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Dialogo con Gavino

Gavino Ledda

Gavino Ledda

di Costantino Cossu

Badde ‘e frustana è una distesa di sterpi. Nel luogo in cui Abramo Ledda, padre padrone, iniziò il figlio alla vita del pastore, la siccità affonda il suo morso. Nessuno coltiva più questa terra. Sulle zolle, in un pomeriggio primaverile di caldo agostano, crescono erbacce. I cardi selvatici si protendono come spire acuminate. Le foglie delle querce sono aggredite dai bachi, che la mancanza d’acqua ha moltiplicato a migliaia. Tutto è giallo.

«È qui – racconta Gavino Ledda – che mio padre mi portò dopo che una mattina venne a prelevarmi a scuola, in prima elementare, dicendo alla maestra che io gli appartenevo e gli servivo per lavorare in campagna. Da Siligo per arrivare all’ovile si faceva una strada che nella memoria mi è rimasta bianca di polvere. Un varco verso un al di là ignoto oltre il fuoco di casa. Sa pinnetta con i suoi sassi nuragici prendeva il posto del tetto della primissima infanzia. C’era il gregge, che dava la vita e si prendeva la vita, si divorava la mia vita di bambino. Ora è tutto in rovina. Prima di morire, mio padre ha venduto. Pecore non ce ne hanno messo, i nuovi padroni. E neppure colture. I rovi coprono ogni cosa».

Quando dialoghiamo, seduti su due sassi coperti di muschio ai piedi di una quercia, Gavino Ledda è tornato a Siligo da poco, una decina di giorni, dal Salone del libro di Torino. Mondadori ha scelto la fiera piemontese per presentare la riedizione, nella collana Oscar Moderni Cult, di Padre padrone, il libro tradotto in mezzo mondo (in quaranta lingue) che a Gavino ha dato la fama. Il romanzo vide la luce nel 1975. Il prossimo anno, quindi, cadono, ad aprile, i cinquant’anni dalla sua uscita. E Mondadori scommette su Ledda decidendo di ripubblicare, dopo Padre padrone, altri tre libri dell’autore di Siligo. Il prossimo anno uscirà la riedizione di Lingua di falce. A seguire, Aurum Tellus e I cimenti dell’Agnello.

11Nel 1975 Feltrinelli affidò Padre padrone al giudizio dei lettori inserendolo nella collana “Franchi narratori”, ideata e curata da due editor di straordinario valore: Nanni Balestrini e Aldo Tagliaferri. «In quel periodo – racconta quest’ultimo nel libro Quando la penna esplode di vita (Oblique Editore, 2010) in cui Flavia Vadrucci fa la storia della collana – avevamo un gettito continuo di manoscritti e di autori, o presunti autori, che arrivavano in casa editrice con delle proposte, e io ero convinto che qualcosa di buono ci fosse. L’idea della collana nacque anche per ospitarli. Io e Balestrini ne parlammo direttamente con Feltrinelli e lui fu subito entusiasta. “Fatela subito – ci disse – altrimenti ci penserà qualcun altro”».

Nell’incipit della quarta di copertina che accompagnava ogni uscita si leggeva: «La collana “Franchi narratori” raccoglie testi, “irregolari” rispetto ai parametri sia della letteratura pura sia del semplice documentarismo, in cui si raccontano esperienze direttamente vissute dagli autori stessi, e che rappresentano “spaccati” di problematiche profondamente vincolate alla realtà storico-sociale della situazione culturale di oggi; testi quindi esemplari, che spesso costituiscono, in senso lato, delle testimonianze di una antropologia “in fieri”, di una realtà troppo viva, attuale, complessa, per essere ingabbiata in già scontati moduli editoriali». Tra i primi titoli, L’invasione impossibile di Sante Notarnicola e Pelle di leopardo: diario vietnamita di un corrispondente di guerra di Tiziano Terzani. 

2561892240410_0_536_0_75Nessuno dei testi ospitati nella collana sino al 1983 (anno in cui l’iniziativa termina) ha avuto il successo di Padre padrone. La storia del bambino che, strappato a sei anni alla scuola, impara e leggere e a scrivere solo durante il servizio militare e che dopo essersi laureato in Glottologia alla Sapienza di Roma entra nell’Accademia della Crusca e diventa assistente nel corso di Linguistica dell’Università di Cagliari, cattura il pubblico. L’interesse cresce ancora di più, in Italia e fuori dei confini nazionali, quando nel 1977 il film che i fratelli Taviani traggono dal romanzo di Ledda vince la Palma d’oro al Festival del cinema di Cannes.

Siamo a metà degli anni Settanta, l’eco delle contestazioni studentesche e operaie del biennio 1968-69 è ancora vivo. I padri vanno uccisi, contro il loro autoritarismo bisogna ribellarsi per costruire una nuova civiltà, un mondo in cui ogni vincolo di servaggio sia cancellato. Il potere esercitato dai padri all’interno della famiglia patriarcale è una figura premoderna dei rapporti di dominio che fondano l’ordine instaurato dalle rivoluzioni borghesi. Un ordine da abbattere. È lo spirito del tempo, che il libro di Ledda intercetta, in quel frangente storico, come pochi altri. Soprattutto da questo il successo, in Italia e nel mondo.

Eppure Padre padrone non è questo. Non è solo questo. Per capirlo bisogna ascoltare Ledda, che spiega: 

«Il prossimo anno Mondadori pubblica, insieme con la riedizione di Lingua di falce, anche un libro che sarà il primo di una trilogia alla quale sto lavorando da tempo e che avrà al centro la stessa esperienza della conquista della parola raccontata nel mio libro di esordio, ma allargata, immensamente allargata. Se infatti cinquant’anni fa partivo da Badde ‘e frustana, ora il cammino comincia molto più in là nel tempo e nello spazio. Parto dai primordi della storia dell’umanità. Ai pascoli sardi si sostituisce la pianura mesopotamica. Quella culla primordiale di acqua e di terra diventa la scena ideale in cui la parola si rivela nella sua libertà e nella sua potenza. La parola, dico, non la lingua. La lingua, tutte le lingue, il sardo compreso, sono diventate pietra sterile. Si sono ossificate. Dentro i confini della lingua non è possibile dire niente. Si può forse comunicare, con la lingua, ma mai cantare. Ed è nella dimensione del canto, solo del canto, che a me interessa stare. Nel canto c’è la verità, nella lingua c’è l’inganno e la morte. E il canto è parola. La parola è, nel canto, esperienza di libertà. È stato così sia per il Gavino bambino qui a Badde ‘e frustana sia per il Gavino adulto che decise di fare della parola vita. È stato così per l’umanità ai primordi della civiltà. A questo voglio che serva il lavoro dal quale sta nascendo la mia trilogia: voglio recuperare la potenza del canto. Che non è soltanto canto dell’umano. L’umano non basta più. L’umano, da solo, rovina. Il mio è canto della natura tutta intera».

La scrittura come “esperienza di conquista della parola”. Facile richiamare, tra le parentele letterarie solo nell’ambito del Novecento italiano, il lavoro sulla parola, sull’essenzialità della parola, di Giuseppe Ungaretti, e Andrea Zanzotto, che di fronte allo scacco della lingua, divenuta sede della più assoluta inautenticità, indica un percorso di verbalizzazione altra che attinge, come in Ledda, a un fondo biologico e antropologico. Nessuna impossibile restaurazione dell’aura poetica. Un tenersi saldo, invece, a un’ancestrale dimensione tellurica dell’espressione, in cui l’autore di Padre padrone va molto più indietro rispetto a ogni lascito novecentesco. 

«Quando arrivai a Roma e mi iscrissi a Lettere – racconta Ledda – capii di essere già laureato. La terra è stata la mia Università. In poemi come Le opere e i giorni di Esiodo o il De rerum natura di Lucrezio ho ritrovato una selva che già conoscevo».

2566891402814_0_200_0_0Massimo Onofri, ordinario di Letterature comparate all’Università di Sassari, attento alla Sardegna e ai suoi scrittori, curerà per gli Oscar Mondadori Cult la riedizione dei I cimenti dell’Agnello (prima edizione Scheiwiller, 1991). È uno dei testi più luminosi di Ledda, di cui Onofri scrive: «In quest’opera, che mette radicalmente in discussione ogni antropocentrismo, il mondo contemplato dallo straziato e inerme punto di vista dell’agnello consente all’autore di varcare frontiere psicologiche e linguistiche che nessuno scrittore ha mai oltrepassato». E che il canto di Ledda superi davvero molti confini lo sostiene anche Carlo Ossola (accademico dei Lincei e docente di Letteratura italiana al Collège de France di Parigi), che nell’introduzione alla riedizione mondadoriana di Padre padrone scrive: «Già in quest’opera di esordio affiora un’ansia tellurica, che si interroga sulla “rinascita” in un mondo più equo e libero».

Gavino Ledda

Gavino Ledda

Ansia tellurica evidente anche nell’altro titolo di Ledda che ora, grazie agli Oscar Mondadori, sarà possibile rileggere: Aurum Tellus (prima edizione Scheiwiller, 1991). Sempre nell’introduzione alla riedizione di Padre padrone, Ossola richiama uno scritto appartenente alla fase preparatoria di Aurum Tellus, intitolato Il mare dell’impossibile. Ledda vi appunta: «Impersonalità e universalità. Scrittura e aratura e semina di natura dove l’evento eziologico, l’àition, è fermento che diventa una galassia e nell’inno è canto all’impossibile». Canto all’impossibile, dunque. Canto oltre “le frontiere psicologiche e linguistiche”. Canto prezioso perché, oggi, rarissimo.

Quando andiamo via da Badde ‘e frustana, Gavino Ledda mi chiede di fotografarlo mettendo sullo sfondo dell’inquadratura una roccia alta sulle pendici di Monte Santu, la rupe che domina i pascoli dell’infanzia.

«Lì – mi dice – andava a posarsi un falco. Appariva tutte le sere poco prima che tramontasse il sole. Arrivava quando avevamo finito di lavorare. Ero un bambino. Mi incantavo di fronte a quelle ali, agitate nella luce che andava via e nel fruscio del vento tra i rami delle querce. Ogni sera aspettavo il volo del falco e ogni sera guardavo e ascoltavo. Imparavo le note del grande canto del mondo». 
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024

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Costantino Cossu, laureato presso l’università “Carlo Bo” di Urbino (facoltà di Sociologia e Scuola di giornalismo), è giornalista professionista dal 1985, cura le pagine di Cultura del quotidiano la Nuova Sardegna. Collabora con il quotidiano Il manifesto e con la rivista “Gli Asini”. Ha scritto i libri: Sardegna, la fine dell’innocenza (Cuec, 2001), Gramsci serve ancora? (Edizioni dell’Asino, 2009). Ha curato il volume di autori vari La Sardegna al bivio (Edizioni dell’Asino, 2010) e il testo di Salvatore Mannuzzu, Giobbe (Edizioni della Torre, 2007).

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