Ci sono questioni di cui l’opinione pubblica si occupa da ‘emergenza’ a ‘emergenza’, ignorandone il carattere strutturale e, perciò, permanente. La condizione della donna è una di queste. Opportuno dunque, anzi necessario, ritornare ciclicamente alle fonti storiche che possono restituirci alcuni tratti essenziali della questione femminile. Soprattutto in fasi storiche, come l’attuale, in cui l’oblio dei travagli che hanno condotto a risultati rilevanti (sia pur parziali) in varie culture – quali i diritti umani in generale – rischia di compromettere quanto acquisito e di spostare indietro di secoli l’orologio della storia.
Come ricorda Deborah Ardilli, nella Introduzione al volume da lei curato, Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964 – 1977), Morellini Editore – VandA.ePublishing, Milano 2018, dopo una «prima ondata femminista negli Stati Uniti e nei Paesi europei tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX» se ne può individuare una seconda, «negli anni Sessanta e Settanta» del secolo scorso, qualificabile come “radicale” in quanto fondata «sul riconoscimento dell’impossibilità sociale dell’uguaglianza all’interno di un sistema patriarcale o, per meglio dire, etero-patriarcale». In questa fase si registra «una presenza femminista nera» che, costituitasi in «ovvia connessione con i movimenti per la liberazione nera (Diritti Civili, nazionalismo nero, Pantere Nere), ha avvertito la necessità di formare un gruppo femminista nero separato».
Solo dagli anni Ottanta in poi si sarebbe configurata una terza fase – oggi egemone – del «pensiero della differenza sessuale» che, planando in direzione del moderatismo, avrebbe sostituito il «discorso apertamente antagonista per la liberazione delle donne» con il «discorso rispettabile dei diritti e della parità» (così Stefania Arcara cit. a p. 10). I testi raccolti sono distribuiti in tre sezioni, dedicate rispettivamente a Italia, Stati Uniti e Francia.
In Italia
Tra i testi della prima sezione, troviamo un Documento per un’apertura di dibattito (1964) a firma di Daniela Pellegrini che con lucidità indica, tra gli “ostacoli” che si oppongono all’emancipazione di una donna, non solo l’indifferenza/ostilità dei maschi, ma anche l’incomprensione di altre sue simili:
«la donna è la nemica più vera della donna, proprio perché è costretta a esserne la rivale per trovare la propria trascendenza agli occhi dell’uomo: essa ‘guata’ l’altra per coglierla in fallo, sia perché è così poco femminile, sia perché lo è così troppo! Calunnia, disprezzo, diffidenza, disistima, invidia…nulla è risparmiato alla donna dalla donna di fronte al maschio, di fronte alla caccia al maschio».
Evadere dalla costrizione psicologica di rivaleggiare con le altre è possibile solo tessendo quel «legame sconosciuto delle donne fra loro» che si chiama “solidarietà”.
Nel Manifesto programmatico (1966) del Gruppo DEMAU (Demistificazione Autoritarismo) ci sono almeno due spunti meritevoli di nota. Il primo consiste nell’invito a evitare che l’emancipazione femminile si risolva in una «antitesi pura e semplice allo status quo», dal momento che «il rovesciamento della condizione di fatto» attuale potrebbe comportare, riduttivamente, o la «lotta per la supremazia sul maschio (dittatura rovesciata – nuovo matriarcato)» o la «mascolizzazione della donna (convalida dei modelli culturali attuali)». Il secondo spunto consiste nell’invito alla “emancipazione dell’uomo” dal momento che, in un regime patriarcale, è
«a sua volta privato di vaste possibilità umane. Come la donna non ha raggiunto la propria maturità senza conquistare a sé valori finora negatile, così l’uomo non possiederà sufficienti strumenti di giudizio e comprensione se non conquisterà quelli da lui finora disprezzati, o invidiati, come ‘femminili’».
Passi interessanti non mancano neppure nel (primo) manifesto Rivolta Femminile (1970) redatto da Carla Lonzi. Ad esempio il nesso fra maschilismo e bellicismo: «La guerra è stata sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». O anche la critica alla dottrina marxista che privilegia “la lotta di classe” ma «ugualmente esclude la donna», con la conseguenza che, come «al termine di ogni rivoluzione popolare», anche nella fase di transizione socialista «la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi problemi». Sul rifiuto della tesi che «solo dopo la presa del potere da parte del proletariato la condizione della donna si risolverà» insiste anche il documento Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna (1971) redatto a Trento dal gruppo Cerchio Spezzato.
Lo scritto Salario contro il lavoro domestico, a firma di Silvia Federici, tematizza la rivendicazione di un salario per le casalinghe che viene interpretata come strategia politica:
«la richiesta mediante la quale la nostra natura finisce e inizia la nostra lotta, perché volere salario per il lavoro domestico significa già rifiutare questo lavoro come espressione della nostra natura e quindi rifiutare proprio quel ruolo femminile che il capitale ha inventato per noi».
La prima sezione si chiude con un testo alquanto criptico di Carla Lonzi, Io dico io, secondo manifesto Rivolta Femminile (1977), nel quale la pensatrice italiana, secondo l’interpretazione della Ardilli, denuncia i rischi insiti nella «crisi dovuta al successo mondano del femminismo», alla sua «domesticazione patriarcale nel momento in cui anche per la femminista si apre la promessa del riconoscimento».
La seconda sezione dell’antologia si apre con il manifesto Verso un movimento di liberazione femminile (1968) firmato da Beverly Jones (Parte prima) e Judith Brown (Parte seconda). Vi si svolge una critica parallela ai neri e alle donne che si illudono di poter raggiungere l’uguaglianza di diritto e di fatto con i maschi bianchi senza mobilitarsi in maniera compatta e conflittuale. Si elenca una serie di “progetti” su cui le donne dovrebbero concentrare le proprie energie: salvaguardare la specificità del movimento femminista rispetto a movimenti apparentemente simili, ma ignari della verità basilare che «non può esserci reale ristrutturazione di questa società fino a quando non saranno ristrutturate le relazioni tra i sessi»; «prendere lezioni di jujitsu o di karate fino a diventare esperte di arti marziali»; contestare i programmi televisivi e gli spot pubblicitari in cui le donne non sono rappresentate «in tutta la loro complessità», ma solo come “stupide” schiave delle mode; «condividere le proprie esperienze le une con le altre per comprendere, identificare ed enunciare esplicitamente le tante tecniche psicologiche di dominio (maschile) dentro e fuori casa»; «progettare comunità in cui le donne possano essere liberate dalle loro incombenze per un tempo abbastanza lungo da permettere loro di fare esperienza dell’umanità»; produrre «letteratura femminista, storica o di altro genere»; «indagare le reali differenze caratteriali e cognitive tra i sessi»; rivendicare «parità di retribuzione a parità di lavoro» e, per le casalinghe, «un reddito annuale garantito» che le liberi dalla condizione di asservimento nei confronti dei mariti; «l’aborto, al pari dei contraccettivi, deve essere legale e accessibile se le donne devono assumere il controllo dei loro corpi, delle loro vite e die loro destini».
Nella seconda parte del Manifesto si insiste su tutta una serie di fraintendimenti e di possibili strumentalizzazioni di cui le femministe possono restare vittime se si accontentano di piccoli miglioramenti, a titolo individuale, all’interno di un sistema complessivo che resta patriarcale, maschilista e sessista. A questi equivoci sono particolarmente esposte le giovani donne “radicali” che sono meno condizionate rispetto alle donne mature, sposate, con figli da allevare: ma non per questo davvero libere di vivere la femminilità in maniera alternativa. Esse stesse, comunque, una volta sposate, magari con un leader di movimenti emancipazionisti (anti-imperialistici, anti-militaristi etc.), scoprono presto che «lo stile delle (loro) giornate assomiglia più a quello delle sorelle che non appartengono al movimento che a quello del marito». Infatti il matrimonio è
«per le donne ciò che l’integrazione è per i neri. Esso consiste nell’atomizzazione di un sesso in modo da renderlo politicamente impotente. L’anacronismo permane perché le donne non vogliono combatterlo, perché gli uomini ne traggono benefici consistenti e non vi rinunceranno e perché, anche se uomini e donne volessero trasformare l’istituzione, essa è alla mercé delle istituzioni più potenti che la utilizzano e le imprimono la sua forma».
Un’alternativa – almeno temporanea – all’istituzionale matrimoniale potrebbero essere le “comuni femminili” dove vivere sollevate «dall’obbligo terrificante di surclassare le sorelle nelle frequentazioni, nella cura dell’aspetto ecc.» e dove azzerare «il lavaggio del cervello da parte della pubblicità sexy dei media e dei discorsi all’interno del movimento sullo scopare il più possibile». Chi decide per il matrimonio tradizionale deve comunque «chiedere parità di tempo» per le proprie cose.
«Questo comporta che il marito si faccia carico di metà del fardello di portare avanti una famiglia: in termini di cucinare, pulire, fare il bucato, ricevere ospiti ecc.». Solo a queste condizioni materiali, le donne troveranno il «tempo per leggere, studiare, scrivere, dibattere tra noi. E quando agiremo politicamente, avremo bisogno di tempo per organizzarci ecc.».
Un capitolo a sé occupa la questione dell’omosessualità: «le donne che si allontanano dagli uomini per un po’, alla ricerca l’una dell’altra per costruire relazioni politiche, pensiero di movimento e organizzazione, sono destinate a vedere qua e là qualcuna che amano». Poiché però anche nella Nuova Sinistra statunitense è influente la mentalità puritana, «una paura continua dell’omosessualità può essere l’ultima spiaggia tramite cui l’ordine maschile può tenerci al rimorchio».
Sempre nel 1968 viene pubblicato il Manifesto BITCH a firma di Joreen (alias Jo Freeman) nel quale bitch significa “femmina di cane” (e, per estensione, “stronza” o “puttana”). Il suo profilo è variegato: «non passa mai inosservata», muove il corpo liberamente senza rispettare la «maniera femminile appropriata», persegue «l’autoespressione e l’autorealizzazione» e viene accusata di dominare quando osa fare «ciò che sarebbe considerato naturale se fatto da un uomo».
«Ciò che sconcerta in una Bitch è che è androgina, Incorpora in sé sia qualità tradizionalmente definite ‘maschili’ sia ‘femminili’. (…) Non le piacciono le maniere indirette, sottili, misteriose dell’‘eterno femminino’. Disdegna la vita per procura ritenuta naturale per le donne perché vuole vivere una vita propria».
«Le Bitch sono state le prime donne ad andare all’università, le prime a infrangere la barriera invisibile delle professioni, le prime rivoluzionarie sociali, le prime leader operaie, le prime a organizzare altre donne»: «sono donne, ma non vere donne. Sono umane, ma non sono maschi. Alcune non sanno neppure di essere donne perché non possono relazionarsi con altre donne».
Il Manifesto Redstockings (anonimo) è stato diffuso come volantino nel 1969. È articolato in 7 tesi: le proponenti sono impegnate per realizzare un movimento unitario di liberazione femminile; «le donne sono una classe oppressa» e i conflitti fra un uomo e una donna sono «conflitti politici che possono essere risolti soltanto collettivamente»; «la supremazia maschile è la forma di dominio più antica, più fondamentale» su cui si radicano tutte le altre forme di oppressione (razzismo, capitalismo, imperialismo ecc.); «ogni uomo è libero di rinunciare alla sua posizione di superiorità, posto che sia disponibile a essere trattato come una donna da altri uomini»; «l’autocoscienza» non è una «terapia», ma «l’unico metodo tramite cui possiamo assicurarci che il nostro programma di liberazione sia basato sulla realtà concreta della nostra vita»; «ripudiamo ogni privilegio economico, razziale, di istruzione e di status che ci divide dalle altre donne»; «ci appelliamo a tutti gli uomini affinché rinuncino ai loro privilegi maschili e sostengano la liberazione delle donne nell’interesse della nostra umanità e della loro».
Nel 1970 viene distribuito il testo La donna identificata donna a firma di un gruppo che si autodefinisce delle Radicallesbians. L’incipit è di forte impatto: «Che cos’è una lesbica? Una lesbica è la rabbia di tutte le donne condensata fino al punto di esplosione». Poco dopo il parallelo con l’omosessualità maschile: al pari di questa, il lesbismo è
«una categoria di comportamento possibile soltanto in una società sessista caratterizzata da ruoli sessuali rigidi e dominata dalla supremazia maschile (…). Solo le donne possono darsi l’un l’altra un nuovo senso del sé. L’identità dobbiamo svilupparla in relazione a noi stesse, e non in relazione agli uomini. Questa coscienza è la forza rivoluzionaria da cui seguirà tutto il resto, perché la nostra è una rivoluzione organica. Perciò dobbiamo essere disponibili e solidali l’una con l’altra, offrire il nostro amore e il nostro impegno, garantire il supporto emotivo necessario a sostenere questo movimento. Le nostre energie devono fluire verso le sorelle, non regredire verso gli oppressori. Fino a quando la liberazione delle donne cercherà di liberare le donne senza affrontare la struttura eterosessuale di base che ci vincola all’interno di una relazione individuale con i nostri oppressori, energie immense continueranno a confluire nel tentativo di rafforzare ogni relazione particolare con un uomo, di migliorare la qualità del sesso, di fargli girare la testa, nel tentativo di fare di lui l’ ‘uomo nuovo’, nell’illusione che questo ci permetterà di essere la ‘nuova donna’».
La Dichiarazione del Combahee River Collective del 1977 chiude la sezione dell’antologia dedicata ai materiali di origine nord-americana. Si tratta di «un collettivo di femministe nere», «attivamente impegnate nella lotta contro l’oppressione razziale, sessuale, eterosessuale e classista» nella convinzione che «i principali sistemi di oppressione sono imbricati». Le quattro tematiche principali del documento sono: «la genesi del femminismo nero»; il progetto «politico specifico»; «i problemi organizzativi delle femministe nere»; «temi e pratiche del femminismo nero».
In sintesi, si potrebbe affermare che questa corrente del femminismo è nata come combinato disposto di antirazzismo e di antisessismo, integrandosi successivamente con la difesa dal dominio eterosessista e capitalistico: una mistura non priva di paradossi se è vero che le protagoniste lottano «a fianco degli uomini neri contro il razzismo, pur lottando contro di loro riguardo al sessismo». E che di antagonismo rispetto alla «maggior parte delle persone nere» ci sia bisogno lo attestano varie citazioni come le prime righe di un «pamphlet del nazionalismo nero dei primi anni Settanta»:
«Fa parte e ha fatto parte delle nostre tradizioni che l’uomo sia il capo della casa. Egli è il dirigente della casa/nazione perché la sua conoscenza del mondo è più vasta, la sua consapevolezza è più grande, la sua comprensione è più completa e l’uso che fa di queste informazioni è più saggio».
Alla contestazione del sessismo (nero o bianco che sia) le autrici del documento dedicano delle precisazioni degne di sottolineatura:
«Abbiamo una quantità di critiche e di ribrezzo per ciò che gli uomini sono stati addestrati a essere in questa società: per ciò che sostengono, per il loro modo di agire e di opprimere. Ma non coltiviamo l’idea fuorviante che sia la mascolinità per sé – ovvero la mascolinità biologica – a renderli ciò che sono. In quanto donne nere pensiamo che ogni forma di determinismo biologico sia una base particolarmente pericolosa e reazionaria su cui costruire una politica».
La sezione dedicata alla produzione francese del “femminismo radicale” inizia con il documento Per un movimento di liberazione delle donne firmato nel 1970 da M. Rothenburg, M Stephenson, G. Wittig e M. Wittig. Uno dei fili rossi è costituito dalla tesi di F. Engels secondo cui «la prima opposizione di classe che si manifesta nella Storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra l’uomo e la donna nel matrimonio e la prima oppressione del sesso femminile da parte del sesso maschile».
La fotografia è impietosa. La Rivoluzione francese del 1789 aveva promesso la liberazione delle donne «come gli schiavi e i negri», ma il patibolo su cui cadde la testa di Olympe de Gouges ne proclamò la smentita. Oggi le donne negli ambienti di lavoro occupano i ruoli infimi, «sullo stesso piano dei lavoratori immigrati». Se, invece, sono casalinghe, vivono
«una solitudine, un isolamento, unici nella storia dell’umanità. Non abbiamo, come i neri, i ghetti per riunirci e radunarci. Se lavoriamo soltanto in casa, ci tocca aspettare il ritorno dei nostri mariti per avere un contatto umano. Ripiegate su noi stesse, tagliate fuori dal mondo, ci distruggiamo».
In particolare le autrici si soffermano sul “lavoro servile”, la “mostruosità” per cui «esiste nelle società moderne una sorta di lavoro che non ha valore di scambio, è il lavoro che facciamo a casa. Rappresenta una massa enorme di produzione socialmente necessaria», ma inesistente per il “mercato”. In questo contesto, la libertà femminile di lavorare fuori casa si identifica con la libertà di caricarsi di “un doppio lavoro”.
Poiché le grandi organizzazioni partitiche e sindacali, anche di sinistra, ritengono che l’oppressione delle donne sia una questione da affrontare dopo la soluzione dello sfruttamento capitalistico in generale, le firmatrici del documento ritengono indispensabile costituirsi sin da subito in movimento rivoluzionario autonomo:
«Noi siamo il popolo e vogliamo partecipare alla presa del potere per potervi rappresentare i nostri interessi. Noi diciamo che volerci impedire di partecipare alla presa del potere, se non in maniera accessoria come le aiutanti e le ausiliarie che siamo sempre state, è un punto di vista sciovinista maschile».
L’articolo Il nemico principale, del 1970, è di Christine Delphy (che originariamente si firmò con lo pseudonimo di Christine Dupont). Ci si concentra su due obiettivi: uno teorico («trovare le ragioni strutturali per cui l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici non è di per sé sufficiente a liberare le donne») ed uno pratico («costituire il movimento femminista in forza politica autonoma»). L’autrice evidenzia come, anche in società “socialiste” (all’epoca URSS e Paesi satelliti, Cina popolare, Cuba), il lavoro femminile non viene remunerato né quando si tratta di allevare figli e curare la casa né quando si tratta di «produzioni destinate al mercato» ma «prodotte all’interno della famiglia»: dunque in una “unità di produzione” diversa dalla “bottega” e dalla “fabbrica”, cioè «nella maggior parte dell’agricoltura, del commercio e nell’artigianato».
Se «lo sfruttamento patriarcale costituisce l’oppressione comune, specifica e principale delle donne» – da abbinare allo “sfruttamento sessuale”, la «seconda componente dell’oppressione delle donne» – è necessario, sul versante operativo, «a breve termine», «procedere alla mobilitazione nella lotta immediata»; «a lungo termine», tendere alla convergenza «delle lotte antipatriarcali e delle lotte anticapitaliste» in un’unica «lotta rivoluzionaria». «Il rovesciamento totale delle basi di tutte le società conosciute» non “potrà compiersi senza una rivoluzione, cioè la presa del potere politico»: «tale presa del potere deve costituire l’obiettivo ultimo del Movimento di liberazione delle donne».
Il penultimo testo dell’antologia Manifesti femministi è il documento anonimo Féministe Révolutionnaire del 1972 in cui si spiega il senso dell’autodenominazione: “femministe” perché era importante, di fronte ai benpensanti, «nominarci con il termine della loro derisione e del loro obbrobrio»; “rivoluzionarie” perché «la lotta delle donne, se viene portata fino in fondo, fino alla distruzione totale dell’ordine patriarcale, rimette in questione i fondamenti stessi della società, dunque assesta un colpo a molte altre cose».
Definizione dell’oppresso (1971) di Christiane Rochefort è la brevissima prefazione alla versione francese di Manifesto SCUM di Valerie Solanas. Il testo, letterariamente fulminante, non è un’apologia della gestione ‘nonviolenta’ dei conflitti. Sostiene infatti che l’oppresso è, per definizione, colui che tira fuori il coltello: sino a un momento prima, l’oppressore non lo riconosce come tale. E neppure egli stesso se ne rende pienamente conto.
Il tentativo di dare un’idea, sia pure a volo d’uccello, delle 300 pagine di questa singolare antologia non lascia molto spazio alle considerazioni critiche (per le quali, oltre tutto, non ritengo di avere delle competenze professionali adeguate). Mi limito dunque a esprimere, con l’ingenuità del profano, alcune perplessità.
A p. 81 leggiamo: «Riconosciamo il carattere mistificatorio di tutte le ideologie, perché attraverso le forme ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico) hanno costretto l’umanità a una condizione inautentica, oppressa e consenziente». Tutte le ideologie? L’ideologia femminista fa eccezione perché è femminista o perché non è ideologia?
A p. 102 leggiamo: «Solo quando gli uomini vedranno il nostro lavoro come lavoro, il nostro amore come lavoro, e soprattutto la nostra determinazione a rifiutare entrambi, cambieranno il loro atteggiamento nei nostri confronti». Il rapporto affettivo-sessuale (addirittura l’amore) è un “lavoro”? Solo se l’amore è la motivazione (inventata) che io attribuisco all’altro può essere “lavoro” o, meglio, la benda che mi impedisce di riconoscere il lavoro altrui come lavoro.
A p. 166 leggiamo: «L’istituzione del matrimonio non libera le donne, non assicura la crescita emotiva e intellettuale, e non offre risorse politiche. (…) La donna è imprigionata in una relazione che è politicamente oppressiva, fisicamente sfiancante, emotivamente e sessualmente stereotipata e intellettualmente atrofizzante». È un dato statistico (= per lo più) o una visione eidetica (= essenzialmente)? Nell’una e nell’altra ipotesi, il matrimonio è anche questo o solo questo? Forse l’autrice propende per il primo corno dell’alternativa, visto che alcune pagine dopo apre uno spiraglio: «Teoricamente, queste donne e questi uomini potrebbero, in futuro, una volta liberati dall’intoppo servo-padrone, incontrarsi ed elaborare una nuova istituzione domestica che serva meglio gli interessi di uomini liberi e donne libere. Non ci sentiamo obbligate a offrire alcun modello utopico di quell’istituzione, ma siamo certe che verrà progettata molto rapidamente, e molto ragionevolmente, dalle anime liberate. Alcune donne, quindi, e forse alcuni uomini, dovranno rifiutare l’attuale modello domestico, distruggerlo e costruirne un altro».
A pag. 154, come in altri passaggi, si ribadisce che «l’aborto, al pari dei contraccettivi, deve essere legale e accessibile se le donne devono assumere il controllo dei loro corpi, delle loro vite e dei loro destini». È sensata l’equivalenza tra il diritto di gestire liberamente la propria sessualità prevenendo condizioni traumatiche (la contraccezione) e il diritto di gestire una gravidanza involontaria nella logica della riduzione del trauma psico-fisico (l’aborto procurato)? È solo da un punto di vista maschile che non si riesce a separare, nell’intervento chirurgico, l’esercizio di un diritto dall’esperienza di una sofferenza?
In vari passaggi del volume ritornano, abbastanza intrecciate, due tesi: che le donne costituiscono una “classe” (nel senso marxiano del termine) e che non potranno modificare una subalternità millenaria senza una “rivoluzione” (nel senso marxiano di conquista del “potere”). Se interpretate come denunzia di una acquiescenza generalizzata allo status quo (formulabile con frasi del tipo: «Le donne hanno già fatto passi da gigante: un po’ di pazienza e nei prossimi decenni l’emancipazione arriverà a compimento per maturazione fisiologica»), le due tesi marxiane veicolano un allarme – e un appello operativo – senz’altro necessario. Se invece le si volessero adottare come princìpi costitutivi di un progetto politico, dovrebbero preliminarmente sottoporsi alla disamina analitica e storica di tutte le categorie originariamente e tipicamente marxiane, dal momento che esse sono tanto euristicamente preziose quanto insufficienti rispetto alla realtà antropologica e sociologica. Detto brutalmente: la “classe” e la “rivoluzione” come presa del Palazzo d’Inverno si sono rivelate maledettamente più complesse di quanto Marx, Engels e Lenin ritenessero. Ma questo non è un dettaglio, bensì il titolo di un volume – anzi di un’Enciclopedia – da scrivere ex novo.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
_________________________________________________________________________________
Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).
______________________________________________________________