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Feste, fuochi, “violenza” e Covid

S. Cono (Ct), La vampata di Santa Lucia (ph. Luigi Lombardo)

S. Cono (Ct), La vampata di Santa Lucia (ph. Vincenzo Giompaolo)

di Luigi Lombardo 

Gli effetti del Covid sulle feste sono stati, sull’immediato, devastanti, non tuttavia irreversibili. La ripresa dei riti post pandemia è stata impetuosa e il fiume carsico della cultura festiva ha straripato ovunque e in tutti i contesti festivi. Ma c’era da aspettarselo e nessuno di noi studiosi, credo, ne dubitava. La pandemia ha interrotto il placido e ciclico fluire di tempo festivo e tempo ordinario. Ha introdotto il tempo della sospensione, piatta e uguale a sé stessa, chiudendo le comunità nell’isolamento culturale, nella solitudine di pratiche un tempo agite nella collettività [1].

La fine di questo stato di sospensione (speriamo definitivo) con la ripresa dei riti festivi mostra quanto essi siano parte consustanziale della cultura umana, un bene collettivo. È stata un’esplosione, un boato corale di devozioni e azioni collettive, che in certo senso ci ha ricondotti a quelle grandi catastrofi (terremoti, eruzioni, peste ecc.) che hanno comportato simili stati di sospensione del tempo festivo e una riorganizzazione di quello ordinario.

L’argomento è di vasta portata antropologica e qui se ne accenna per ovvi motivi, anche perché non è possibile dar conto di quanto sta avvenendo mentre scriviamo: la ripresa del rito festivo è in corso e va analizzata alla fine del processo di riorganizzazione. Una cosa è certa: la ripresa dei riti festivi, per quello che abbiamo potuto osservare sul campo, è stata imponente, ma soprattutto sentita e partecipata. La ripartenza dopo la pandemia non prescinde dalle feste anzi senza di esse le comunità hanno smarrito le coordinate temporali, il calendario stesso, che scandiva i giorni ordinari e quelli di festa. 

Come dopo le grandi catastrofi storiche (naturali o sociali), le comunità tradizionali moderne hanno ricucito il lacerato tessuto spazio-temporale, spesso riportando alla luce, intensificandoli, antichi e, a volte, estenuati gesti rituali e comportamenti dismessi. Sono riapparsi gli antichi costumi, sono state riprese vecchie icone, i riti si sono riproposti nelle forme più spettacolari, col non velato consenso delle autorità ecclesiastiche, che hanno addirittura favorito se non promosso vecchi e nuovi cerimoniali, curati nei minimi particolari coreografici e spettacolari. La festa di S. Agata a Catania, S. Rosalia a Palermo, l’Assunta a Messina (per citare le tre maggiori di Sicilia) hanno visto la partecipazione di un clero attento ai cerimoniali, un tempo stancamente ripetuti.

La guida egemone del clero ha innescato una partecipazione popolare intensa, laddove negli anni passati tutto si riproponeva stancamente e quasi per abitudine. I processi osmotici dall’alto in basso e viceversa hanno reso le feste sempre più un momento corale di riappropriazione di quello spazio-tempo, che era apparso lacerato e sconnesso.

Palazzolo Acreide durante la pandemia (ph. Salvo Alibrio)

Palazzolo Acreide durante la pandemia (ph. Salvo Alibrio)

La pandemia, dunque, in qualche modo, ha riproposto il tema della risposta dei ceti popolari contemporanei alle calamità naturali e agli eventi luttuosi di natura sociale. Nelle società tradizionali strutturate e ancora poco contaminate dalle nuove tecnologie e dai nuovi linguaggi comunicativi, come detto, il tessuto sociale si è ricucito facilmente, pur nella varietà delle risposte apprestate. Non diversa è stata in fondo la risposta anche in ambito urbano e metropolitano. Da quello che ho potuto verificare si sono riviste forme di pietas popolare legate alle feste di quartiere, che dopo la pandemia hanno ripreso vigore e in qualche modo si sono ristrutturate. Mi riferisco ad esempio alle vampi di S. Giuseppe a Palermo, dove l’accensione dei fuochi ha addirittura assunto i caratteri di una contestazione larvata contro tutti e contro tutto, generando una violenza quasi primordiale, “contestativa”.

C’entra il Covid? Ritengo che la rabbia e insieme il piacere legato alla vampa, quello primitivo delle origini del fuoco rituale, è venuto prepotentemente fuori più rafforzato dalla cesura pandemica, quasi a riaffermare antichi rituali che segnavano il capodanno ciclico, un nuovo inizio, la fine e la ripresa, la notte e il giorno: la vita contro la morte, la vitalità contro la mortalità.

Palermo, Ballarò, Vampe per san Giuseppe, 2024

Palermo, Ballarò, Vampe per san Giuseppe, 2024

Nulla più del fuoco viaggia sul crinale simbolico, sul filo dell’immaginario, ponendo il tema mitico della guarigione, della salvezza, del benessere, della vita tout court. E vitale è il caos che si genera nei fuochi palermitani: un correre forsennato, un accatastare disordinatamente, un caotico carosello di motorette alla ricerca del “rifiuto” da bruciare, dove nel rifiuto non è difficile vedere lo scarto simbolico, il pus endemico che si fa legno, faesite, a volte plastica, rifiuti “indifferenziati” che solo in questa occasione diventano nutrimento vitale, fuoco purificatore.

Il rumore assordante delle bombe gettate sulla catasta segna il tempo del caos, della paura atavica, del suono che non ha senso se non quello di impaurire, di sorprendere, di allontanare comunque ogni male, come avviene nelle feste religiose o in altri avvenimenti civili o privati (matrimoni, nascite, battesimi, cresime… lauree).

In fondo è una festa: paradossale, “incivile”, destrutturata e destrutturante, che manda in bestia l’osservatore analizzante, l’antropologo di antica e solida formazione demoetnoantropologica, abituato ai “sani” fuochi dei villaggi e dei paesi, delle comunità rurali o cittadine ancora solidamente intrise di “folklore”, magari di riproposta turistica. Ma tant’è.

Tornando, per concludere (cosa impossibile), al rapporto Festa-Covid, c’è da analizzare un ultimo aspetto di tale rapporto, legato alla notizia dell’accensione delle vampe in alcuni quartieri palermitani proprio nel momento del divieto assoluto di uscire (lockdown). In questo caso il rapporto fuochi (vampe)-Covid appare in tutta la sua potente crudezza: una forma di “violenta” contestazione, una affermazione di vitale presenza, di esserci nel mondo contro tutti e tutto.

Palermo, Ballarò, Vampe per san Giuseppe, 2024

Palermo, Ballarò, Vampe per san Giuseppe, 2024

La vigilia della festa di S. Giuseppe a Palermo, come in tutt’Italia, è tutto chiuso, tutti dentro a elaborare il “lutto”, la privazione della libertà. Ma non è così per le “bande” di picciotti dei quartieri popolari palermitani, della Kalsa o del Capo, o anche di Brancaccio. Scorrazzano, sono pedi pedi, con le loro rumorose motorette, a raccogliere di tutto, poco poiché anche i rifiuti sono scomparsi dalle strade. A questo punto seguo il racconto del cronista di Repubblica nell’articolo del 19 marzo 2020: 

«Le vampe: nemmeno l’emergenza del coronavirus ha fermato l’inciviltà e quell’usanza assurda di accendere falò in strada nei quartieri di Palermo in occasione di San Giuseppe. E i Vigili del fuoco e i dipendenti della Rap, nel quartiere di Brancaccio, sono anche stati accolti da una sassaiola […]». 

L’articolo di Repubblica continua elencando l’infinità di reati commessi dai picciotti de vampi e degli anziani che se la “godevano: «In strada c’erano soprattutto ragazzini mentre gli adulti si godevano lo spettacolo dalle finestre […]». 

Certo è facile la condanna e la riprovazione, ma qui a noi interessa che in questo come in tantissimi casi la festa è “eversione”, sovvertimento, caos, destrutturazione, “violenza” alle convenzioni con tutto ciò che ne consegue in termini di comportamenti liminali. La festa è «un microcosmo complesso in cui è dato ritrovare, contemporaneamente, tutto e il contrario di tutto» manifestazioni gioiose e rappresentazioni di dolore e lutto; il tempo storico e il tempo mitico. La festa è un mondo che riproduce, per affermarlo, negarlo o migliorarlo, il mondo del quotidiano. La genericità con cui ci si approccia al tema della “riconoscibilità” della festa, alla sua essenza, al suo significato sta nella difficoltà di trovare schemi di classificazione e interpretazioni univoche, validi nel presente moderno, formulette da ripetere in forma oracolare.

Capizzi, festa di san Giacomo, la vara sfonda il muro (ph. Luigi Lombardo)

Capizzi, festa di san Giacomo, la vara sfonda il muro (ph. Vincenzo Giompaolo)

Parziali e spesso non adeguate al presente storico sono le classificazioni elaborate nel tempo dai folkloristi europei. Alcuni di essi, fondandosi sui motivi che le hanno generate, distinguono feste su tema liturgico o leggendario, su fondo miracoloso, stagionali, espiatorie, di indole extraliturgica e così via; mentre, collegandole con gli avvenimenti ciclici dell’anno, distinguono le feste cosiddette calendariali, come quelle del ciclo dei dodici giorni (da Natale all’Epifania), del carnevale, della Pasqua e via dicendo. Altri, semplificando, dividono più semplicemente le feste in calendariali e patronali: le prime sono legate al corso dell’anno e dunque sono le più diffuse; le seconde hanno spesso carattere più locale, perché connesse ad un santo protettore di una città o di un paese o addirittura solo di un quartiere e di una comunità particolare.

Ma l’universo festa è una complessa galassia che respinge ogni schema classificatorio rigido. Ad altro bisogna guardare, ad esempio 

«alla forza iterativa delle strutture formali dei riti, alla “forza della tradizione” alla radicata tendenza da parte delle società  a conservare e tramandare quanto si dimostri di provata efficacia, fornendo soluzioni collaudate in millenni di pratica materiale e simbolica, all’intenso bisogno di sacro nell’inesauribile ricerca di certezze al proprio esserci, [al]la precisa scelta delle singole comunità di riconoscersi e affermarsi attraverso la ripetizione della festa quale momento fondante della propria appartenenza sociale e culturale» (Buttitta I. E., 2002: 8). 

Ragioni tutte che hanno garantito il perdurare nel tempo e il rinnovarsi al contempo delle tradizioni festive. Definire la festa è, certo, compito arduo: si finisce quasi sempre nel vago delle cose generali, o nello stretto limite del particolare. Come scrive F. Giallombardo (1990: 9): «Gli innumerevoli tentativi di dare una definizione di festa [hanno] finito per “de-finirla”, col chiuderla, appunto, entro confini troppo riduttivi lasciando sfuggire l’intera sua ricchezza di senso».

Un dato comune è tuttavia possibile coglierlo già da subito e che mette d’accordo tutti: la festa è avvenimento straordinario della vita della comunità, uno iato del tempo ordinario. «La festa designa un momento diverso da tutto il resto del tempo: un momento ricorrente e decisivo in cui l’esperienza del sacro si fa particolarmente commovente e immediata e comporta la celebrazione di determinati riti» (Jesi 1977: 7). Nel marasma delle definizioni storiche è possibile isolare due concettualizzazioni e dunque in sintesi due “definizioni”: la festa come trasgressione e la festa come reintegrazione nel sociale [2], che poi sono due processi che devono necessariamente, come vedremo, fondersi. 

Palermo, Ballarò, Vampe per san Giuseppe, 2024

Palermo, Ballarò, Vampe per san Giuseppe, 2024

Festa come trasgressione 

Il concetto di festa come trasgressione muove dalle rivoluzionarie intuizioni di Freud (1975: 144) quando definisce la festa «un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto. [...] eccesso che è nella natura stessa della festa; l’umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che altrimenti è proibito». Questa definizione fu sviluppata da studiosi del sacro, come Bataille che definisce la festa «sperpero di energie materiali e spirituali, ostentazione e sovrabbondanza»; e come Girard per il quale, se il sacro è violenza, la festa è il piacere connesso all’infrazione di ogni divieto.

Su questa scia, ma discostandosene progressivamente, si muove il Caillois per il quale la festa è «l’istante in cui l’ordine cosmico è soppresso [in cui] tutti gli eccessi sono leciti. Bisogna agire contro le regole, tutto deve accadere alla rovescia: nell’epoca mitica il corso del tempo era invertito». Le riflessioni di Caillois preludono chiaramente alla scuola sociologica e funzionalista del Durkheim, il quale se parla di festa come «momento della vita sociale di durata variabile, che interrompe la sequenza delle normali attività quotidiane, a esse opponendosi come periodo di particolare effervescenza» (Durkheim 1912: 51), si affretta a riconoscere in essa una modalità per il reintegro nel seno della società attraverso il recupero del concetto di festa come ricordo delle origini del gruppo sociale, che in questo modo rientra in possesso della sua Storia più autentica, in cui rifonda sé stessa. Gli eccessi trasgressivi della festa ricreano sì il caos, ma per superarlo nel riconoscimento del cosmos ordinato, che da esso scaturisce: i simboli emblematici che si processionano o si ostentano nelle cerimonie contribuiscono alla conservazione dell’equilibrio sociale, trasmettendo di generazione in generazione i presupposti del vivere sociale.

Giunti a questo punto è vero che ad un dato momento le due concettualizzazioni si devono necessariamente fondere, perché il caos è sempre premessa di ordine nel cosmos dell’organizzazione sociale. Già in esse si insinua, tuttavia, una visione più univoca, una concettualizzazione che sarà sviluppata abbondantemente da Eliade (1968). Si tratta dell’attenzione rivolta al concetto di tempo, declinato in vario modo. Nella sua definizione tutti i settori dell’antropologia italiana, che vi hanno lavorato, in un modo o nell’altro, sono debitori appunto di M. Eliade, che a più riprese parla di festa come interruzione della temporalità e della spazialità, come totale esigenza di negazione del tempo profano.

Palermo, Arenella, Vampe per san Giuseppe, 2024

Palermo, Arenella, Vampe per san Giuseppe, 2024

Da questo concetto occorre partire, ad esso occorre pervenire. Sul tempo festivo gli uomini fondano il tempo quotidiano. Questo deve essere depurato perché si possa riprendere il nuovo cammino. É necessario che vi sia ciclicamente un ricominciamento, una rifondazione, un capodanno. Il tempo festivo è il tempo del meraviglioso; in esso tutto è possibile, le norme che regolano la vita quotidiana sono sospese: al tempo della festa appartengono l’abbondanza, la ricchezza, la salute (sempre che tutto avvenga nella sfera della condivisione comunitaria, altrimenti è solo pedestre psicologismo di massa).

L’elaborazione sempre più precisa del concetto di tempo strutturato consente a questo punto agli antropologi di spaziare in praterie aperte senza i vincoli di definizioni troppo rigide e parziali. Essa consente di capire la sostanza dei fenomeni festivi, i loro tratti unificanti, sui quali si fonda la possibilità (se non certezza) della loro sopravvivenza nel tempo. Sul tempo discreto, sul tempo rifondato periodicamente si snocciola in definitiva l’immaginario festivo con i suoi riti e i suoi miti.

E i ragazzi delle “vampe” di San Giuseppe di Palermo, oggetto di critiche da parte dei benpensanti? Sono e saranno là con la loro forza oppositiva, anarchica e destabilizzante, a beccarsi denunce e rimbrotti delle autorità, ogni anno a ricordarci che quella festa è la “loro” festa, anarchica e “scassapalle”, giocata sul filo del rasoio della legalità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] Tra gli studi specifici sul tema delle catastrofi naturali o pandemiche mi piace ricordare, in questa sede, una serie di articoli usciti su Dialoghi Mediterranei, tutti di altissimo livello sia informativo che scientifico. Alcuni sono stati raccolti in volume dall’autore stesso in G. Gugg, Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino 2023. Si tratta di volume scritto “a caldo”, che ha meriti scientifici indubbi, con qualche punto su cui il sottoscritto con molta umiltà dissente. Io mi sono occupato di catastrofi  anni fa e l’argomento mi è caro. Tra le pubblicazioni dedicate al tema ricordo, su tutte, Catastrofi e storie di popolo, Ragusa, Le fate, 2015, con allegato CD, che riprende una monografia del 1993, con cassetta audio allegata e canti di Carlo Muratori.
[2] Per una rassegna delle varie definizioni di festa cfr. Jesi 1977; Giallombardo 1990; Buttitta 2008: 252 e sgg.

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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (2023).

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