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Le immagini paleolitiche, il mito dell’emergenza originaria e il tracciamento degli animali come origine del pensiero scientifico

Altamira

Altamira

di Francesco Azzarello 

Questo articolo risponde all’invito rivolto al mondo intero dal filosofo Achille Mbembe ad allargare la propria memoria identitaria [1], per uscire dalla crisi politica e ambientale che stiamo vivendo su scala planetaria, attraverso un confronto con i miti cosmogonici ancestrali africani. Considerando che il mito non è creatura da biblioteca ma un racconto per immagini verbali e non (da recepire con tutto il corpo più che con la sola mente) e che riguarda tutti, ho deciso di confrontarmi con il mito — originariamente africano e quindi mondiale — dell’emergenza originaria di animali ed esseri umani da una grotta, che Jean-Loïc Le Quellec ritiene costituisca lo sfondo ideologico delle immagini paleolitiche, le cosiddette prime immagini artistiche dell’umanità.

Perché scegliere questo mito piuttosto che uno ancora documentabile nella memoria di qualunque popolo africano ancora circolante? Innanzitutto per collocare subito la riflessione sul piano dell’universale (non solo su quello del finzionale, come accadrebbe con tutti gli altri) essendo il passato a cui questo mito rimanda patrimonio (subcosciente) di tutti ma di nessuno in particolare. Questo secondo aspetto permetteva, fra l’altro, a livello pratico di allontanare dal tavolo della discussione tanto possibili obiezioni aprioristiche (dettate da sentimenti non troppo nobili ma umani) che sospetti di esotismo. Scegliendo un mito comune ma paleolitico (passato, scomparso) mi è sembrato insomma di funzionalizzare al meglio la carica di inattualità, implicita nel mito come forma simbolica, con tutto il suo veleno [2].

Chauvet

Chauvet

Perché questo confronto avesse una qualche sostanza (in ovvia assenza di testi scritti dell’epoca) l’unico modo di avvicinarsi al tema mi è sembrato quello di partire dalle immagini stesse. I paragrafi 1 e 2 chiariscono cosa intenda per immagini paleolitiche e quindi le situano brevemente nel contesto storico ed epistemico all’interno del quale sono state prodotte. Non contengono nuove informazioni ma quelle necessarie per seguire facilmente l’argomentazione posteriore. Lettori e lettrici già edott* al riguardo vogliano pertanto perdonarmi questi dati che potrebbe loro risultare già noti e saltino direttamente al paragrafo 3 che cerca di tirare le somme sull’intera produzione figurativa paleolitica. Il paragrafo 4 presenta il mito dell’emergenza originaria sia a livello generale che nel dettaglio di un sito concreto (la grotta di Pergouset), anche per dargli (al mito) il massimo possibile di una (comunque improbabile) veste esperienziale.

Lascaux

Lascaux

A partire dalla cosiddetta rivoluzione neolitica la produzione figurativa umana cambia radicalmente. Il filosofo Philip Grosos ha interpretato questa svolta figurativa come sintomo di un cambiamento radicale di visione del mondo: dall’essere, come tutti gli altri, semplici inquilini che partecipano alla vicenda planetaria gli esseri umani hanno preso a determinarne il corso affermando la propria presenza nelle immagini e fuori di esse fino a sviluppare in Grecia la più antropocentrica di tutte le discipline: la filosofia, ovvero la scienza. Il paragrafo 5 presenta brevemente il punto di vista di Grosos. Il filosofo, mentre propone di integrare la Preistoria nel lavoro filosofico, si chiede se il modo presenziale di stare al mondo che ci è proprio (con le conseguenze che tutti e tutte conosciamo e che hanno indotto Mbembe a invitarci al confronto con i miti ancestrali africani) possa mai diventare post-presenziale e quali contorni questa nuova visione del mondo potrebbe mai avere. Il paragrafo 6, che conclude (con molta prudenza) l’articolo, raccoglie questa sfida e partendo dal legato mitico dell’emergenza originaria inizia a delineare una risposta: innanzitutto portando la riflessione su altre pratiche discorsive paleolitiche (ahimè anche loro mute come quella mitica) e quindi considerando (sulla base del lavoro antropologico di Louis Liebenberg e di Nastassja Martin con cacciatori-raccoglitori africani e nordamericani) il rapporto di parentela fra la caccia (fra tracciamento degli animali e violenza) e la scienza. 

Temo, a lavoro finito, di aver molti più dubbi che certezze di prima. Ma tant’è. 

Bifacciale, Abbéville, Musée Boucher de Perthes

Bifacciale, Abbéville, Musée Boucher de Perthes

1 Le immagini paleolitiche come cultura materiale 

Vulgata giornalistica a parte, parlare di immagini paleolitiche significa parlare di artefatti ovvero di lasciti materiali intenzionalmente prodotti da diverse culture del Paleolitico superiore [3]: utensili, immagini dipinte o disegnate in caverne e rifugi, bassorilievi di vario tipo e sculture vere e proprie, prodotti dai nostri antenati sapiens sapiens fra 40.000 e 10.000 anni fa (o giù di lì). Strumenti per il taglio e la lavorazione di risorse ambientali (minerali, vegetali e organiche), lampade, propulsori balistici, ami da pesca ecc. ma anche quei dipinti e quei disegni che richiamano alla mente luoghi come Altamira, Lascaux o Chauvet. Ed è di oggetti di questo genere che parlerò soprattutto, ovvero di quelle immagini che nei manuali di antropologia e storia (dell’arte) corrispondono alla cosiddetta rivoluzione simbolica — e rivoluzione non vuol dire invenzione — e vengono indicate come le prime immagini artistiche mai prodotte dall’umanità. È ovvio che come tutte le etichette anche questi titoli vanno presi con molta diffidenza. Non sono certo io il primo a dirlo e ogni manuale che si rispetti tende a mettere le mani avanti [4]. In particolare per quanto attiene al lato artistico della questione va tenuto presente che 

a) questi artefatti che a noi sembrano i primi anelli, esotici e misteriosi, di una lunga catena che crediamo di conoscere molto bene (quando ne conosciamo soltanto, e male, l‘estremità a noi più vicina) sono sicuramente a loro volta risultato di un processo molto lungo, talmente distante da noi da potersi serenamente affermare che non ne sappiamo (e forse mai ne sapremo) quasi un bel niente. 

b) Le uniche immagini paleolitiche che conosciamo sono sicuramente solo alcune di quelle che furono realizzate. E sono state quelle che conosciamo, tutte realizzate in materiali o su supporti duraturi (pareti rocciose, pietra, terracotta, avorio, osso). Può darsi benissimo che altri artefatti, di tutt’altri soggetto ed effetto, siano semplicemente stati realizzati su o con materiali deperibili (cuoio, legno…) e siano dunque andati perduti. 

c) Infine: le prime immagini artistiche sono, ovviamente, artistiche per noi ma potevano benissimo non esserlo per chi le ha prodotte. Non è affatto detto che chi ci ha preceduto non facesse arte in altro modo o facesse tutt’altro che arte con queste immagini. 

Soggetti animali , Rouffignac

Soggetti animali, Rouffignac

In altri termini: le cosiddette prime immagini artistiche umane potrebbero benissimo essere o non essere artistiche, essere o non essere le prime o le sole prodotte da chi ci ha preceduto. Tenendo conto di questa incertezza, se quel che resta può essere a buon diritto visto come un sintomo di aumentata complessità nell’attività psichica umana, sarebbe ingiusto nei confronti degli umani e delle umane non sapiens che ci hanno preceduto (e che in parte potrebbero aver persino visto fisicamente allora quel che noi conosciamo soltanto da 150 anni circa) considerare la capacità di immaginare — cioè produrre mentalmente e materialmente delle immagini e quindi gestirle all’interno del mondo che esse stesse contribuiscono a generare — esclusiva dei e delle sapiens [5]: l’umanità produce oggetti da più di tre milioni di anni (da molto prima cioè dell’avvento dei e delle sapiens, fra 200.000 e 150.000 anni fa) [6]. Da 1 milione e mezzo di anni lo facciamo anche in forme regolari e, come si legge spesso, inutilmente simmetriche. Non so se si possa veramente parlare in questo contesto di inutilità (supposta condizione necessaria e sufficiente per parlare di arte). Se ci si limita all’aspetto funzionale probabilmente sì (una pietra tagliente può essere efficace anche se è affilata da un solo lato) ma forse producendo oggetti simmetrici i e le nostre antenat* non sapiens cercavano anche di ottimizzarle per il trasporto o lo stoccaggio, cercavano insomma di aumentare l’efficienza contestuale in senso ampio (p.e. anche quella didattica), forse persino la riconoscibilità, l’evidenza semantica. In ogni caso è grazie alla simmetria che possiamo affermare con certezza che i nostri e le nostre antenat* non sapiens perseguivano una forma che preesisteva all’oggetto che volevano fabbricare. Possiamo cioè parlare di immagini.

Soggetti esseri umani, Venus Hohlefels

Soggetti esseri umani, Venus Hohlefels

500.000 anni fa, in Indonesia un homo erectus (uomo o donna) ha inciso dei segni regolari su una conchiglia [7]. E forse, sempre degli e delle erectus 400.000 anni fa hanno osservato una certa analogia con una forma umana in alcune pietre e hanno deciso di accentuarla. In un caso, forse, anche colorandola[8]. Le perle perforate (per farne delle collane o dei bracciali o altri ornamenti) di neanderthal e sapiens testimoniano infine di una chiara voglia di produrre un’immagine non solo dell’oggetto da (ri-)produrre ma anche della persona che avrebbe portato quegli ornamenti [9]. Le forme di cultura materiale tendono, com’è noto, a diventare rapidamente identitarie, nel senso che chi nasce all’interno del gruppo che le ha prodotte o assunte (e comunque ne dispone) ha insomma l’esigenza non solo di venire a capo dei rapporti sociali che gli/le sono toccati in sorte (ovvero di cooperare con gli individui del suo gruppo, come avverrebbe fra gli altri primati) ma anche di saper gestire quegli artefatti: capirli, usarli, riprodurli, insegnare a riprodurli in maniera (possibilmente) identica. Quegli oggetti (quelle immagini) compaiono in riti, gesti e storie che fanno la vita di quelle persone. La forma preesiste alloggetto anche nel senso che si realizza lo stesso oggetto — per esempio un bifacciale — in tanti modi diversi quanti gruppi umani ne fabbricano, tendendo ogni gruppo a realizzarli in una forma riconoscibile come propria. 

2 Di cosa parlano le immagini paleolitiche 

Chiarito di cosa sto parlando, quali difficoltà siano legate al tema, nonché il fatto che la capacità di usare le immagini preesiste abbondantemente a noi sapiens, dovrei a questo punto cercare di descriverle fisicamente. Non è facilissimo perché si tratta di un insieme abbastanza eterogeneo di immagini che possono esser dipinte, disegnate, incise in grotte o rifugi oppure scolpite (dunque mobili, come un ciondolo o una statuetta). Stando al calcolo di Clifford e Bahn queste immagini provengono da ben 450 siti più o meno riccamente decorati e sono state prodotte in circa 30.000 anni [10]. Impossibile nello spazio di un articolo presentarne l’intero corpus a nostra disposizione. Darne degli esempi risulterebbe lungo e riduttivo. Affidandomi alla cooperazione di chi sta leggendo cerco di chiarire piuttosto cosa queste immagini nella loro interezza ci dicono della vita materiale e spirituale (mentale) dei nostri antenati e delle nostre antenate [11]. Certo: come hanno giustamente osservato Lorblanchet e Le Quellec ogni tentativo di risposta universale a quest’interrogativo (il tentativo, insomma, di opporre sempre una tesi, sempre la stessa, onnicomprensiva alla domanda che significa quest’immagine qui?) si è rivelato vano di fronte all’eterogeneità funzionale (e semantica) del corpus [12]. Come procedere dunque? Assumendo una prospettiva più alta ma al contempo più umile cioè proponendo una sintesi che abbia l’ambizione di portare avanti chi la medita ma che non pretende di rifiutare a priori distinzioni di fronte a ogni singola figura. Mi sembra di aver trovato traccia di un approccio simile in Jean-Paul Demoule (ivi: 57-60). Qui alcune sue osservazioni riguardanti l’intero corpus (e in particolare gli aspetti: contenuto, contesto e stile delle immagini), alcuni punti fermi che, con qualche mia glossa, ritengo condivisibili (oltre che necessari) tanto per avere un’idea non troppo falsa delle immagini paleolitiche che per proseguire nella lettura di questo articolo. 

Mani negative, Rouffignac

Mani negative, Rouffignac

2. Il contenuto: che soggetti rappresentano queste immagini? 

Animali, esseri umani e segni astratti. La rappresentazione dell’umano è rarissima e stilisticamente reticente. Soprattutto si possono trovare donne, realizzate schematicamente, esagerandone i caratteri sessuali esterni oltre alle celebri mani femminili, maschili e infantili, positive e negative, alle digitazioni a tocco (con la punta delle dita o il polpastrello) o a striscio. A parte il genere biologico non si riconosce nulla o quasi di chi è rappresentat*. Abbondano invece le rappresentazioni di animali (p.e. cavalli, leoni o bisonti), specialmente quelle di animali pericolosi. Esistono anche numerosi segni astratti, di difficile significazione, ma ricorrenti in diversi siti. 

2.2 Il contesto 

Gli spazi in cui compaiono queste immagini sono spazi organizzati (tanto le grotte che i rifugi). I luoghi (vuoi per natura propria, vuoi per collocazione spaziale) sono importanti almeno quanto le figure stesse. C’è una stretta relazione fra gli oggetti rappresentati (le figure) e quelli naturali (le pareti) su cui si trovano. Questi oggetti naturali non si limitano al ruolo di supporto facendo spesso essi stessi parte della figura [13]. Come osserva Michel Lorblanchet (2020: 168): «Les créatures naissent des replis de la roche». 

Oggetti naturali consustanziali alla figura, Chauvet

Oggetti naturali consustanziali alla figura, Chauvet

2.3 Gli stili 

Diversi ma non infiniti. È normale che in 30 millenni circa ci siano state delle evoluzioni stilistiche o tematiche e che sia possibile osservarle: i siti venivano frequentati ciclicamente. Tanto nelle grotte che nei rifugi le immagini vengono spesso ritoccate o cancellate e ricoperte con altre immagini di soggetto (spesso animale) diverso [14]. 

2.4 Summa summarum 

Fra cosiddette Venus ipertrofiche e senza volto, differenze sessuali esplicite o implicite (vi alluderebbero, nel secondo caso, coppie di animali complementari [15]), l’interesse per gli animali più pericolosi e il disinteresse per quelli inoffensivi (o legati all’alimentazione più routinaria) queste immagini, osserva Demoule (ivi: 86 s.) ci parlano – non troppo sorprendentemente – soprattutto di sessualità (cioè non solo di fecondità [16]) e di morte. Secondo Demoule arrivando in Europa 40.000 anni fa circa, l’umanità sapiens si sarebbe adattata tecnicamente e socialmente al clima glaciale che trovava (l’Europa, priva di foreste, assomigliava alle grandi praterie americane dei film western), costruendo tanto armi che solidarietà e alleanze a grande distanza e istituendo luoghi di riunione comuni (le grotte sarebbero dunque dei santuari, laddove i rifugi resterebbero luoghi del quotidiano) dove rinnovare ritualmente dette solidarietà e alleanze. Le immagini di cui stiamo parlando, ritiene lo studioso, strutturerebbero quella nuova visione del mondo e sarebbero emerse per dare un supporto materiale, visibile (ed esperibile, vedremo, a più livelli) e trasmissibile a ciò che costituisce il cuore del legame sociale (sia interno a un gruppo che fra gruppi alleati): la sessualità e la morte [17]. 

Lampada, Les Eyzies-de-Tayac, Musée national de la Préhistoire

Lampada, Les Eyzies-de-Tayac, Musée national de la Préhistoire

3. Una precisazione: le immagini non parlano da sole 

Come osserva Lorblanchet (2020: 167) le immagini parietali paleolitiche erano associate à tout le domaine de l’oralité[18]. Erano cioè molto verosimilmente unite ad altri codici comunicativi tecnicamente capaci di articolarsi espressivamente attraverso il corpo del destinatario [19]: 

a) il verbale attraverso il racconto o la drammatizzazione di miti; 

b) il musicale: oltre alla risonanza generale dei volumi delle cavità – a Cougnac p.e. le qualità acustiche del sito sono tali che dal fondo della grotta è possibile cantando farsi sentire dappertutto –, attraverso i suoni cristallini emessi dalla percussione delle stalattiti. In alcune grotte ci sono tracce di uso regolare di alcuni di questi elementi. A Pech-Merle e ai Fieux sono stati trovati dei veri e propri litofoni, ovvero degli strumenti musicali, a Pech-Merle persino un gong. La presenza temporanea di acqua (a Pech-Merle si formava persino una cascata) doveva anche lei contribuire al concerto [20]; 

c) Il visuale e l’olfattivo: le grotte sono luoghi assolutamente oscuri. Il contrasto di luce e ombra era certamente troppo a portata di mano per non sfruttarlo. Le lampade che illuminavano le immagini, con la loro luce dinamica, erano alimentate da grasso animale e frammenti secchi di arbusti. Nelle grotte studiate da Lorblanchet le analisi dei pollini hanno rivelato resti di ginepro, pianta la cui breve combustione oltre a una breve fiammata produce un profumo molto penetrante. 

Grotte du Grand Roc, Les Eyzies. Questa grotta non decorata ma dalla foto è possibile apprezzare il lavoro necessario pe rendere una grotta utilizzabile da più persone

Grotte du Grand Roc, Les Eyzies. Grotta non decorata ma dalla foto è possibile apprezzare il lavoro necessario per rendere una grotta utilizzabile da più persone

A questa volontà di comunicazione multisensoriale, in parte, si deve certamente anche lo sforzo fatto dai nostri e dalle nostre antenate per organizzare lo spazio nelle grotte. Alcune “sale” sono state “liberate” da stalattiti ingombranti, le pareti sono state (ritualmente) preparate per la decorazione e quindi decorate: a Cougnac dal centro della grande sala del fondo della grotta è possibile vedere, inquadrato da due colonne naturali, uno stambecco dipinto. Per assicurare la riuscita performativa di questo effetto visuale le colonne sono state evidenziate con ocra. Tutti questi sforzi considerati, si capisce bene tanto il bisogno che la sensatezza della continua frequentazione di molte grotte, del ritocco, restauro e cancellazione di molte immagini per immettervi delle nuove. E l’idea che questi artisti fossero degli specialisti risulta di conseguenza del tutto verosimile, specie tenendo conto della difficoltà di esecuzione di certi dipinti, anche molto grandi (uno degli uri di Lascaux misura più di 5 metri) realizzati in spazi angusti o molto alti, bisognosi quindi di traversine da trasportare dall’esterno nello spazio ridotto e incerto della grotta [21]. Ed è infine chiaro che tutta questa carica estetica multisensoriale fatta di parole, suoni, luci, odori ecc. serviva all’efficacia immediata e di lunga durata dei riti: i riti e le storie mitiche che li accompagnavano dovevano sicuramente restare ben impressi nella memoria di coloro che ne erano i e le destinatari* [22]. 

4. Il mito del Paleolitico (genitivo soggettivo) 

Ma di quale mito si trattava [23]? In assenza di testi, nel buio semicompleto di un tempo così lungo e lontano, non si possono fare altro che congetture. Fra le tante quella più articolata (e per me, tutto sommato e con molta prudenza, la più convincente) l’ha fatta Jean-Löic Le Quellec (ivi: 617): 

«Si l’art des cavernes entretient bien un rapport avec une mythologie, il s’agit de repérer, dans l’océan des histoires, un mythe parlant de grotte et d’animaux, secondairement d’humains plus ou moins complets, plus ou moins animalisés, et dont nous ne pourrions tenter de démontrer qu’il s’agit d’un récit remontant au moins à l’époque où œuvraient les artistes paléolithiques. Après inventaire, il n’existe guère qu’un seul candidat: le mythe de l’Émergence primordiale». 

Che cos’è? Risponde Le Quellec (ibidem): «[…] un type de récit expliquant que les humains et les animaux vivaient autrefois sous terre, mais qu’ils sortirent au jour pour se disperser à la surface du globe». Le Quellec sta parlando di un mythe capital (ivi: 709) un mito cioè (come i punti di fermi di Demoule, v. 2.1-3) più contestuale che testuale, ovvero distribuito in diversa misura in una miriade di narrazioni mitiche su tutto il globo. Verosimilmente si tratta di un mito nato in Africa Australe 100.000 anni fa circa. Di conseguenza è difficile da reperire con certezza e univocità in ogni singola serie di figure (le figure che conosciamo sono più giovani di 60 o 70.000 anni) ma in certa misura è presente più o meno in tutte le serie figurative (e diacronicamente anche, con tutte le sue non poche varianti [24]) e, per quanto ne possiamo sapere, visto che di mito si tratta (ovvero di racconto che chiama alla propria esperienza e alla propria reiterazione), lo possiamo immaginare ancor più presente nella vita dei nostri e delle nostre antenate. Per chiarezza (e anche per renderne il più possibile l’aspetto esperienziale) ecco un esempio abbastanza dettagliato. 

Realismo, Cavallo, Rouffignac

Realismo, Cavallo, Rouffignac

4.1 Un esempio 

Grotta di Pergouset (Francia) [25]: 17-18.000 anni fa. 153 figurazioni parietali. Un condotto di 190 metri di lunghezza, in parte occupato da un ruscello sotterraneo. Sembrerebbe un santuario, organizzato a partire dal fondo verso l’entrata della grotta. Nel punto più profondo della grotta un fiume sotterraneo attivo (lo era già all’epoca). Un po’ più su un pesce sorge dalla roccia: è lungo più di due metri e mezzo ma soltanto la testa è stata incisa (il resto sorge dalla morfologia della roccia). Ancora più su una vulva dal semplice contorno grosso modo triangolare. Procedendo ancora verso l’esterno il settore mediano è ornato da creature immaginarie che sorgono dalle rocce. Lorblanchet le chiama così: les monstres. Si tratta di amalgami di parti di animali molto eterogenei (cavalli, cervi, uccelli…). Secondo lo studioso a essere rappresentata sarebbe qui la fantaisie créatrice de la nature nel libero esercizio del proprio potere. Queste creature improbabili, accennate nella e dalla roccia, sarebbero (epiteto nonostante) pleines de poesie et d’humour.

Continua, non senza una comprensibile enfasi, lo studioso: «la grotte semble enfanter un monde incertain et surprenant!». Procedendo ancora verso l’uscita le creature si moltiplicano e aumentano di realismo: stambecchi, cavalli, cervi, bisonti. Qualche segno geometrico. Al centro di una parete, disposta in modo da completare un rigonfiamento della roccia che potrebbe suggerire un ventre gravido, una seconda vulva (più dettagliata della prima). Come se, commenta lo studioso, fosse la grotta stessa a partorire. Di fronte Lorblanchet rileva l’immagine di un principe mâle in un corpo umano provvisto di pene ma sprovvisto di testa (secondo Lorblanchet per significare che si tratta di uno spirito e non di una persona concreta, un principio appunto). Nel settore più vicino all’entrata (pieno di anfratti abbastanza angusti alle pareti) aumenta tanto il numero di incisioni che il realismo delle stesse. Lorblanchet ne sottolinea la precisione dei dettagli anatomici e il realismo dei gesti.

Ma non era il settore più stretto? Di certo era quello meno accessibile alla vista e quello meno facile da ornare (se la decorazione c’entra qualcosa in questa faccenda). In certi punti l’incisore aveva al massimo una ventina di centimetri per articolare il gesto. Eppure il realismo è sorprendente: di un cavallo realizzato in una stretta nicchia è figurato persino il soffio (e la roccia stessa fornisce altri dettagli determinanti nel significare la vitalità della creatura). Si trattava di illudere qualcuno della presenza di un cavallo? Se è così non doveva trattarsi di un’illusione ottica.

 La figura, con ogni evidenza, non era destinata a essere vista. Doveva semplicemente affermare la propria esistenza in uno dei luoghi più secrets della grotta. In mezzo ai soggetti più belli e vicinissima all’entrata (che è ormai chiaramente un’uscita non troppo metaforica) una terza vulva, incisa intorno a un buco ovale e profondo cui è inciso intorno un triangolo. Intorno a questa terza vulva il numero di figure aumenta. L’ultimo, le plus proche de la lumière du jour, è uno stambecco rappresentato con estremo realismo. Tanto realismo, ahinoi, da essere visibilmente trafitto da una lancia [26]. 

Progressiva animalizzazione della donna,Cussac, altro esempio di figura femminile dai tratti animaleschi

Progressiva animalizzazione della donna, ,Cussac

4.2 Emergenza primordiale comune e violenza 

Emergenza primordiale vuol dire dunque che tutti gli animali che il fondo della terra produce esistono perché gli esseri umani possano eventualmente farne bottino, come se i primi fossero esseri inferiori ai secondi? Non esattamente: lo stambecco trafitto di Pergouset sembra più l’indizio di una prassi (quella di cacciare) piuttosto che l’emblema di una classificazione onto-/biologica con l’umanità in testa. Nella grotta di Pech-Merle (Francia [27]) p.e., nella cosiddetta grande volta Lorblanchet riconosce in un ghirigori di tracce digitali (disegni col dito) tre copule fra tre donne e tre mammut. Le tre copule dimostrano una progressiva umanizzazione del mammut e una progressiva animalizzazione della donna. Lo studioso interpreta il tutto come una rappresentazione della comune creazione di tutti gli esseri: umani e non [28].

Che anche la terra stessa avesse un ruolo in questa faccenda oltre a quello di origine e fine di tutto il vivente  — essendo il sottosuolo nel mito il regno di chi è defunto — o che così la vedessero le comunità umane che hanno prodotto quei siti e, ancora, che questo ruolo fosse immaginabile ovvero dicibile, traducibile con un arbitrario decreto umano (potenzialmente applicabile dappertutto) in immagini, lo dimostrano non solo le tantissime figure pervenuteci che sfruttano/interpretano figurativamente la materia stessa della roccia in situ ma anche casi più clamorosi come la cosiddetta galleria di Combel (sempre a Pech-Merle) in cui la volta di una piccola sala è decorata da una numerosa serie di gibbosità decorate in modo da sembrare seni, accompagnate da incisioni che figurano teste e corpi di megaceri (cervi giganti), cavalli, stambecchi e mammut [29].

Osserva lo studioso (portando avanti un po’ il discorso): «Cet ensemble témoigne, semble-t-il, d’une conception holistique du monde vivant, qui paraît conçu comm’un tout, où les espèces animales sont liées et où l’homme — ou plutôt la femme — occupe la place centrale de source de vie». Non so se per femme qui Lorblanchet intenda femme umana, come sembrerebbe, quanto piuttosto il femminile. D’altra parte è lui stesso, parlando di tutte le grotte che ha studiato (tutte le grotte del Quercy, non solo quella di Pech-Merle) e di tutte le varianti del mito dell’emergenza originaria apparentemente divergenti ma sostanzialmente affini, a concludere: 

«Il se dégage de toutes ces allégories de la naissance de la vie l’impression d’un monde où toutes les créatures sont réunis, où l’homme se considère comme faisant partie du vaste ensemble de la nature ; ce n’est que bien plus tard avec l’apparition de l’agriculture qu’il commencera à se considérer progressivement comme le maître des animaux et du monde et l’on verra alors apparaître des scènes de guerre et de chasse dans l’art néolithique du Levant espagnol!». 
Figure umane trafitte, Chauvet

Figure umane trafitte, Chauvet

Naturalmente Lorblanchet non pensa che i e le nostre antenat* non cacciassero animali (o non usassero violenza) prima del neolitico. È lui stesso p.e. a parlare (2020:160-165) di sacrifice o homicide per le uniche tre figure umane (si trovano a Pech-Merle e Cougnac e sono figure maschili e non sciamaniche [30]) trafitte da lance che conosciamo in tutto il Paleolitico. Altrove (2020: 171) parlerà a proposito di queste tre figure di contrepoint alla vie paisible della fine del Paleolitico, di face d’ombre, de mal et des souffrances anche se, ammette, queste figure guardano ancora molto del loro mistero. Quando parla dell’iconologia violenta del Neolitico sta semplicemente sostenendo (enfasi nonostante) che prima del Neolitico gli esseri umani non rappresentavano se stessi nell’atto del cacciare o del fare la guerra. Difficile dire, sensatamente, di più. 

Ain Ghazal, Giordania (7.250 a.C.)

Ain Ghazal, Giordania (7.250 a.C.)

5. La filosofia del neolitico (genitivo un po’ più soggettivo) 

L’irruzione massiccia dell’essere umano nell’iconologia del neolitico è, peraltro, ben documentata e studiata. E corrisponde a una vera e propria rivoluzione valoriale. Per il Levante spagnolo Lya Dams p.e. ha calcolato che l’arte rupestre neolitica di quella zona (7.000-5.000 anni fa) presenta poco più rappresentazioni umane che animali (nel paleolitico la ratio era di gran lunga a favore degli animali). I segni astratti si riducono notevolmente ma soprattutto, fra gli esseri umani, gli uomini rispetto alle donne sono sovrarappresentati (oltre il 95%!) [31]. Se le immagini paleolitiche celebravano la vita animale (e quella umana) come – per usare il termine con cui la descrive il filosofo Philipp Grosos [32]selvaggia (cioè sessuata e mortale, glossando il termine di Grosos con le riflessioni di Demoule) quelle neolitiche sembrano concentrarsi sulla violenza sessualmente monopolizzata (guerra e caccia come soggetti visibili e a targa maschile) [33]. Grosos, riesumando un termine dell’etnologo tedesco Leo Frobenius, chiama la visione del mondo paleolitica, che si evince dal confronto della propria iconologia con quella neolitica, partecipativa. L‘essere umano del Paleolitico si affermerebbe insomma vivente fra i viventi… e nulla più. La visione del mondo del Neolitico sarebbe invece presenziale: l‘essere umano avrebbe bisogno di esprimere il suo pre-valere sugli altri viventi, considerando la propria esistenza (la propria presenza) speciale, talmente speciale da orientare il resto del vivente al proprio operare [34]. Mentre la visione del mondo partecipativa affermerebbe in senso fusionale la potenza di tutto il vivente, quella presenziale, tendendo alla dissociazione, celebrerebbe la forza dell’esistente, ovvero di ciò che tende a staccarsi dal fondo (come una figura, dipinta o scolpita che emergendo da una parete, toglie sempre più importanza al fondo da cui promana fino a farlo sparire del tutto dalla coscienza che lo considera [35].

Alla rivoluzione neolitica (invenzione dell‘agricoltura, domesticazione degli animali, sedentarizzazione, aumento demografico [36]) corrisponderebbero a partire da questo cambio di visione del mondo, la svalutazione progressiva dell’animale e la sovravalutazione progressiva dell’umano (il culto degli avi e della physis, l’antropocentrismo maschilista estremo di stampo greco e la nascita della filosofia sarebbero il punto algido di questo processo [37]), l‘invenzione della scrittura (con le conseguenti fossilizzazione del mito e svalutazione progressiva dell’esperienza) e la nascita del monoteismo. 

1ere-de-couv6. Un postpresenzialismo per una nuova partecipazione? Qualche conseguenza 

Grosos si chiede se questo modo presenziale di stare al mondo (le cui conseguenze sarebbero il naturalismo in senso descoliano con la crisi ambientale che secondo l’antropologo ne deriva [38]) possa mai diventare post-presenziale e quali contorni questa nuova visone del mondo potrebbe avere. E sa benissimo che non esistono altri strumenti se non quelli filosofici (peccati originali nonostante) per affrontare la questione. Ma tutto il suo lavoro è volto a indicare la necessità dell’integrazione della Preistoria, della sua visione del mondo e quindi anche dei suoi miti (non di quelli greci) nel lavoro filosofico [39]. Sembrerebbe insomma naturale andare a cercare l’antidoto al presenzialismo neolitico nelle proposte di vita partecipativa del Paleolitico. Ora: come ho cercato di mostrare raccogliendo l’invito di Mbembe l’orizzonte mitico dell’emergenza primordiale (il mito del Paleolitico) racconta sicuramente di una visione del mondo partecipativa. Non soltanto la vita umana e quella animale hanno la stessa origine (e fanno la stessa fine) ma dal punto di vista semantico sono, per così dire sinonime: entrambe condividono i tratti – mente a Demoule – “sessuale” e “mortale”. Nessuno è in grado di dire come le lingue paleolitiche interpretassero questa sinonimia lessicalmente, se avevano cioè parole diverse per designare esseri umani ed esseri di altro tipo, e se questo era il caso con quale estensione (designavano tutti gli animali con un solo termine? O alcune specie con un termine e altre con un altro?). Quel che è certo è che (al di fuori del mito, che aveva comunque un piano di articolazione esperienziale, attraverso i riti, molto importante) la vita umana e la vita animale erano sensibilmente più vicine, più intime di quanto potranno mai esserlo oggi. Gli animali erano parte essenziale della vita umana quotidiana non solo come collaboratori e accompagnatori (la domesticazione del lupo è già in corso anche se non è ancora terminata [40]) ma anche come materie per artefatti di ogni tipo: alimenti, vestiti, materiali architettonici e strumenti tecnici. E se in queste situazioni gli esseri umani potevano sentirsi in qualche modo superiori agli animali (che mangiavano e usavano in ogni modo), i rapporti dovevano essere ben altri tanto nell’osservazione fisica che nella caccia. 

71fothp1t4l-_ac_uf10001000_ql80_6.1 Agentività animale e competenza comunicativa non simbolica 

A giudicare dai disegni e dai dipinti molti animali dovevano sembrare loro enormi e potentissimi (e lo erano: l’estensione delle corna di un megacero poteva superare i tre metri) ma soprattutto pieni di personalità o, come si dice oggi, di agentività (o soggettività). Difficile dire se i nostri antenati e le nostre antenate fossero animisti o totemisti (o entrambe le cose o nessuna [41]) ma le storie dipinte (p.e. a Chauvet) suggeriscono per lo meno una reciproca “teoria della mente”, una lettura da parte di chi osserva della vita interiore di chi è osservat* e viceversa. Questo reciproco prendersi le misure mentale presuppone (e sfocia) nell’interazione (in) una competenza comunicativa non simbolica (ovvero iconica e indicale, secondo la tipologia peirceana) simile a quella descritta da Eduardo Kohn nel suo celebre How Forests Think: Toward an Anthropology Beyond the Human. Una condizione comunicativa analoga, per intenderci, a quella di chi per richiamare un gatto ricorre a rumori che gli sono familiari (p.e. l’apertura della confezione del suo cibo) o a quella del gatto che quando ci vuole richiamare prende a strofinarsi sulle nostre gambe o a fare le fusa. In entrambe le situazioni i partner comunicativi possiedono agentività ovvero a) sono liberi di esprimersi quando e se lo vogliono b) sanno come dire quel che vogliono dire c) sono sicuri di essere intesi e di poter intendere se l’altro ha inteso e infine d) sanno benissimo che l’altro, una volta inteso il messaggio, potrebbe benissimo ignorarlo. Sono entrambi liberi di rendersi invisibili all’altro. 

519l3on21zl-_ac_uf10001000_ql80_6.2 Agentività, libertà e incertezza nella caccia 

L’ agentività animale era assai probabilmente presupposta dagli esseri umani anche nella caccia. Nastassja Martin (2022) ha rilevato nelle storie di caccia dei Gwich’in (cacciatori dell’alto Yukon in Alaska, che ha studiato sul campo) relazioni fra essere umani e animali di grande incertezza e sostanzialmente reversibili. Per esempio in una storia che parafraso dalla parafrasi che ne offre Martin (fedelmente per il virgolettato che traduco e abbastanza fedelmente per il resto e che per questo non contrassegno con le virgolette dovute) [42] 

Un cacciatore che non prendeva nulla da molto tempo vede in autunno tutte le sere un alce ma non riesce a prenderlo (mentre gli altri tornano a casa carichi di selvaggina). Un mattino, in preda alla collera dice alla moglie: «Se oggi non riesco a uccidere questo alce, morirò.» Messosi in cammino in piena stagione degli amori, provati i metodi consueti (dei richiami acustici) e non essendo riuscito a cavare un ragno dal buco, si imbatte nell’urina di un’alce femmina. Pensando di ingannare l’alce maschio che sta cercando si cosparge il corpo con il liquido trovato. Scesa la sera, decide di costruirsi un rifugio e riposare. Nel mezzo della notte, qualcosa lo travolge smembrandolo. Come una tempesta. «Adesso è proprio come avevo detto a mia moglie. Non rivedrò mai più i miei figli» fa in tempo a dire il pover’uomo prima che il suo soffio scompaia. L’alce, attratto dall’odore dell’urina con cui si era cosparso l’uomo, l’aveva incornato. Nella caccia nessuno sa come andranno le cose. Bisogna sempre stare attenti a quel che si fa. È cosi che vanno le cose. 

La partita nella caccia, secondo i Grwich’in, insomma, è sempre aperta [43]. Lo sfuggirsi, il camuffarsi, l’occultarsi, tutte queste forme di invisibilità che caratterizzano la caccia e nelle quali esseri umani e animali (spasmodicamente alla ricerca della mente dell’altro) si allontanano dal proprio mondo fino a dimenticare se stessi, tutte queste forme di invisibilità trovano la loro risoluzione nell’atto dell’uccidere o dell’essere uccis* : «[…] cet état de fascination, moment d’hésitation entre le pouvoir et la mort […][44]». Conclude Martin: «Tuer l’autre permet donc de réaffirmer sa position propre dans le monde, de redevenir pleinement soi. […] Tuer revient […] à se démasquer [45]».

L’agentività comune a esseri umani e animali corrisponde alla capacità spirituale e alla libertà fisica di non essere né dove né quel che l’uno impone all’altro di essere, in una situazione di rischio primordiale che né esclude né banalizza la violenza che si sta per infliggere e/o per ricevere. 

9782227501829-475x500-16.3 I rischi del post-presenzialismo: ripensare il paradigma 

Cerco di tirare le prime conclusioni da queste proposte di vita paleolitiche: probabilmente vivere post-presenzialmente vuol dire innanzitutto smettere di negare agentività a tutto ciò che umano non è, accettarne cioè il diritto all’assenza di (pre-)visibilità permanente. Interpretare questa licenza di non essere sempre (pre-)visibil* come partecipazione alla libertà per diritto di nascita implica accettare il rischio del desiderio (che può diventare anche fame) e della morte (propria e altrui) [46]. Non so quanti di noi sarebbero dispost* a un cambio di passo di questo genere. Quanti accetterebbero questi rischi? Le imprese di assicurazione non mi sembrano in crisi. È vero che la gente gioca d’azzardo o scommette su cavalli e squadre di calcio ma nessuna società umana ama il rischio. Anzi: tutte tendono a ridurre il numero di incertezze cui esporsi.

Forse bisognerebbe chiedersi se una visione del mondo post-presenzialista debba necessariamente essere cercata all’interno del discorso partecipativo. Se così è, probabilmente – per interpretare costruttivamente questi segnali provenienti da un mondo tanto passato da sembrarci alieno –  bisogna allargare lo sguardo su tutto il discorso paleolitico, non considerare solo quello mitico: la vita sapiens nel Paleolitico non era fatta soltanto di riti, fiction più o meno seria ed effetti speciali. Esisteva anche una prassi e soprattutto un pensiero tecnico-scientifico. Lo dice oltre il senso comune anche l’evidenza della grande perizia tecnica dei e delle nostr* antenat* testimoniata dall’enorme quantità di strumenti pervenutaci e dalla protoindustrializzazione[47]. Saper modificare il proprio ambiente fino ad averlo anche solo un po’ sotto controllo (e fargli fare quel che di per sé non vorrebbe fare, come quando si usavano la pelle o le ossa di un animale per farne una sorta di casa) non equivale a negare del tutto la propria presenza, anzi mi pare affermarla un po’. Fra presenza e partecipazione mi sembra esserci al di fuori del racconto mitico più un discrimine quantitativo (io prima degli altri sempre e ovunque e di lì a scendere) che qualitativo (la vita di un altro vale quanto la mia anche quando sta cercando di mangiarmi o uccidermi per cui è indifferente difendersi o meno e di lì a salire). Philippe Descola (2021: 9 s.) p.e. da un lato, osservando come la categoria “società” mal si adattasse a quanto aveva potuto osservare presso gli Achuar, cacciatori-raccoglitori semisedentari dell’alta Amazzonia che ha studiato sul campo, ricorre a una parafrasi che suona come un manifesto della partecipazione « […] un assemblage d’humains, d’animaux, de plantes et d’esprits dont le commerce faisait fi de la barrière des éspeces et des differences de capacité entre des êtres.» Dall’altro aggiunge (ivi: 10, evidenziazioni mie): 

«[…] les activités économiques étaient religieuses de part en part, l’organisation politique ne transparaissait que dans les rites et la vendetta, l’identité ethnique évanescente reposait sur l’essentiel sur la mémoire des conflits […]».

Atti violenti che mi sembrano suggerire un principio di presenzialismo. Ripensare il paradigma di opposizione partecipazione-presenza (e al suo interno la violenza come mezzo per raggiungere una posizione di domino organizzativo nel proprio ecosistema) in senso contrario e non contraddittorio permette, credo, di rendersi conto che anche nel nostro oggi marcatamente presenzialista esistono modi partecipativi di vedere il mondo che convivono pacificamente, anche in un solo essere umano, con modi più spiccatamente presenziali (p.e. c’è chi rinuncia alla carne per motivi etici ma ha un gatto e forse lo ha persino castrato per poterlo tenere con sé [48]) generando contraddizioni su cui è utile e sensato discutere. 

Clifford and Bahn cover.indd6.4 Presenzialismo paleolitico, tracciamento degli animali e pensiero scientifico come oralità dialettica 

Penso di converso (e lo stesso Grosos sarebbe, in linea di principio, credo, d’accordo [49]) che il paleolitico dovesse conoscere anche lui fenomeni spiccatamente presenziali (Grosos li chiamerebbe probabilmente pre-presenziali), se non altro per l’esito antropocentrico che hanno avuto. Mi riferisco concretamente alla domesticazione del lupo e a un ulteriore aspetto della caccia di cui mi accingo a riferire. Secondo la celebre tesi di Louis Liebenberg (1995 [50]) il pensiero scientifico (come attività collettiva di formulazione di ipotesi e interpretazione di segni) – ovvero la filosofia (attività intellettuale massima dell’ antropocentrismo presenzialista secondo Grosos) – sarebbe emerso non dopo la rivoluzione neolitica ma, come un qualunque tratto evolutivo, molto prima e concretamente nell’attività di tracciamento degli animali per la caccia.

Secondo l’antropologo seppure non possiamo veramente sapere come cacciavano i nostri antenati, è possibile immaginare che a forza di praticare il tracciamento degli animali su terreni piani, aridi e sabbiosi (dove basta seguire le tracce per arrivare a stanare la preda) – a forza insomma di spuntarla in condizioni ideali  – gli esseri umani sarebbero diventati maestri nel tracciare qualunque animale su qualunque tipo di terreno. Per ricostruire il processo evolutivo dal tracciamento al pensiero scientifico, Liebenberg ipotizza tre tipi di tracciamento: il tracciamento semplice, il tracciamento sistematico e quello speculativo.

Il primo tipo di tracciamento corrisponde al caso su descritto e consiste nel seguire fisicamente tracce visibili. Il tracciamento sistematico consiste nel raccogliere tracce visibili ma eterogenee (impronte, rami spezzati…): tracciare sistematicamente significa innanzitutto raccogliere tutti questi segni e quindi farsi un’idea chiara di cosa stesse facendo l’animale (soprattutto dove si stesse dirigendo). Il tracciamento speculativo si ha invece quando in scarsezza o totale assenza di tracce visibili si rende necessario fare un’ipotesi di lavoro: dove potrebbero trovarsi delle tracce (o nel migliore dei casi la preda)?. L’ipotesi non può che basarsi su una conoscenza pregressa dei comportamenti dell’animale e delle condizioni del terreno. Questo metodo richiede di costruire al proprio interno un animale simile (se non identico) a quello che si sta cercando (come nel caso della storia raccontata più in alto). I primi due metodi sono essenzialmente induttivi-deduttivi e funzionano molto bene in situazioni semplici o mediamente complesse. Il tracciamento speculativo invece entra in gioco in situazioni abbastanza disperate o dove le distanze aumentano. Usarlo con successo richiede una certa creatività scientifica, fondata su ragionamenti ipotetico-deduttivi (cosa di cui Aristotele era certamente maestro ma altrettanto sicuramente non l’inventore).

Liebenberg ipotizza che il tracciamento speculativo sia specifico dei sapiens e che costituisca uno sviluppo dei primi due metodi (già in circolo almeno da un paio di milioni di anni prima dell’emergere di sapiens). Che sia insomma una forma di adattamento a condizioni di tracciamento più difficili. Tracciare gli animali, va aggiunto, ha un aspetto ludico, collettivo e comune a uomini, donne e infanti, sperimentalmente documentato da Liebenberg (1995) presso cacciatori raccoglitori del Kalahari cui ha esibito un catalogo di tracce da interpretare. Il che non solo confermerebbe, almeno in linea di principio, l’idea che il ragionamento scientifico sia una forma di adattamento (il vantaggio evolutivo del tracciamento speculativo rispetto ai primi due è ovvio, tanto dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo) ma lo collocherebbe perfettamente nell’alveo di quelle pratiche socialmente virtuose (storicamente assimilabili alla pratica della filosofia) tipiche dell’oralità dialettica [51], quelle prassi comunicative cioè in cui dopo aver ascoltato l’interlocutore si ha facoltà di intervento (a differenza p.e. che nell’ascoltare una canzone, situazione che in genere chiama l’interlocutore, al massimo, a ri-produrla con la propria voce) [52]. 

6.5 Post-presenzialismo? 

Osserva Baptiste Morizot riguardo al tracciamento degli animali nella caccia (ivi: 33): 

«Vivre c’est être généreux en signes. C’est donner des signes à tous […]. Donner et recevoir des signes, en échanger, c’est le fondement et la nature de la grande politique vitale qui tisse les vivants dans la communauté écologique». 

30574686143Aggiunge il filosofo che quando interpretiamo questi segni per tracciare gli animali non pensiamo soltanto ad ucciderli ma anche e forse principalmente a ubicarli. Per usare una sua bella espressione: tracciare animali è fondamentalmente una forma di geopolitica [53]. E visto che fra tutte le forme di oralità dialettica la geopolitica è quella dalle conseguenze più importanti per tutti noi, c’è da sperare che la praticheremo quanto più possibile in spirito sia partecipativo (riconoscendo a tutti il diritto di sedere al tavolo comune, pur nella nettezza delle proprie posizioni) che presenzialista (essendo l’esistenza un bene tutt’altro che disprezzabile). Probabilmente per trovare una visione del mondo post-presenzialista che animi questa prassi bisogna semplicemente accettare a) che se esistere non può essere privo di rischi probabilmente è folle (e foriero di mali, come la riduzione progressiva della biodiversità) pensare di farlo senza limiti [54]. E forse anche che b) –  come dimostrano le specie umane che non ci sono più ma che ci hanno lasciato in eredità facoltà e competenze che crediamo nostre senza averle inventate  –  esistere un po’ meno, se si è fatto qualcosa di buono, non vuol dire smettere del tutto di produrre segni, di vivere, di partecipare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] Sull’invito di Mbembe (ma in un contesto diverso) ho pubblicato su questa rivista l’articolo in bibliografia cui mi permetto di rimandare.
[2] Nell’articolo di cui alla nota precedente ho discusso anche di altre possibili obiezioni di principio alla proposta di Mbembe.
[3] Per una breve e chiara presentazione di queste culture (dall’Aurignaziano all’Aziliano) v. p.e. PERINO: 128-151 e per una cronologia p.e. PETITT: 268 s.. Sulla necessità di retrodatare la nascita dell‘arte a un‘epoca anteriore alla nascita di sapiens v. LORBLANCHET (1999: 35), sulle implicazioni filosofiche legate alla questione si è espresso acutamente GROSOS (2017): v. 5 e 6.
[4] Seguo qui DEMOULE: 45 ss..
[5] Uso il termine “immaginare” in senso ovviamente più ampio di come di solito si faccia in italiano e forzandolo un po’.
[6] Lomekwi (Kenya).
[7] Trinil (Indonesia).
[8] Tan Tan (Maroc), Berekhat Ram (Golan). Il reperto di Tan Tan potrebbe essere colorato.
[9] P.e. Arene Candide (Italia) , Cueva de los aviones (Spagna), Arcy-sur-Cure (Francia).
[10] (ivi: 235). Clifford e Bahn evincono da questi dati la marginalità del fenomeno durante il Paleolitico.
[11] La vastità della materia obbliga a una certa sintesi per cui mi limiterò a qualche considerazione funzionale allo svolgimento del tema dell’articolo. Per avere esperienza ottica delle immagini v. (p.e.) FRITZ.
[12] «To sum up, ice age images had multiple functions — some were probably for decoration, others for storytelling and transmitting useful informations, and some were almost certainly religious in some way.» (CLIFFORD / BAHN:  251). 
[13] Qui DEMOULE (ivi: 61 rinvia alla tesi ottocentesca di Friedrich Creuzer sull’emergenza dell’arte secondo la quale gli esseri umani, prima di produrre loro stessi delle forme artificiali, avrebbero conferito ad alcuni oggetti naturali minerali o vegetali particolari poteri. Che questi oggetti potessero essere anche dei luoghi (come delle grotte o delle valli) è evidente.
[14] Alcuni animali cominciarono a scarseggiare già prima della fine del Paleolitico (p.e. i e le mammut) ma continuarono a essere rappresentati. Cf. PERNAUD:4.
[15] Cioè analoghi al maschile o al femminile (come principi o associazioni) secondo la celebre tesi di André Leroi-Gourhan, che altri studiosi tuttavia rifiutano o risolvono in maniera diversa (come Annette Lamming-Emperaire) abbinando al maschile o al femminile animali diversi da quelli indicati dal grande studioso (v. CLIFFORD / BAHN: 243).
[16] LORBLANCHET (2020: 134-139) descrive lo sviluppo delle rappresentazioni femminili nelle grotte del Quercy. La Grotta-rifugio La Magdeleine-des-Albis ne contiene alcune in cui intorno ai tratti sessuali classici si delineano forme corporee molto sensuali. Queste immagini risalgono verosimilmente alla fine del Paleolitico (13.000 anni fa). Per una visione più ampia della rappresentazione della donna nel Paleolitico v. Cohen.
[17] Cf. LORBLANCHET (2020:167-172) che sottolinea l’importanza dell’elemento femminile in misura maggiore rispetto a Demoule.
[18] Lorblanchet si riferisce alle grotte del Quercy ma le sue conclusioni mi sembrano potersi applicare se non alla totalità almeno a una gran parte delle immagini paleolitiche.
[19] V. anche CLIFFORD / BAHN: 221-223.
[20] Sul tema degli strumenti musicali paleolitici, oltre le grotte del Quercy, v. CLIFFORD / BAHN: 230-234.
[21] Emmanuel GUY, con una tesi sempre meno controcorrente, considera la specializzazione di questi artisti segno di incipienti diseguaglianze sociali.
[22] Ricordo: tanto la musica che l’architettura e persino la decorazione rupestre, nulla è prerogativa sapiens. Anche dei e delle Neanderthal abbiamo reperti del genere anche se in minor misura e a più piccola scala:  v. OTTE: 57-104).
[23] In questo articolo rinuncio a ragionare sulla natura esperienziale del mito. Vi rinuncio perché l’ho già fatto nell’articolo indicato in bibliografia, cui, ove fosse necessario, rimando.
[24]  LE QUELLEC ne ha ricostruito variazione e diffusione per tutto il globo (2022: 619-707). V. anche LE QUELLEC (2015).
[25] LORBLANCHET (2020: 71-78) e (2001).
[26] LORBLANCHET (2020: 76) cita persino due ginecologi (il Dr. Fournier e il Prof. Dallay) che lo hanno edotto sul fatto che la prima vulva (quella in fondo alla caverna) corrisponde alla vulva di una femme nullipare (una donna cioè che non ha mai partorito), la seconda a quella di una primipara e la terza (quella vicinissima alla superficie) a quella di una multipara. Secondo lo studioso (2020: 169) il fiume sotterraneo evocherebbe il liquido amniotico della Terre génitrice (sic).
[27] La grotta è molto estesa, articolata e abbondantemente ornata. Secondo LORBLANCHET (2010: 13-229) le figure più antiche risalirebbero a 28.000 anni fa, quelle più recenti invece a 22.000 anni fa.
[28] 2020: 112-116.
[29] LORBLANCHET (2020: 105). Emblematico anche il caso di Fox Côa/Siega verde (Portogallo/Spagna, la più grande concentrazione di immagini paleolitiche a cielo aperto), dove le figure sono chiaramente al servizio del paesaggio, v. PETITT: 174-175.
[30] Sull’ipotesi di Jean CLOTTES e David LEWIS-WILLIAMS intorno al ruolo di presunti sciamani nelle immagini paleolitiche v. il volume scritto da entrambi in bibliografia e per una discussione molto critica sulla stessa ipotesi v.  LORBLANCHET / LE QUELLEC et al.
[31] Riporto i calcoli di Lya Dams da GROSOS (2023: 54).
[32] 2023: 55.
[33] GROSOS estende questa maschilizzazione del concetto di umano alla nascita della filosofia. Più avanti (2023: 133-137) la collega alla visione aristotelica circa la diversa posizione di donne, infanti, schiavi e schiave nella Grecia classica patriarcale.
[34] 2021: 52. L’argomentazione si appoggia principalmente su dati iconologici.
[35] GROSOS (2017) che consulto in ebook, per cui non sono in grado di fornire il numero di pagina. Qui sto parafrasando e ampliando un passo delle conclusioni.
[36] DESCOLA (2023) ha una visione molto critica di questa versione standard della neolitizzazione.
[37] Cf. GROSOS (2023, passim).
[38] Ho discusso di entrambi i temi (e vi rimando i lettori e le lettrici che ne sentano la necessità) nel mio articolo in bibliografia.
[39] 2023: 198 s.
[40] V. CHANSIGAUD:13-60.
[41] Uso i termini animismo e totemismo nel senso di Descola.
[42] 2017: 26.
[43] Sulla caccia in generale (non solo quella dei Gwich’in) la pensa così anche il filosofo Baptiste MORIZOT: 33.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
[46] Sulla caccia e il desiderio v. MORIZOT: 35 e MARTIN (2017: 27).
[47] V. 1 e, sulla protoindustrializzazione, CLIFFORD / BAHN: 77-114).
[48] Questi sono due esempi parossistici. Ce ne sono anche di più moderati e forse più alla mano (qui ne elenco qualcuno senza alcuna valutazione morale): imparare una lingua straniera parlando con gli stranieri cui è propria significa accettare il rischio ambivalente della partecipazione perché può dare molta gioia ma anche portare a errori, incomprensione, fatica forse anche perdita di tempo…). Persino provare un vino al ristorante non è esente dal rischio che sia cattivo (e lo si prova perché si spera che sia buono). Viceversa mi sembra presenziale (antropocentrico): spruzzare l’insetticida in un ambiente domestico, considerare la territorialità (la presenza su un territorio) requisito per diritti maggiorati rispetto agli altri e anche vincere una competizione sportiva.
[49] Cf. p.e. 2021: 41.
[50] V. anche LIEBENBERG (2008) per la questione secondaria ma correlata circa il ruolo della corsa persistente in questa faccenda e per un’opinione opposta a riguardo di questo ruolo STEUDEL-NUMBERS / WALL-SCHEFFER.
[51] Per una presentazione più ampia del concetto di oralità dialettica e una sua valutazione v. AZZARELLO.
[52] Al riguardo (specialmente sul rapporto fra filosofia come ragionamento per concetti e mito come ragionamento per immagini e sulla necessità di una dialettica nella ricezione di entrambi i tipi di ragionamento in Platone) v. AZZARELLO.
[53] Ivi: 36-39.
[54] Sulla nostalgia del limite in Achille Mbembee e Byung-Chul Han v. AZZARELLO. 
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.

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