estremi per condurre una critica ancor più radicale, adottando una prospettiva post-coloniale, attraverso la quale far emergere gli effetti del ritorno di uno sguardo colonialista sul sociale.
Tuttavia, questo saggio ha il merito di mostrare chiaramente i limiti e le contraddizioni delle politiche dello Stato nella costruzione delle categorie di pensiero attraverso le quali si costruisce lo scenario politico e sociale della migrazione, nella società contemporanea. Perché come affermava Abdelmalek Sayad, il fenomeno migratorio ci consente di rendere palese ciò che è latente nella costituzione o nel funzionamento di un ordine sociale, rivelando ciò che si ha interesse a ignorare e portando alla luce, o ingrandendo, ciò che abitualmente è occultato. È la funzione specchio delle migrazioni; e, per certi versi paradossalmente, questa è anche la ragione per cui questo libro può risultare di grande utilità anche per chi non si interessa al tema delle migrazioni.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Enrico Fravega, è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Genova e coordinatore del progetto PRINO MOBS (PRIN 2020 Prot. 2020TELSM8). È autore di L’abitare migrante. Racconti di vita e percorsi abitativi di migranti in Italia (Editore Meltemi) e coautore di Crocevia mediterraneo (Eléuthera 2023). Interessi di ricerca: migrazioni e pratiche di home-making, abitare informale, la costruzione del confine negli spazi marittimi.
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