Le persone non si fanno domande. Provano emozioni, hanno reazioni. E basta. Questo mi disse una volta un maestro. Le persone non sono abituate a farsi domande. Ed è vero. In linea di massima. In generale. Le persone, banalmente, non si chiedono perché il cielo sia blu o l’erba verde. E io, altrettanto banalmente, mi sono sempre chiesto perché invece non se lo chiedessero. La fiera delle banalità insomma.
Ovviamente, nulla è banale davvero. Nessuna persona non si fa davvero nessuna domanda. Nessuna persona se ne fa davvero per tutta la vita. Così anche il microorganismo più banale non lo è per nulla. La storia, per esempio, del tardigrado, un invertebrato che raggiunge massimo la lunghezza di 1,2/1,5 mmm, ce lo insegna poiché esso è famosissimo per le sue straordinarie capacità di sopravvivenza in condizione estreme. Il tardigrado è anche metonimia del film Segnali di vita di Leandro Picarella (2023), un film che parla di stelle, montagne, una piccola comunità umana e non-umana e territà [1]. Un film delicato, profondo, denso e verticale. Un film travestito da docufilm, un antropofiction che recita la parte di un’inchiesta etnografica e poetica. E sono questi gli aspetti su cui vorrei offrire una breve riflessione [2].
Se a un primo sguardo, questa pellicola può parlaci di solitudine, dell’importanza di una vita al di fuori del caos delle grandi città, del senso di pienezza di un certo stile di vita, del valore delle scelte, del lavoro, della famiglia, delle relazioni umane, c’è in realtà molto altro. C’è la frizione fra scienza, scientismo e pensiero magico, fra tecnologia e credenza, fra velocità e lentezza. E c’è ancora altro.
Senza voler fare spoiler, il protagonista, un astrobiologo in autoesilio dalla frenesia della grande città e da qualche altro dramma (si scoprirà più avanti), si ritrova a vivere per alcuni mesi in un osservatorio della Val d’Aosta, in un piccolo villaggio, da solo, quando un danno alla strumentazione lo costringe a dedicare gran parte del tempo a una ricerca statistica voluta dall’associazione dell’osservatorio: intervistare gli abitanti sulle conoscenze astronomiche e relative misconcezioni. La parabola del burbero scienziato che si ritroverà a interagire con gli abitanti e le loro vite la lascio a voi e alla visione del film.
Ciò che rende il film verticale e denso non è solo la messa in scena, le riprese documentaristiche, il taglio etnografico, le storie dei personaggi, bensì la capacità che ha nel raccontare il rapporto con la Terra e raccontarci la Terra attraverso la Terra stessa – la geografia e il paesaggio – e gli umani e non-umani che la abitano. In sostanza, Segnali di vita riesce ove saggi e monografie alle volte faticano: raccontare in maniera semplice il rapporto inscindibile che c’è fra Homo Sapiens e la Terra. Qui serve una precisazione. Quando parlo di Terra non intendo solo il pianeta Terra e la sua geografia fisica ma soprattutto quel sistema complesso che racchiude la Terra, i mari e gli oceani, il cielo, le stelle, i paesaggi, il clima, gli umani e gli esseri viventi non-umani che la abitano, le loro significazioni e le loro interconnessioni.
In questo senso Segnali di vita ci rende visibile quel salto inesistente fra l’immensamente distante, nel tempo e nello spazio, come le stelle, e l’immensamente vicino, come gli abitanti di una piccola comunità, gli occhi tristi di un bovide che è come una figlia, un amore insperato in tarda età, un tardigrado in un microscopio, un robottino che alle volte si bugga.
Se, come spiega il protagonista a un certo punto, le costellazioni non esistono perché non sono altro che proiezioni di corpi celesti distantissimi anni luce, nel tempo e nello spazio appunto, altrettanti giochi di proiezione di oggetti distanti possono in realtà risultare vicini, poiché raccontati come tali, vissuti come tali. È solo un gioco di prospettive. Così come alcuni personaggi/persone si commuovono ricordando una mucca cara, altri si emozionano dietro uno smartphone in attesa di quella chiamata lì, altri ancora ritraggono madonne nella più alta vetta lontana da tutto, fatta di una roccia lontanissima nel tempo. Ciò che il film ci vuole raccontare quindi è che l’uomo e l’umanità, su cui vertono le nostre vite in quanto umani, non può vivere se non di relazioni consustanziali con la terra, il cielo, gli animali, gli altri umani. Ciò che prescinde da qualsiasi umanità è infatti il suo essere terraformata. Non è l’uomo che modella la Terra ma viceversa [3].
Fra le tante cause che portano l’antropocene a porre svariate e profonde criticità c’è proprio la perdita della territà intesa non come banalmente si potrebbe pensare “vivere in città di plastica e cemento ci rende peggiori” (cosa peraltro dimostrata essere vera) ma nel senso di dimenticanza, lento oblio, ossia il progressivo scordare che la Terra, sia essa di plastica e cemento che di montagne e laghi, gioca in noi e per noi un ruolo cognitivo e narrativo fondamentale.
È nella traiettoria narrativa del film che quindi ci accorgiamo che ciò con cui il protagonista si relaziona non sono solo le persone, gli abitanti del villaggio, i parenti in videochiamata, ma sono anche le montagne, le vacche, la neve, vino e cibo diverso, lingue, credenze, misconcezioni e concezioni, ritualità, pratiche, luoghi, spazi, sogni, speranze, memorie, luce, paesaggi, silenzi. Non per altro, le domande che il protagonista si trova spesso a porre agli abitanti deviano immediatamente sulle relazioni e concezioni che hanno con e degli astri in merito all’agricoltura, alle nascite, alla fecondità, agli stati d’animo, alla loro vita personale e come comunità.
Il protagonista, costretto a “fare l’antropologo” non essendolo per nulla, svela quindi così il cortocircuito tutto geoantropologico (leggi “umano”) fra pensiero, linguaggio e paesaggio (leggi “Terra”). Una relazione inestricabile e ineluttabile sondata dall’antropologia, la geografia, la narratologia e le scienze cognitive. Al di là di scienza, natura e cultura, giusto per citare un grande testo di antropologia [4], il film offre un ritratto di vita che è anch’esso lontanissimo – una comunità alpina al confine con Svizzera e Francia – e vicinissimo – le vite, i drammi, le gioie, le storie quotidiane e universali di un gruppo di persone che condividono uno spazio-paesaggio cioè, banalmente, una geografia che è anche un’antropologia.
Come tutte le storie anche Segnali di vita ha le sue morali, i suoi insegnamenti, i suoi messaggi e i suoi non-detti. Come tutte le belle storie, non perché finiscono bene ma perché raccontate con cuore coraggioso, mente ispirata e una visione complessa, dura e delicata insieme, ciò che forse vuole dirci Segnali di vita è racchiuso già nel titolo stesso. Come, d’altronde, tutte le grandi storie.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Cfr. Meschiari M. 2022, Landenss. Una storia geonarchica, Meltemi; Meschiari M. 22 aprile 2024, Territà, Doppiozero.com.
[2] Essendo, come detto, un lavoro denso di significati, ci sono già molte recensioni e articoli in giro che scavano in alcuni di essi, così come si riesce a trovare qualche intervista al regista, per esempio: https://www.delaville.it/segnali-di-vita;https://www.sentieriselvaggi.it/ripartire-da-zero-leandro-picarella-racconta-segnali-di-vita/; https://www.mymovies.it/film/2023/segnali-di-vita/.
[3] Sorce G. 2022, Territà. Una lettura geografica di “Landness”, Operavivamagazine.org, 16 novembre
[4] Descola. P. 2014, Oltre natura e cultura, ed. it. a cura di Nadia Breda, Firenze, SEID Editori.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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