Stampa Articolo

Dismisura, incredulità e insostenibilità lungo le rotte migratorie

downloaddi Giovanni Gugg 

Il fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo rappresenta una delle sfide più complesse e dolorose del nostro tempo. Pensare che alzando muri o chiudendo porti e confini questa pulsione inarrestabile possa placarsi, che la questione migratoria possa miracolosamente scomparire dai radar europei o che sia possibile semplicemente scaricarne il peso su Paesi già provati da disagio economico o conflitti è non solo moralmente discutibile, ma costituisce un’illusione con cui da decenni l’Europa sta abbagliando se stessa. Non si tratta di un fenomeno temporaneo o estemporaneo, né può essere scalfito da decisioni di singoli Paesi o da provvedimenti emergenziali. Dal 2000 al 2020, la popolazione migrante mondiale è cresciuta del 49%, passando da 173 milioni a circa 281 milioni, ossia il 3,6% di tutti gli esseri umani, che è oltre tre volte rispetto al numero stimato nel 1970 [1].

Come ricorda l’UNICEF, dal 2015 ad oggi sono più di 2,5 milioni le persone che hanno attraversato il Mediterraneo, nella speranza di una vita migliore in Europa, ma da allora più di 30.200 vi hanno perso la vita [2]. Nel solo 2023, gli arrivi via mare sono stati oltre 270.100, tra cui almeno 64.500 minori, in forte aumento rispetto al 2022, mentre se oltre al Mediterraneo si considerano anche le rotte dei Balcani occidentali, il numero totale di persone arrivate in Italia, Grecia, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria e Serbia aumentano a 361.839.

In questo contesto, il Mediterraneo è diventato una tomba per migliaia di migranti che cercano disperatamente di fuggire da guerre, persecuzioni e povertà. Le loro storie, raccontate ormai da decenni in un gran numero di pubblicazioni, ci parlano di un fenomeno migratorio di dimensioni enormi, che comporta viaggi pericolosi e costosi, il superamento di ostacoli fisici e burocratici, la resistenza a brutalità e abusi pur di cercare una vita migliore (Del Grande 2023).

9788804718420_0_424_0_75Nel vasto panorama editoriale su questo argomento, uno dei contributi più recenti e potenti è E la quarta volta siamo annegati, della giornalista irlandese Sally Hayden: uscito in inglese nel 2022, è stato pubblicato in italiano nel settembre 2023 (Bollati Boringhieri), ed è la dura testimonianza di una catena di orrori lungo le rotte migratorie, raccontate con cruda onestà. I migranti sono vittime di violenze, abusi, torture e sfruttamento; i loro racconti ci costringono a confrontarci con l’inumanità a cui sono sottoposti questi esseri umani in cerca di salvezza.

Di fronte a questa immane tragedia, Hayden pone attenzione alle politiche migratorie adottate dall’Unione Europea, che si rivelano non solo inefficaci nel contenere i flussi, ma anche disumane e controproducenti. Basate sul rafforzamento dei confini e sulla criminalizzazione dell’immigrazione clandestina, le politiche di contenimento hanno portato a un aumento dei morti in mare e a condizioni di vita precarie per i migranti che riescono a raggiungere le coste europee. Invece di offrire accoglienza e protezione, l’Europa si chiude a riccio, alimentando la criminalità organizzata e la tratta di esseri umani.

Si tratta di un’inchiesta giornalistica che, tuttavia, rivela spunti di riflessione ad un livello più alto della cronaca, dando al lettore tutti gli strumenti per comprendere pienamente l’articolazione del tema: dalle cartine geografiche delle primissime pagine dove visualizzare i contesti in cui si svolgono le vicende narrate, i percorsi dei migranti e le dinamiche geopolitiche che influenzano le loro rotte, alla cronologia degli eventi importanti e delle statistiche rilevanti, con cui l’autrice fornisce un quadro storico e contestuale del suo lavoro. Importante è anche il prologo, intitolato “Questa SIM è la nostra vita”, che assume un ruolo centrale nell’introdurre il lettore al tema portante del libro: le comunicazioni via Facebook come mezzo di contatto tra i migranti imprigionati in Libia e Sally Hayden:

«Mi immaginavo la rete di telefoni nascosti, le connessioni tra me e loro, tra loro e le famiglie e gli amici, come linee vitali, come arterie che pompavano sangue».

I successivi 24 capitoli del libro possono essere suddivisi in sezioni tematiche che approfondiscono specifici aspetti della crisi migratoria. I primi sei capitoli si concentrano sul viaggio dall’Africa alla Libia, descrivendo i pericoli, gli abusi e lo sfruttamento a cui i migranti sono sottoposti durante i loro spostamenti. Emerge con forza la drammaticità di questa esperienza, evidenziando la vulnerabilità e la disperazione di chi si affida a trafficanti senza scrupoli per raggiungere l’Europa. I capitoli da 7 a 10 esplorano le condizioni disumane all’interno delle carceri libiche e le violenze inflitte ai migranti detenuti. Vengono raccontate storie di torture, soprusi e privazioni, che testimoniano la brutalità di un sistema carcerario che viola i diritti umani più basilari. I successivi capitoli da 11 a 13 si spostano su rotte migratorie alternative alla Libia, analizzando le sfide incontrate dai migranti in altri Paesi come la Tunisia e la Sierra Leone. Affiora la complessità del fenomeno migratorio, che non si limita a un’unica rotta ma si articola in molteplici percorsi, ognuno con le sue difficoltà e i suoi pericoli. I capitoli da 14 a 18 criticano le politiche migratorie dell’Unione Europea e le loro implicazioni sulla crisi migratoria. Vengono analizzate le scelte adottate dai governi europei, accusati di inerzia, disumanità e di contribuire indirettamente al traffico di esseri umani. Ancora, i capitoli da 19 a 21 documentano le criticità del sistema di accoglienza nei centri di raccolta e partenza dell’UNHCR in Libia. Sono evidenziate le carenze strutturali, la mancanza di risorse e la difficoltà di garantire condizioni di vita dignitose ai migranti. Successivamente, i capitoli 22 e 23 presentano le inchieste giudiziarie sui trafficanti di esseri umani e le accuse all’Europa per il suo ruolo nel perpetuare il fenomeno. Casi concreti di processi e condanne denunciano la necessità di una giustizia internazionale più incisiva per contrastare il traffico di esseri umani. Infine, il capitolo 24 offre una riflessione sulle esperienze dei migranti dopo il loro arrivo in Europa, raccontando storie di integrazione, difficoltà e discriminazione. Si spiega e si dispiega la complessità del processo di inserimento sociale e culturale dei migranti nei Paesi europei.

E la quarta volta siamo annegati, tuttavia, non si esaurisce in un semplice resoconto cronologico delle vicende migratorie. L’opera, ricca e ben strutturata, si presta a una lettura trasversale, aprendosi a interpretazioni profonde e sfaccettate. Personalmente, trovo che al centro di questa analisi emergano tre concetti chiave: la “dismisura”, che svela la portata immane del fenomeno migratorio odierno e le sue conseguenze drammatiche; la “incredulità”, che pone i lettori di fronte a realtà inimmaginabili, a violenze inaudite e a condizioni di vita disumane; la “insostenibilità”, che svela come le politiche migratorie europee creino ostacoli quasi insormontabili per i migranti, costringendoli a intraprendere viaggi pericolosi e a subire trattamenti inumani e come il sistema umanitario internazionale sia spesso inefficace nel rispondere alle loro esigenze e nel lenire le loro sofferenze.

Questi tre elementi si intrecciano indissolubilmente nel libro, dando vita a un quadro desolante eppure necessario, perché scuote le coscienze e interroga sui “valori” della nostra parte di mondo.

Dismisura

In Carnefici e spettatori, Alessandro Dal Lago (2012) mostra come sia impossibile pensare l’incommensurabile: cosa significano cento, mille, diecimila morti? Forse possiamo capirne l’entità numerica, ma non riusciamo a sentirne la vastità umana, perché davanti all’irrappresentabilità della morte di massa perdiamo il senso delle proporzioni. Riferendosi alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, Dal Lago scrive:

«Quando la morte assume simili dimensioni – centinaia di migliaia di vittime in un istante, per non parlare di quelle che moriranno nei giorni e negli anni successivi –, diviene letteralmente invisibile agli occhi di chi non è coinvolto. Non è nemmeno indifferente per noi, come può essere la notizia di un maremoto o di un altro disastro naturale: è un non-fatto, un non-evento, un nulla» (ivi: 158).

carnefici-e-spettatori-1344Per capire realmente certi eventi, la nostra mente ha bisogno di uno spazio di rappresentazione definito, di uno schermo su cui proiettare l’altro; e questo avviene non perché «siamo ottusi o moralmente indifferenti, ma perché un numero non è un volto in cui rispecchiarci» (Dal Lago 2012: 158).

Il 5 gennaio 1997 «il manifesto» titolò “I fantasmi del Mediterraneo. Due navi con a bordo centinaia di clandestini indiani e pakistani si scontrano a Natale nel canale di Sicilia. 283 uomini spariscono nel nulla. I loro compagni arrivano in Grecia e denunciano il fatto. Scattano le ricerche, ma senza risultato. La storia misteriosa di un naufragio possibile nel mare della speranza[3]. Quella notizia fu approfondita solo da Dino Frisullo sul mensile «Narcomafie» [4], ma poi nessun altro vi diede seguito e venne progressivamente dimenticata: si trattava solo di voci, non c’era alcuna prova che un naufragio di tali dimensioni fosse realmente accaduto. O meglio, c’era un documento d’identità scritto in caratteri ignoti, recuperato da un pescatore, ma nelle reti si trova di tutto e nessuno gli diede particolare attenzione, restando una strana storia raccontata nei bar di un paese costiero in provincia di Siracusa.

Dopo quattro anni e mezzo, però, il 15 giugno 2001 il giornalista Giovanni Maria Bellu pubblicò su «La Repubblica» un reportage dal titolo “Il cimitero in fondo al mare. Prova del naufragio fantasma[5], che finalmente rompeva il silenzio e mostrava le immagini del relitto a 108 metri di profondità, davanti al litorale di Portopalo, nella Sicilia sud-orientale. Le riprese del «Rov» («Remote operated vehicle»), un sommergibile acquistato personalmente dal reporter, fecero scalpore e ci furono numerose richieste alle autorità italiane per recuperare ciò che restava, come l’appello dei Premi Nobel Renato Dulbecco, Dario Fo, Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia, ma anche di un centinaio di parlamentari a cui l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi rispose assicurando

«l’intenzione del governo di far svolgere in tempi brevi uno studio tecnico di fattibilità per il recupero del relitto e dei corpi (si sta valutando l’ipotesi di affidare l’intervento alla Marina militare) e […] di erigere un monumento a ricordo della tragedia, un luogo della memoria per i clandestini scomparsi nel Mediterraneo» [6].

giovanni-maria-bellu-i-fantasmi-di-portopalo-strade-blu-mondadori-ed-2004Successivamente, nel 2004, Bellu pubblicò il libro I fantasmi di Portopalo (Mondadori) che ricostruisce quel che avvenne prima e dopo la tragedia, partendo da quel piccolo dettaglio scoperto anni prima dal pescatore Salvatore Lupo: la carta d’identità plastificata di uno dei naufraghi, Anpalagan Ganeshu, un ragazzo di 17 anni dello Sri Lanka, di etnia tamil.

Fu necessaria una “prova tangibile” – un nome e un volto – perché tutti credessero sul serio che in fondo al mare si celava un cimitero con centinaia di vittime annegate la notte di Natale del 1996. Tuttavia, quello resta un solo nome e un solo volto, rispetto alle decine di migliaia di cadaveri di migranti nel mar Mediterraneo, morti tentando la traversata da sud a nord negli ultimi 30 anni.

Questa vertigine della dismisura è presente anche nel libro di Sally Hayden, in cui l’autrice non si limita a narrare le drammatiche vicende dei migranti nel Mediterraneo, ma immerge i lettori in un’analisi profonda e toccante della vastità e complessità di questa crisi globale. L’opera è attraversata dal concetto di “dismisura”, manifestandosi in diverse forme, come l’incommensurabile numero di vite perdute nelle profondità del mare che lasciano dietro di sé famiglie distrutte e sogni infranti:

«Nelle stanzette chiuse a chiave di Khoms Souq al-Khamis, i prigionieri chiedevano sottovoce se qualcuno aveva un telefono in cui poter inserire la loro SIM, in modo da comunicare la cattiva notizia alle famiglie. Molte famiglie morivano per l’angoscia, il padre e la madre, mentre i figli erano in Libia» (ivi: 148).

Oppure l’immensità dei viaggi, in cui le persone intraprendono percorsi estenuanti attraversando deserti, montagne e mari, affrontando pericoli e privazioni inimmaginabili: vere e proprie odissee contemporanee in cui la distanza fisica e psicologica tra queste persone e le loro speranze di un futuro migliore è lampante.

«Siamo rimasti nei centri di detenzione per più di due anni perché volevamo seguire il percorso legale», disse. «Sono venuto in Ruanda perché mi hanno detto che mi avrebbero portato [in Europa] in maniera legale. Ma nessuno sente o capisce che cosa abbiamo passato noi [...]. Resistiamo a tutta la sofferenza e alle torture solo per ottenere quello che vogliamo. Resistiamo a tutto solo per raggiungere i nostri obiettivi» (ivi: 277).

Inoltre, emerge la vastità delle cause sottostanti, perché la crisi migratoria non è un fenomeno isolato, ma è strettamente connessa a complesse questioni globali come la povertà, la guerra, la persecuzione e il cambiamento climatico. In altri termini, oltre le immagini di barconi e naufragi, le radici del problema sono più profonde, ramificate e interconnesse. In più, l’esperienza migratoria ha un forte impatto psicologico ed emotivo: dal trauma alla paura, dall’incertezza al peso emotivo di individui e famiglie costretti a lasciare le loro case e rischiare tutto in cerca di sicurezza.

«Il Sudan era una sosta obbligata per gli abitanti dell’Africa orientale in viaggio verso il Mar Mediterraneo. Fra loro c’erano eritrei in fuga da un servizio militare che era quasi una forma di schiavitù, anche se loro avrebbero detto che stavano fuggendo dall’ignoranza e che cercavano la libertà. Poi c’erano somali che scappavano dalla guerra – o dal gruppo terrorista islamico al-Shabaab ed etiopi) questi erano spesso di etnia Oromo, una tribù sottoposta a repressioni violente dal partito al governo, o Tigrini sfiancati dalla povertà incessante e desiderosi di passare per eritrei, dato che parlavano la stessa lingua, perché così sarebbe stato più semplice richiedere asilo. C’erano anche i (sudanesi sopravvissuti alla pulizia etnica nel Darfur e i sudanesi del Sud, che volevano lasciarsi alle spalle il conflitto catastrofico che aveva dominato la breve vita del loro paese, lo stato più giovane al mondo» (ivi: 38).

La dismisura del fenomeno è determinata anche dall’inadeguatezza delle risposte attuali, la cui miopia e inefficacia è ben espressa dall’ossessione paranoica delle politiche migratorie unicamente orientate al contenimento e alla repressione, piuttosto che alla salvaguardia delle vite e alla tutela dei diritti umani. Il solco tra l’entità della crisi e la scarsità di soluzioni concrete e di lungo termine è stravolgente, considerato anche quanto la determinazione, la forza d’animo e la tenacia dei migranti siano straordinarie nell’affrontare una tale serie di ostacoli e avversità che continuano a interporre tra loro e l’avvenire cui anelano.

Incredulità

In una nota di chiusura del suo libro, Hayden scrive che, nonostante in Europa veniamo continuamente aggiornati sui naufragi nel Mediterraneo e sulle torture e gli abusi perpetrati ai confini del mondo ricco, non prestiamo realmente ascolto e attenzione. Per tale ragione, l’autrice pone alcune domande ai lettori: «Quanto spesso avete cliccato da un’altra parte, chiuso la pagina, cambiato canale? Fino a che punto siamo diventati immuni alla distruzione della vita e al costante fallimento dell’umanità nel porvi rimedio?» (ivi: 368).

r-5834677-1435231218-3619Per una singolare sinapsi, mi è venuta in mente una vecchia canzone italiana sull’emigrazione ottocentesca verso le Americhe, “Mamma mia dammi cento lire” [7], che racconta quanto quei viaggi fossero imprese titaniche. Attraversare oceani immensi su navi rudimentali era un’esperienza che sfidava l’immaginazione. Per questo, anche le storie di chi si avventurava in quei viaggi erano considerate incredibili, quasi favole. Narravano di terre lontane, di opportunità inesauribili e di vite completamente diverse da quelle conosciute e il tutto avveniva in modo tradizionale, ad esempio sotto forma di canti popolari delle mondine. Erano storie vive, che si arricchivano di dettagli e particolari con ogni narrazione. Tuttavia, con il passare del tempo e il cambiamento della società, molte di queste storie sono state dimenticate, divenute quasi reperti di un passato remoto. Proprio “Mamma mia dammi cento lire” ne è un esempio emblematico, dove il duro lavoro nelle risaie di una giovane mondina si intreccia con il sogno di una vita migliore e con l’atto di coraggio e la speranza di lasciare tutto per inseguire un futuro incerto. Eppure, quel canto, così ricco di significato, è spesso sconosciuto alle generazioni contemporanee, dal momento che quei versi raccontano non il successo, bensì il tragico destino della protagonista, perché, «’Pena giunta in alto mare / bastimento si rialzò. / I miei capelli son ricci e belli, / l’acqua del mare li marcirà» [8].

Abbiamo un canto che ci ricorda sacrifici, sfide, coraggio e speranza, eppure non è diventato “memoria collettiva”. Ed è la medesima assenza che emerge dinanzi alle storie di migrazione odierne: se il numero è smisurato, quindi “inconcepibile” per la nostra mente, incontenibile nelle nostre capacità percettive, incredibili sono anche le storie di chi compie il viaggio: le ascoltiamo ormai da decenni, eppure continuiamo a non conoscerle, dunque a credervi. Non so dire se sia un limite cognitivo – come se intervenisse un “blocco di senso”, un’incapacità sociale e individuale a credere in storie di orrore estremo – oppure se sia una carenza di altra natura, ma è ormai assodato che quelle esperienze diventano “reali” molto di rado e solo con l’intervento di un elemento che ridimensioni l’entità dei casi, cioè che li renda più “vicini” e “pensabili”. Lo testimonia un altro libro di grande importanza sul fenomeno migratorio attuale, uscito in Italia nel 2015 per Feltrinelli: La frontiera, di Alessandro Leogrande, in cui il reportage muove da una videocassetta custodita gelosamente da Shorsh, un profugo iraniano, arrivato in Italia durante la prima ondata di profughi curdi in fuga dall’Iraq di Saddam Hussein tra il 1998 e il 1999. Quel documento mostra il massacro del villaggio curdo di Halabja, perpetrato il 16 marzo 1988, nel corso della guerra Iran-Iraq, quando l’esercito iracheno bombardò la città e uccise con delle armi chimiche circa 5000 curdi, più del doppio vennero feriti e molti rimasero per sempre invalidi. Una rappresaglia contro la popolazione curda che, secondo il regime, non aveva frapposto sufficiente resistenza al nemico iraniano.

9788807889714_0_536_0_75Nel libro di Leogrande, ben cinque capitoli si intitolano nello stesso modo: “Vedere, non vedere”, un appellativo che quasi scandisce l’intero volume, a riprova che la nostra consapevolezza della realtà è estremamente parziale, selettiva e frammentaria. Similmente, nel libro di Sally Hayden il senso di incredulità è onnipresente: anche in questo caso la realtà si manifesta attraverso un dettaglio molto concreto, ossia l’arrivo di un messaggio su Facebook, ma chissà se è autentico: «Ciao sorella Sally, ci serve il tuo aiuto. Siamo in prigione in Libia, messi male. Se hai tempo ti racconto tutta la storia».  Da quel momento, la giornalista si trova senza volerlo all’interno di una tragedia, una violazione dei diritti umani di proporzioni epiche e, nel libro che poi ne ha tratto, non si limita a raccontare le sofferenze dei migranti, ma scava a fondo nelle diverse sfaccettature di questo fenomeno, invitando a una riflessione più intensa e critica, evidenziando i vari fattori che rendono quelle storie “incredibili” agli occhi di chi non ne è direttamente coinvolto.

Un primo elemento che genera incredulità è l’inaudita crudeltà e la vastità della sofferenza che i migranti sperimentano durante i loro viaggi e la loro permanenza nei Paesi di accoglienza. Hayden descrive scene di violenza inammissibili, torture, sfruttamento e abusi che sfidano la nostra immaginazione e ci costringono a confrontarci con l’oscurità presente nel mondo.

«Il magazzino poteva contenere fino a 3000 persone. Non c’erano tappeti o materassi in terra per dormire. C’erano solo quattro bagni. Se non riuscivi ad aspettare dovevi fartela addosso e bagnarti [...]. Welid violenta tantissime donne. Separa le coppie e violenta le donne. È anche razzista. Una volta ha detto che i somali non sono persone. Ha mandato dei somali in Italia quando c’era una tempesta nel Mediterraneo. Voleva controllare se poteva mandare i suoi clienti eritrei senza metterli a rischio. Il colmo è che gli eritrei sono stati presi, mentre i somali sono arrivati in Europa. Ci dava da mangiare una volta alla settimana. Quasi non c’era acqua. Ci picchiava regolarmente. Sono stato picchiato per due anni di fila. La mia testa funziona a malapena» (ivi: 55).

L’incredulità può anche derivare dalla distanza culturale che separa chi racconta e chi ascolta. Le differenze di costumi, tradizioni e visioni del mondo possono creare barriere cognitive che ostacolano la comprensione profonda delle esperienze dei migranti. Hayden evidenzia come spesso le persone che si mettono in viaggio da Sud verso Nord siano vittime di stereotipi e pregiudizi che li identificano come un gruppo omogeneo piuttosto che come individui con storie e vissuti unici. Questo approccio distorto impedisce di cogliere la complessità e la singolarità delle loro esperienze e alimenta l’incredulità di fronte a testimonianze che non rientrano nelle aspettative precostituite.

«Uno dei Paesi in cui l’ascesa dell’estrema destra è stata più rilevante e significativa è l’Italia. Tra giugno 2018 e settembre 2019, il leader della Lega Matteo Salvini ricoprì la carica di ministro dell’Interno. Durante il suo mandato, il «Capitano» – definito da «TIME Magazine» «l’uomo più temuto in Europa» – paragonò i migranti africani agli schiavi, dichiarando che sarebbe stato meglio che gli europei fossero tornati a procreare invece di accogliere «nuovi schiavi per soppiantare i figli che non facciamo più»; inoltre, asserì che gli «immigrati» commettevano «700 reati» al giorno» (ivi: 179).

L’esposizione ripetuta a storie di sofferenza e violenza può attivare meccanismi di difesa psicologica che portano a negare o minimizzare la realtà. La mente umana, per proteggersi dall’impatto emotivo di tali storie, può mettere in dubbio la loro veridicità o distanziarsi emotivamente da esse. Hayden descrive la fatica emotiva che lei stessa e gli altri operatori umanitari provano nel confrontarsi quotidianamente con la sofferenza dei migranti. Il rischio di “normalizzare” il dolore e di sviluppare una sorta di cinismo è sempre presente, sottolineando la fragilità della psiche umana di fronte a traumi così profondi.

«A volte non riuscivamo a comprendere la scarsa etica e la mancanza di professionalità e di integrità riscontrabili in persone che dovrebbero portare avanti gli obiettivi umanitari» (ivi: 107).

Un ulteriore elemento che alimenta l’incredulità è la rappresentazione distorta dei migranti nei media. La focalizzazione su immagini sensazionalistiche e storie negative, spesso slegate dal contesto e prive di sfumature, crea un’immagine stereotipata e distorta della realtà migratoria. Alcuni media hanno la tendenza a presentare i migranti come una massa indistinta di persone pericolose o come semplici numeri su cui fare statistiche. Questo approccio disumanizzante contribuisce a diffondere disinformazione e a creare un clima di ostilità e diffidenza verso i migranti, alimentando l’incredulità e la negazione delle loro storie.

mini_magick20190308-3982-12rgkedInsostenibilità

In uno dei suoi saggi sul sistema degli aiuti umanitari post-tsunami in Sri Lanka, Mara Benadusi (2011) analizza in modo incisivo il doppio volto dell’emergenza umanitaria (un “Giano bifronte”), che può essere esteso per comprendere meglio il ruolo e le criticità delle organizzazioni coinvolte nel fenomeno migratorio contemporaneo. In particolare, Benadusi descrive come le ONG e altre organizzazioni umanitarie utilizzino il dolore e la resilienza delle vittime per generare attenzione mediatica e finanziamenti, un meccanismo evidente anche nella gestione delle crisi migratorie, dove le immagini di sofferenza e disperazione dei migranti vengono spesso selezionate per mobilitare risorse e attenzione pubblica. Tuttavia, come Benadusi sottolinea, l’attenzione mediatica è temporanea e svanisce rapidamente quando la crisi si cronicizza. Questo lascia le vittime in una situazione di vulnerabilità permanente, spesso ignorata dai media una volta che l’evento eccezionale è diventato parte del tessuto sociale e politico locale. In altre parole, le vittime di calamità naturali e crisi umanitarie sono inizialmente presentate come vulnerabili, bisognose di aiuto immediato, ma con il passare del tempo la narrativa cambia e queste stesse persone vengono descritte come resilienti, capaci di superare le avversità con coraggio e determinazione. Questa transizione è strategica per mantenere l’interesse e la partecipazione delle controparti internazionali, che passano dal fornire aiuti emergenziali a supportare programmi di sviluppo a lungo termine.

photo20italyÈ bene evidenziare che le ONG svolgono un ruolo cruciale nel fornire soccorso e assistenza ai migranti e ai rifugiati, spesso colmando le lacune lasciate dai governi e dalle istituzioni internazionali. Tuttavia, operano in un contesto complesso e politicamente carico di tensioni. Da un lato, sono indispensabili per garantire assistenza immediata e salvare vite umane; dall’altro, devono navigare tra pressioni politiche, accuse di favorire le reti di traffico umano e le difficoltà nel bilanciare il soccorso con la sostenibilità a lungo termine.

Nel caso del libro di Sally Hayden, organizzazioni internazionali quali l’Unione Europea (UE), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) sono presentate sotto una veste che ne evidenzia complicità e criticità. In particolare, attraverso il suo sostegno alle guardie costiere libiche e altre misure di contenimento, l’Unione Europea ha contribuito a creare condizioni disumane per i migranti, violando spesso i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati del 1951, che proibisce il respingimento di persone verso luoghi dove la loro vita o libertà sarebbero minacciate. La testimonianza di Essey, un ragazzo eritreo protagonista del libro, evidenzia come le politiche dell’UE abbiano contribuito a creare un ambiente dove migliaia di rifugiati rimangono intrappolati in condizioni disumane, soggetti a violenze e abusi nei centri di detenzione libici.

«La UE sa che la Libia è il più grande mercato di esseri umani al mondo, e comunque continua a pagare la Guardia costiera [libica] perché riporti indietro i migranti. La guardia costiera lavora solo per i soldi. Se la UE smette di finanziarla, la guardia costiera lavorerà per i trafficanti […]. Alcune barche riescono ad arrivare in Italia. Pensi che la Guardia costiera non le veda? […] Le guardie lavorano con l’Italia adesso, perché l’Italia dà sempre più soldi» (ivi: 86).

Dal canto loro, l’UNHCR e l’IOM, pur con il mandato di proteggere e assistere i migranti, si trovano spesso in situazioni di compromesso, dove la loro collaborazione con governi e agenzie che praticano respingimenti e detenzioni arbitrarie solleva seri interrogativi etici. L’UNHCR, ad esempio, è stata criticata per la sua incapacità di impedire i respingimenti e le detenzioni arbitrarie in Libia. L’IOM, da parte sua, pur impegnata nel supporto logistico e nel rimpatrio volontario, deve confrontarsi con le accuse di collaborare indirettamente a politiche che favoriscono la detenzione e il respingimento dei migranti.

«Uno dei più ampi squilibri di potere che riesco a immaginare è proprio quello che esiste tra i funzionari dell’UNHCR, che possono concedere lo status di rifugiati, rilasciare la relativa documentazione e perfino far trasferire qualcuno in un altro Stato, e i rifugiati stessi, che sono scappati dai loro Paesi e spesso si ritrovano privati di qualunque diritto legale, senza proprietà o beni personali, senza famiglia e comunità di appartenenza. È uno squilibrio di cui è molto facile approfittare. A Khartum organizzai alcune interviste con rifugiati eritrei ed etiopi. Invece di raccontarmi com’erano fuggiti dall’oppressione e sopravvissuti alle rotte dei traffici umani, volevano tutti parlare dell’UNHCR e di quanto fosse corrotta secondo loro» (ivi: 108-109).

Le ONG giocano un ruolo cruciale nel soccorso e nell’assistenza ai migranti nel Mediterraneo e nei campi di detenzione, sovente colmando le lacune lasciate dai governi e dalle istituzioni internazionali. Tuttavia, come abbiamo detto, operano in un contesto altamente politicizzato e rischioso, dove le loro attività possono essere ostacolate o strumentalizzate da varie parti in conflitto, al punto che più volte sono accusate di favorire indirettamente le reti di trafficanti, un’accusa che evidenzia le difficoltà nel bilanciare l’assistenza umanitaria con le pressioni politiche e legali.

«Io cominciai a chiedere informazioni su International Medical Corps – un’organizzazione istituita nel 1984 con sede a Los Angeles, i cui operatori erano suddivisi in trenta Paesi […] – che, in teoria era responsabile dell’assistenza medica a Zintan [una città del nord-ovest della Libia in cui ha sede un centro di detenzione per migranti irregolari]. Tuttavia sentii dire da più persone che nei centri libici in cui operava l’IMC la salute dei detenuti peggiorava rapidamente. [Un testimone dice:] “All’IMC ci sono dottori molto stupidi, non hanno nessun senso della vita. Prendono un salario. La gente sta morendo”. […] Il lavoro dell’IMC in Libia veniva finanziato dall’UNHCR, dal Fondo fiduciario dell’Unione europea, dal Regno Unito e dalla Germania» (ivi: 232, 234-235).
da OIM un Migration

da OIM un Migration

Il libro di Hayden mette in evidenza come le azioni e le politiche di questi attori, anche se spesso ben intenzionate, possano contribuire direttamente o indirettamente a perpetuare le sofferenze dei migranti. La responsabilità dell’UE è particolarmente significativa, dato il suo ruolo centrale nel finanziamento e nel supporto di pratiche di contenimento. La complicità di organizzazioni come l’UNHCR e l’IOM in queste dinamiche solleva interrogativi su come le istituzioni internazionali possano essere riformate per meglio proteggere i diritti umani.

71ey3nk1lil-_ac_ul600_sr600600_Nonostante il quadro amaro e desolante, il libro di Hayden rappresenta anche un segno di speranza: è un potente richiamo alla responsabilità collettiva, cioè ai «piccoli passi» e alle «misure positive ma minimali» proposte da Luigi Manconi e Valentina Brinis (2013). Allo stesso tempo è un invito urgente a un mutamento di prospettiva – Lampedusa «era un bottone che univa sul mare due continenti diversi», scrive con poetica intensità Davide Enia (2021: 85) – e al cambiamento nelle politiche migratorie, affinché i sogni di migliaia di rifugiati non continuino a infrangersi contro i muri della disumanità e dell’indifferenza. La possibilità stessa di documentare e pubblicare queste storie dimostra la forza della libertà di ricerca, di espressione e di stampa, capace di innescare un dibattito pubblico informato. Questo discorso è fondamentale per promuovere un processo di apprendimento e miglioramento delle politiche migratorie, la cui critica costruttiva può stimolare riforme necessarie affinché i diritti umani siano rispettati in modo più coerente e umanitario. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Riferimenti bibliografici
Bellu, Giovanni Maria (2004): I fantasmi di Portopalo. Natale 1996: la morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia, Mondadori, Milano.
Benadusi, Mara (2011): “Il futuro-presente dell’emergenza umanitaria. Nuove “ricette di intervento” a seguito dello tsunami del 2004”, in Emergenze, preveggenze”, numero monografico di “Quaderno di comunicazione, vol. 12, Mimesis, Milano.
Dal Lago, Alessandro (2012): Carnefici e spettatori, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Del Grande, Gabriele (2023): Il secolo mobile. Storia dell’immigrazione illegale in Europa, Mondadori, Milano.
Enia, Davide (2021): Appunti per un naufragio (Iᵃ ed. 2017), Sellerio, Palermo.
Hayden, Sally (2023): E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al Mediterraneo, Bollati Boringhieri, Torino.
Leogrande, Alessandro (2015): La frontiera, Feltrinelli, Milano.
Manconi, Luigi – Brinis, Valentina (2013): Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati, il Saggiatore, Milano. 

 _____________________________________________________________

Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

_____________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Letture, Migrazioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>