di Leo Di Simone
L’evento del G7 italiano ammirato in tutto il mondo ha rappresentato un magnifico esempio di concretezza virtuale. Ormai siamo talmente abituati al virtuale che facciamo fatica a distinguerlo dal reale. E poi, diciamolo pure, il virtuale è molto più bello del reale, carico com’è di quelle potenzialità che il reale non riesce a costruire, il volgare reale chiuso necessariamente nella sua monotona disarmante datità. Virtuale è bello perché trasferisce il reale in un mondo di più vaste illusorie idealità, consente ai sogni dell’estetica e dell’etica di concretizzarsi in teorie appaganti, che tacitano coscienze anelanti alle idee di vero, di bene, di giusto senza doverle impegnare nell’azione, in un lavoro improbo e quasi sempre deludente.
Il termine “virtuale” viene dal latino medievale dei filosofi scolastici, deriva da una bella parola come virtus, «virtù/ facoltà/ potenza»; in filosofia è sinonimo di potenziale, cioè «esistente in potenza», in nuce e si contrappone ad attuale, reale, effettivo. In fisica, in matematica e nella tecnica, in contrapposizione a reale, effettivo, si dice di enti o grandezze che, pur non corrispondendo a oggetti o quantità reali, possono essere introdotti o considerati per determinati scopi di calcolo, di rappresentazione o di deduzione logica. L’estensione di queste due accezioni si realizza nelle ideologie – politiche, sociali, religiose che siano – dove le rappresentazioni necessariamente devono essere prive di oggettività per verificare se stesse e confermarsi nel più alto stato di virtus. Di fatto nessuno capisce in che cosa consista questa virtus, ma è pur sempre una bella parola davanti alla quale non si possono avere tante pretese di conoscenza. Sul problema semantico celiò Molière nel suo Il malato immaginario: alla domanda dell’apprendista sul perché l’oppio faccia dormire, il dottore in possesso della scienza rispose serioso: «Quia est in eo virtus dormitiva cuius est natura sensus assopire». Chiaro, no?
Al di là della cèlia non possiamo però sottrarci alle esigenze del pensiero quando il senso viene a mancare, quando le antiche credenze non sono più credibili, e ci parlano ancora, ma per porre domande ormai senza risposta, prive finanche della speranza di una risposta; domande che esigono ostinatamente il senso del lessico con cui sono formulate, un senso che aspira alla virtù di una concretezza ontica smarrita in un labirinto virtuale quale sua sola aleatoria concretezza, la concretezza del vuoto, unico ente tangibile, virtus dormitiva su cui tutti ci siamo adagiati e assopiti.
Quali sono i mali del mondo? I grandi di questo mondo hanno dato risposte circostanziate nelle trenta e più pagine che costituiscono il documento conclusivo del G7pugliese. Pagine non improvvisate, studiate preliminarmente nei minimi dettagli, passate al vaglio del politically correct e delle leggi degli equilibri diplomatici e poi offerte al mondo come panacea totale e definitiva, con una puntigliosità che ha dell’incredibile. Non normative evidentemente, ma di semplice indirizzo, buone proposte frutto di buone intenzioni, quelle buone intenzioni di cui, secondo il proverbio, è lastricato l’inferno. Riassumendo all’estremo: «Fede comune nei principi democratici e nelle società libere, nei diritti umani universali, nel progresso sociale e nel rispetto del multilateralismo e dello Stato di diritto», così come «l’impegno a sostenere la dignità umana e lo stato di diritto in tutte le parti del mondo. Lavoriamo insieme e con altri per affrontare le sfide urgenti del nostro tempo», si legge nelle prime pagine del comunicato. E poi, l’accordo per il sostegno a Kiev attraverso 50 miliardi di dollari provenienti da asset russi congelati, ma anche l’appello a un cessate il fuoco immediato in Medio Oriente e al rilascio degli ostaggi israeliani in vista di una soluzione per due Stati.
E ancora, l’intesa sul programma di sviluppo per il continente africano e sulle misure da adottare per contrastare il cambiamento climatico, la lotta al terrorismo e alla criminalità. «Continueremo a combattere il finanziamento del terrorismo e la propaganda terroristica, in particolare la diffusione di contenuti terroristici online. Promuoveremo anche la condivisione delle informazioni, la cooperazione internazionale e il rafforzamento delle capacità, anche nella gestione delle frontiere, per indagare e perseguire tali crimini. Ribadiamo il nostro forte impegno nella lotta alla criminalità organizzata transnazionale, spezzandone i modelli di business e smantellandone le reti. Per questo, abbiamo lanciato la Coalizione G7 per prevenire e contrastare il traffico di migranti», prosegue il documento con parole chiare e concetti distinti assemblati con molta probabilità per la virtus dell’Intelligenza artificiale tanto magnificata nel comunicato ai fini del suo uso positivo e produttivo nel mondo del lavoro, previa attuazione di un Codice di condotta internazionale per le organizzazioni che la utilizzano; e qui evidentemente ci si riferisce implicitamente ai sistemi di intelligenza artificiale che dirigono i raid di Israele a Gaza. Ma, evidentemente, il documento, data la sua impostazione virtualistica, non si è potuto addentrare nei dettagli empirici.
Non s’era mai sentito nulla del genere quanto a concretezza di utopica virtualità, come se la razionalizzazione sia capace di produrre il suo contrario e il suo reciproco con le mitologie in cui circolano in maniera sparsa e diffusa i “valori” che avendo abbandonato le loro orbite antiche vagano in cerca di definitiva individuazione. Si entra così in una sorta di «zoo dell’immaginario» per dirla con Michel de Certeau [1], mentre si presenta una questione nuova e globale costruita sugli spalti solidi di più antica retorica, antropologica musa cangiante che estende i suoi ammalianti influssi in ogni settore, compreso quello scientifico: «il fantastico entra esattamente in quel luogo in cui l’etica ha dovuto essere eliminata» afferma de Certeau; «esattamente là dove si elabora una razionalizzazione delle imprese o una tecnica delle relazioni umane, nascono così leggende, contemporaneamente dogmi e miti» che offrono «qui un’apologia dell’umanesimo, là una edificante filantropia o una difesa “dell’anima”, un ricorso al sacro o addirittura al papa: al rigore scientifico delle analisi vengono aggiunte leggende dogmatiche e predicatorie» [2]; sono le nuove narrazioni del postmoderno, eredi di quelle non meno illusorie e utopiche della modernità: benessere, pace, giustizia, dignità dell’essere umano, fratellanza universale, leggende nel senso letterale di legenda, ciò che può soltanto essere letto senza mai poter diventare un fatto.
Risale agli anni ‘80 del secolo scorso la profezia di de Certeau, di questo gesuita disincantato e dall’acuto sguardo culturale che con il suo lavoro teologico, filosofico, antropologico, psicologico ha costruito una griglia ermeneutica filtrante tutte le inautenticità e le ipocrisie della modernità come sintesi della cultura occidentale; a partire dal suo credere cristiano vissuto come debolezza ed emergente tra le fratture e i transiti del cristianesimo, vaso di coccio tra vasi di ferro, capace di leggere il cristianesimo in frantumi del suo tempo viaggiando verso le periferie dell’esistenziale come già fecero i padri fondatori della Compagnia di Gesù. Personaggio eclettico, spesse volte citato e amato da papa Francesco. Ed eccolo spuntare, dopo cinquant’anni, il “ricorso al papa” nella logica della panacea virtuale del G7; «presenza fortemente voluta» è stato affermato, hàpax significativo in un assetto politico laico e ormai incredibile che cerca copertura e conferma del proprio operato in una figura religiosa percepita solo nella sua dimensione istituzionale di “capo”, dunque implicitamente omologata alla propria natura affabulatoria, legendofora, senza tener conto di trovarsi davanti ad un Convidado de piedra [3] che pronuncerà un verdetto inatteso, spiazzante e definitivo in un consesso che lo ha invocato garante della propria inefficienza, rinforzo psicologico alla propria vacua, pura virtualità.
Corrono diverse interpretazioni di questo personaggio cardine della commedia attribuita a Tirso de Molina, El burlador de Sevilla y convidado de piedra, che per primo ne divulgò l’immagine insieme a quella di Don Giovanni (del quale il convitato di pietra è ospite al suo ultimo banchetto) e a cui è ispirato lo splendido saggio di Søren Kierkegaard sull’opera di Mozart e il tema della seduzione. Ma qui la dimensione litico-istituzionale della figura del papa, bianco come il candido marmo della statua del Convidado, richiama il prodigio della sua animazione nel convito beffardamente offertogli da Don Giovanni: la statua che parla dicendo l’inattuale, andando oltre la convenienza richiesta dall’evento. E il papa lo fa da buon gesuita, senza destare scandalo, senza dare nell’occhio, offrendo una semplice referenza letteraria che pochi hanno potuto cogliere immediatamente, essendo il romanzo di Richard Hugh Benson, The Lord of the World, scritto agli inizi del Novecento, un’opera non più universalmente conosciuta ma il cui messaggio è di scottante attualità, essendo una descrizione o rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, ma prevedibile sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative. Da qui la sua consistenza distopica, contrapposta alla virtuale positività dell’utopia; rappresenta infatti un’ipotetica società e si riferisce ad un ipotetico mondo caratterizzati da alcune espressioni sociali e politiche opprimenti, spesso in concomitanza o in conseguenza di condizioni ambientali o tecnologiche pericolose che sono state portate al loro limite estremo. Ma non solo.
Il suggerimento del papa, il consiglio ai membri del G7 di leggere il libro Il Signore del mondo poteva sembrare consonante col discorso che Francesco andava sviluppando sull’Intelligenza artificiale, evidenziandone i vantaggi ma mettendo anche in guardia dai non pochi potenziali pericoli. Tutti sembravano pendere dalle sue labbra e il suo intervento era stato sicuramente molto atteso. C’era stato d’altronde il riconoscimento della sua autorevolezza nell’invito rivoltogli ed era stato accolto con un calore inusitato in un consesso politico di quel livello, tra abbracci e baci, nel rispetto dovuto al suo alto ruolo religioso e alla sua fragilità fisica. Chi avrà pensato a lui come al vecchio Simeone del Vangelo (cf. Lc 2, 25-35), questo “vecchio” che viene da molto lontano, da un’attesa più antica di lui, che esce dalla notte di un’attesa millenaria che vede compiuta nel bambino Gesù che prende tra le braccia riconoscendolo come «segno di contraddizione» che provoca trafitture d’anima? Sicuramente nessuno. Simili assonanze sono ormai desuete anche nelle stesse considerazioni ecclesiali. Ed anzi molti nostalgici che si attardano ad affermare che siamo, nonostante tutto, in un regime di cristianità, avranno gioito nel vedere il papa pontificare in un consesso di potenti, come Gesù tra i dottori del tempio che però, più tardi, risulteranno i suoi accusatori e i suoi carnefici.
Bisogna invece riflettere sul fatto che quello che è stato definito “tempo di secolarizzazione” si è ormai compiuto e che l’emergenza religiosa nella società si sta logorando fino a scomparire risucchiata nell’alveo letale dell’Antikeimenos [4], potenza di smarrimento alla quale soccombe la massa sottomessa all’iniquità, così come prevede l’orizzonte escatologico della Seconda lettera ai Tessalonicesi (2 Ts 2, 6-7) nel considerare la possibilità dell’anomia e dell’apostasia come sfida, lotta necessaria all’avvento parusaico del Regno di Dio che si è manifestato già in Gesù di Nazareth come luce che le tenebre, incessantemente e instancabilmente tentano di soffocare (cf. Gv 1, 5). È in questo pólemos metafisico che bisogna inquadrare il senso dell’invito e dell’intervento di papa Francesco al G7. Cosa si attendevano i potenti del G7 che il papa dicesse che non avesse già detto? Sono tematicamente insufficienti gli interventi continui del suo magistero cristiano sulle problematiche drammatiche che affliggono l’umanità? Sono poche le sue encicliche rivolte alla Chiesa e al mondo dove vengono sviscerati i temi drammatici che il documento finale del G7 ha sorvolato a volo d’uccello imprimendogli un carattere di autorevolezza in virtù della sua utopica e ormai consueta istituzionale virtualità? In virtù della riduzione del suo linguaggio all’unica forma potente, impositiva dell’informazione formale?
Da quante generazioni politiche si redigono simili prospettive virtuali che non hanno mutato di una virgola la situazione drammatica dell’umanità attuale, che è quella descritta nella distopia di Richard Hugh Benson nel lontano 1902: l’umanitarismo buonista come faccia presentabile di una buro-tecnocrazia che in realtà è diventata disumana perché lascia alle macchine il potere della vita e della morte, e il dispotismo travestito di filantropia che manovra subdolamente per eliminare ogni traccia di fontalità cristiana ritenuta, a ragione, pericolosa per il mantenimento del proprio inumano potere; da qui la necessità di farsi copia inautentica, utile maschera di falsa imitazione, falsificazione virtuale sempre in atto. Papa Francesco è stato ben consapevole di trovarsi nel consesso tra i più alti di una cultura di morte. Molti di quelli che lo hanno abbracciato e riverito sono convinti che l’aborto debba diventare un diritto costituzionale universale, mentre gli oppositori di questa posizione per pura convenienza politica non proclamano e non agiscono con la stessa irruenza per rivendicare il diritto al cibo, all’acqua e alla dignità e tutela della vita già nata, dei milioni di bambini e anziani, diseredati ed esclusi che soffrono e patiscono violenza a causa delle speculazioni finanziarie che hanno il primato nelle agende politiche di quei “potenti” che facevano finta di ascoltare il discorso di papa Francesco come un oracolo. Un oracolo sempre pronunciato e mai ascoltato perché privo della virtus di virtualità utopica e tendente piuttosto a quell’incarnazione che è la peculiarità e lo scandalo del cristianesimo, segno di contraddizione e pietra d’inciampo per i potenti che siedono sui troni e sulle poltrone delle decisioni inique per l’umanità. Il diritto alla vita è uno e uno solo e le campagne antiabortiste devono sostenere anche il diritto alla “vita nata”, dal suo inizio alla sua fine, nel diritto e nella dignità consoni ad ogni essere umano, come dal 10 dicembre 1948 recita la Dichiarazione universale dei diritti umani nella sua consistenza di “legenda aurea”. Quando quei nobili propositi saranno realizzati sarà superfluo ogni G7: l’incredibile della virtualità che si apre alla possibilità del fatto. Un fatto che il papa non ha il potere di compiere a differenza dei suoi attenti uditori muniti di strumenti esecutivi che non vogliono utilizzare per non tradire la fisionomia corporativa dell’Antikéimenos.
Ci sono i presupposti per una metamorfosi storica? C’è nella cultura postmoderna e postcristiana ancora qualche residuo di fede nella Vita? Non si ha oggi, piuttosto, la percezione, guidata dalla ragione, che la speranza esistenziale della vita immortale, la visione dell’uomo come composto unitario di anima e di corpo appartengano all’ordine delle mitologie ingenue? Questa antropologia è ormai confinata nei manuali, non ha più presa alcuna davanti all’avanzare di una intelligenza artificiale senza volontà e senza neologismi, senza vita e senza Dio, votata alla clonazione dell’identico. Si resta così senza parole nuove, senza buone notizie e ci si rassegna al fatto che la morte è la certezza e che l’essere è “per la morte” secondo il dato dell’estremo sviluppo dell’ontologia heideggeriana che ha segnato non pochi tratti della cultura occidentale. D’altra parte ogni potere costituito è tale perché agisce per l’istinto di morte, ha paura della vita, perché se la vita trionfa perde le sue fondamenta. Se trionfa la vita non hanno più senso le guerre che sono azione programmatica di morte da poter implementare e incrementare senza l’ausilio della coscienza e con quello della distorsione epocale della ragione ormai in preda alla follia collettiva.
Bisogna guardare con grande sospetto una cultura che si ritiene adulta e avanzata, emancipata da Dio e dalla coscienza soltanto perché ha raggiunto grandi conquiste nel dominio dell’utile, ma non ha messaggi positivi da lanciare all’umanità; i suoi segni esteriori sono soltanto di morte. C’è un rapporto intrinseco tra l’attuale “civiltà” che avvelena i mari, le piante, i fiori, la terra e il cielo e l’avvelenamento interiore, la grettezza dello spirito che non riesce più a volare, appiattito dentro il sensibile delle cose di cui profittare e che avvelenate gli si rivoltano contro. Ed è della tutela della creazione intera che Francesco ha cominciato, nel suo magistero, a chiedere conto. Chiedendo conto alla ragione capace di generare una intelligenza artificiale che però non possiede quella molla inscritta nell’ontologia antropologica e che ha dato origine al pensiero filosofico, all’ordine dello spirito: lo stupore. Lo stupore è l’inizio davanti alla vita, al mistero della vita che ingloba anche la morte, di cui la morte fa parte senza avere il primato. Se lo stupore per la vita si estingue, se al suo posto subentra il calcolo per il dominio del mondo, allora prevale la morte senza replica. Le guerre inumane ed insensate in corso traducono drammaticamente questa situazione. Nulla hanno potuto o voluto fare i potentati di questo mondo. Intervenire per la pace comporterebbe smentire se stessi, ledere i propri interessi economici. Meglio far finta di ascoltare il papa e annuire ai suoi inattuali insegnamenti senza muovere un dito per fermare quella che ormai passerà alla storia come una vergogna epocale e culturale.
È per contenere queste penose prospettive che Francesco, come suo solito, è uscito per qualche momento dal suo discorso politicamente corretto e apparentemente consonante con le aspettative dei suoi uditori e ha buttato lì, con gesuitica nonchalance, il consiglio di leggere il romanzo di Benson che – credo nessuno sapesse – si conclude drammaticamente con la distruzione di Roma da parte di forze massoniche internazionali e la morte del papa sotto il bombardamento della città. La distruzione della città coincide con l’eliminazione di gran parte della struttura della Chiesa Cattolica, vero obiettivo del raid aereo, in seguito alla ratifica, da parte del supremo governo del mondo, dell’atto di eliminazione fisica tramite eutanasia di chiunque dichiari di essere cattolico. Il cattolicesimo, nella distopia romanzesca che descrive il mondo intorno al 2000, è l’unica confessione cristiana esistente. Le differenze confessionali sono state superate e i cristiani, in stato di minorità numerica, si sono riappacificati in comunione ecumenica. Ma anche le tre superpotenze, i tre grandi imperi dominanti il mondo finiscono per unificarsi sotto la guida del personaggio chiave del romanzo: Julian Felsenburgh, uomo ambiguo ma di grande fascinazione; in lui si riconoscerà il grande pacificatore tra i tre grandi blocchi di potere e la persona capace di definire un nuovo ordine mondiale. Rifiuterà onori e incarichi politici per accettare soltanto ruoli di carattere unitario e internazionale: prima Presidente d’Europa, infine Presidente del Mondo. Il personaggio è oggetto di un vero e proprio culto della personalità e giungerà fino a essere considerato un dio; come divinità dovrà procedere allo smantellamento di ogni altra religione e di ogni espressione spirituale che alla religione possa condurre. I tratti caratteristici dell’Antikéimenos sono ben visibili.
«Un romanzo molto interessante» dice papa Francesco senza far riferimento alla trama e al suo contenuto morale; «vi consiglio di leggerlo…». Una sorta di velato j’accuse pronunciato dal “Convitato di pietra” contro Don Giovanni, il grande seduttore che usava le donne come oggetti violandone l’integrità fisica e la dignità umana. Mutatis mutandis il bianco “Convitato” del G7 mette il suo premuroso e interessato ospite davanti alla propria responsabilità morale di potersi ipostatizzare in un nuovo seducente Julian Felsenburgh, il cui nome di battesimo, Giuliano, a detta degli ermeneuti del complesso romanzo, è stato scelto dall’autore per richiamare la figura dell’imperatore romano Giuliano l’apostata. Il termine apostasia ricorre in diversi punti del romanzo in particolare nel momento di affermazione di Felsenburgh a guida dell’Europa dove il cristianesimo tocca i suoi minimi storici e al regime di cristianità subentra la condizione più contenuta, più perseguitata e più evangelica di “cristiania”, l’unica forma ecclesiale che può contraddire lo spirito dell’apostasia pur senza impedirne l’espansione, secondo la lettura del fenomeno che ne fa Massimo Cacciari, perché «la tradizione che incarna è tuttavia quella del Logos della croce, e dunque sa l’escatologica riserva dell’im-possibile su ogni misura di volontà e potenza […] Solo al culmine della parousía dell’Antikéimenos, della perfetta contraddizione contra il Logos della croce, quest’ultimo può trionfare». Per questo, ogni testimone, «non potrà che lottare comunque contro l’affermarsi dell’apostasia» [5] e senza contraddizioni contro gli eccessi di dottrinarismo, di giuridicismo e di devozionismo che hanno fatto deragliare la Chiesa dall’alveo evangelico rendendola sempre più irrilevante per gli stessi cristiani che hanno visto riflettersi in essa tutti i mali che essa stessa denuncia. Tutto ciò ha cancellato la profezia come carisma spirituale.
Se c’è dimensione profetica nella narrazione distopica di Richard Hugh Benson questa può consistere nell’aver delineato, più di cento anni fa, la situazione religiosa dell’umanità, lo stato del cristianesimo e l’assenza dello spirito nel presente postmoderno con un largo margine di verità, di impensabile realismo, descrivendo questo spirito come intollerante alla pluralità, anelante all’unicità della sua affermazione esclusiva. E come la profezia classica, quella di Benson, non parla la lingua delle istituzioni che avversa, ma fa di esse l’oggetto della propria contestazione mettendole impietosamente davanti alle loro iniquità, alla loro indifferenza nei confronti del dolore umano e alle loro inadempienze nei confronti della vita. Don Giovanni finisce all’inferno nella distopia artistica e Mozart, dal suo canto, deve mutare le allegre giocosità sonore del suo capolavoro nel cupo drammatico urlo del “Convitato” che prelude alla morte del seduttore in uno scenario apocalittico. Perché su quella scena si compie la ri-velazione, cade la maschera del giocoso Don Giovanni se-ducente Antikéimenos e resta l’evidenza dello scandalo, del paradosso, del vuoto. Il profeta è colui che svela la grande menzogna. Nella contingenza storica può essere anche ateo, nel senso che si oppone al simulacro divino con cui abbiamo coperto le nostre presunzioni, ai simulacri concettuali e immaginativi che sono vuoti e non dicono nulla all’uomo. Il profeta non annuncia cose sue come se fossero di Dio, cose che Dio non ha comandato di dire e di fare. Il profeta non scende dagli altipiani della cultura, ma parla per abbondanza interiore, come per un mandato, avendo assimilato quel Logos che da solo basta a compiere il cammino della vita, negli spazi di libertà che solo la vita apre laddove l’istituzione lega ai compromessi col potere che ha in odio la profezia come proferimento di parole nuove che dicono la trasformazione delle dicotomie micidiali in polarità creative.
La libertà e la disinvoltura con cui papa Francesco si è da sempre tagliato fuori da schemi precostituiti di magistero cristiano lo caratterizzano nella tipologia del “testimone” che deve combattere l’apostasia sia all’interno che all’esterno della Chiesa. Deve stare in equilibrio tra l’istituzione che incarna, in cui si sente a disagio e che vorrebbe trasformata e le istituzioni del mondo che vorrebbero ridurlo alla loro somiglianza; tra l’apostasia di una Chiesa che si è distanziata dalla sua forma evangelica e quella che dalla Chiesa e dal Vangelo ha preso le distanze ritenendone inutili le visioni del mondo e della storia. La lotta di Francesco è anche la stessa lotta della Chiesa, poiché l’Antikéimenos, il nemico, è tale in quanto capace di sedurre la Chiesa distraendola «da quel cammino che consiste nell’approfondire sino al suo fondo lo scandalo da cui muove» [6]: cioè il Logos della croce, che tradotto in termini kerigmatici vuol dire che il Regno è dei poveri, degli assetati di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, dei perseguitati dai prepotenti e che non ci sono due regni, uno della Chiesa e uno del mondo, ma l’unica communitas umana nelle sue splendide variegazioni, vessata dalla smania livellante ed esclusiva dell’Antikéimenos, Il Signore del mondo che con l’omologazione e l’algoritmo vuole ottenerne il controllo e il dominio.
Il messaggio criptico e distopico di papa Francesco al G7 è ormai chiaro. Non essendo politicamente corretto parlare di Gesù Cristo in un contesto multiculturale e multireligioso, e in qualche caso anche a-religioso, citando en passant la visione drammatica contenuta nel Signore del mondo egli ha fatto implicitamente riferimento alla liberazione della coscienza da occupazioni estranee, da quei demoni che nei vangeli ci appaiono come elementi mitici e che in realtà rappresentano le ossessioni da cui siamo oppressi (Dostoevskij docet). La nostra autonomia interiore non è mai un fatto compiuto, è un processo che non avrà mai termine e il nostro è un viaggio attraverso schiavitù che ci abitano dentro. Eppure quei demoni che ci sembrano uscire da una favola antica hanno detto a Gesù: «Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?» (Mc 1, 24); di fatto la sua parola e i suoi atti mettono tutti in inquietudine, sovvertono ogni ordine costituito, scuotono dalle fondamenta tutte le nostre costruzioni, le nostre pianificazioni, rovinano la cultura, l’economia, la teologia, la Chiesa, le linee programmatiche dei G7, e per questo abbiamo dovuto chiuderli in una cornice sacrale da cui non nuocciano, creando filtri di ortodossia perché giungano flebili e pacati, tranquilli, tali da non modificare nulla, da non essere destabilizzanti.
Basta allora mettersi davanti alla rivelazione che c’è un Signore del mondo che sguinzaglia i suoi demoni per privarci della libertà e tenerci nella menzogna per far ricorso alla necessità dell’alternativa della liberazione che noi cristiani chiamiamo Regno di Dio, il cui statuto prevede il pieno adempimento di tutti i programmi virtuali dei potentati di turno per la cui redazione è stato scimmiottato il Vangelo senza mai citarlo. Ciò comporta una non facile conversione, non necessariamente religiosa, come sostiene François Jullien, filosofo non credente che suggerisce di utilizzare le risorse del cristianesimo e il cristianesimo come risorsa per passare da una vita come mero processo biologico (βίος) a una vita autentica (ζωη), vita intesa come sviluppo ed espansione delle possibilità e delle consapevolezze [7]. Chi crede, invece, deve vedere quella ri-sorsa (source-fonte in francese e in inglese) come il ri-sorgere a una vita nuova, segnata dalla radicalità di Dio espressasi in Gesù di Nazareth, che non vuole il mondo così com’è, come lo abbiamo ridotto, vuole che ne prepariamo un altro. Chiunque è toccato dalla forza di questo Logos sa che la sua vita ha un senso ulteriore, più alto, più pieno, più nobile, nella misura in cui per questo Logos incarnato soffre e combatte per spazzare via i demoni del virtuale.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] M. de Certeau, La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2020: 82.
[2] Ibid.
[3] Lo schernitore di Siviglia e il convitato di pietra (1630) è un’opera teatrale che coniò il mito di Don Giovanni, il personaggio più universale del teatro spagnolo. Tradizionalmente attribuito a Tirso de Molina il mito di Don Juan personifica una leggenda sivigliana che ha ispirato Molière, Carlo Goldoni, Lorenzo Da Ponte, autore del libretto del Don Giovanni di Mozart. Il “Convitato di pietra” è figura di coscienza critica che condanna l’operato sconsiderato di Don Giovanni.
[4] Per la figura dell’Antikéimenos rimando al mio articolo, La verità del bacio e la finzione del sacro: il “Mysterium iniquitatis” e la guerra, in «Dialoghi Mediterranei» n. 56 del 1 luglio 2022
[5] M. Cacciari, Europa o Cristianità, in AA. VV., Dopo 2000 anni di cristianesimo, Mondadori, Milano 2000: 128.
[6] Ivi: 129.
[7] F. Jullien, Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede, Ponte alle Grazie, Milano 2019.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, liturgista, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo, docente e Direttore della Scuola Diocesana di Teologia e della Biblioteca diocesana. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso. Attualmente è anche Referente diocesano per il Sinodo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018). Nel campo dell’innografia liturgica ha pubblicato con le Edizioni Paoline due volumi di inni: O fonte della luce; O Cristo splendore del Padre.
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