di Stefano Montes
In un saggio precedente, pubblicato su Dialoghi Mediterranei, proponevo un’antropologia fondata su una pratica dell’indisciplina produttrice di un costante decentramento di prospettive e di una sistematica riconversione dei ruoli e delle aspettative configuranti la semantica dell’ordine e disordine, dell’ordinario e straordinario (Montes 2023a). Proponevo di mettere l’accento sui processi e sulle interconnessioni dinamiche in uno prospetto di libero divenire, più che sui risultati e sulle immobilità statiche delle conclusioni finalizzatrici di una ricerca. Comparavo e associavo l’andamento in divenire di una ricerca – inclinazione che prediligo in antropologia – al vivere e alle sue necessarie rimodulazioni generate nel tempo. Più che chiudersi in se stessa – sottolineavo – l’antropologia deve, a partire da questa ipotesi secondo cui stile della ricerca e vivere si mescolano, instaurare un dialogo con le altre discipline attraversandole, attraversando se stessa, insistendo sulle entrate e sulle uscite che delimitano – e allo stesso tempo costituiscono vie di transito – dei propri e altrui saperi.
Si poneva e si pone, così, in questo fluire di prospettive, la questione dell’inizio: da dove incominciare? E quali ‘entrate’ e ‘uscite’ prendere in conto, più esattamente, al fine di produrre un’antropologia degli attraversamenti indisciplinati e persino antidisciplinari? Insomma, quali attraversamenti affrontare – in ogni caso, in prima persona, per meglio decentrarsi in quanto soggetto dell’enunciazione – rimanendo nella prossimità del divenire e dell’enunciare? Come ricorda Deleuze, «i tipi di divenire […] sono orientamenti, direzioni, entrate e uscite» (Deleuze, Parnet 1998: 8). Scegliere e attraversare entrate e uscite, possibilmente riconvertendole, richiede il riconoscimento preliminare delle soglie che si frappongono tra il divenire del soggetto e la mobile dimensione spaziale che lo accoglie situandolo. Questo riconoscimento relativo alle soglie ha felici ricadute sul soggetto, sulla riconsiderazione più dinamica della sua stessa definizione: di fatto, essendo impossibile sganciarsi, in quanto soggetti, dallo spazio e dalle sue relazioni con esse instaurate si viene a creare, nel tempo, un rapporto stretto tra la configurazione – d’insieme e liminare – dello spazio e le tipologie di soggettività culturalmente prodotte.
Come ricorda Merleau-Ponty, «i nostri rapporti con lo spazio non sono quelli di un puro soggetto disincarnato con un oggetto lontano, bensì quelli di un abitante dello spazio con il suo ambiente familiare» (Merleau-Ponty 2002: 28). Se, dunque, gli spazi accolgono il soggetto all’interno di una cultura e contribuiscono alla sua definizione, è allora fondamentale che le soglie materiali e rituali che consentono la sua trasformazione di status vengano prese in conto e debitamente studiate sia nel caso in cui vogliano essere accettate, sia nel caso in cui vogliano essere rifiutate o rielaborate. Passando da uno status all’altro, il soggetto diviene nel tempo altro da sé, trasformando il suo stesso rapporto con lo spazio. Di conseguenza, individuare entrate e uscite significa presupporre – proponendole, riconoscendole, agganciandole al soggetto – delle soglie con cui confrontarsi, per poi eventualmente superarle e risemantizzarle.
In questo contributo, intendo mettere l’accento proprio su alcune delle soglie sulle quali ho lavorato in passato e su altre sulle quali lavoro nel presente della mia ricerca. Intendo farlo, discutendole, sinteticamente. Lo scopo precipuo è quello di comprendere meglio la configurazione d’insieme di soglie e attraversamenti, nonché la loro eventuale associazione con la nozione e pratica di rituale. L’accentuazione di queste soglie mi spinge, qui, a definirle, in un modo o nell’altro, facendo riferimento a testi e autori le cui pratiche antropologiche e filosofiche sono contigue alle mie o dalle quali prendo le distanze con sospetto e diffidenza. La riflessione, a tal fine, è d’ordine comparativo ma anche metalinguistico, dal momento che permette, in sostanza, di ritagliare un linguaggio più specialistico a cui fare capo proficuamente nelle future pratiche dello studioso.
Uno dei testi più interessanti, in antropologia, per un affondo di principio sulla questione delle soglie è, dal mio punto di vista multi-situato, il volume Riti di passaggio di Van Gennep. Si tratta di un testo fondamentale non soltanto per una riflessione sul rito in sé, ma anche per un approfondimento relativo alla nozione di soglia a partire dalla quale lo stesso Van Gennep definisce il rito e il passaggio. La parte concettuale del testo di Van Gennep, che viene per lo più discussa dagli studiosi e riportata nei manuali di storia della disciplina, riguarda solitamente la concezione tripartita del rito di passaggio di cui l’autore è il fautore. Van Gennep, più esattamente, parla di una specifica configurazione tripartita del rito di passaggio comprendente la separazione, il margine e la riaggregazione. L’individuo, in questo schema, passa da uno status all’altro separandosi dal gruppo, rimanendo in uno stato di sospensione e margine, per poi riaggregarsi al gruppo, trasformato dall’iter che lo ha accompagnato nel transito da una posizione all’altra. L’accento è grandemente posto sulla soglia che divide i due mondi, quello del prima e del dopo, e «varcare la soglia significa aggregarsi a un mondo nuovo» (Van Gennep 1981: 18).
Van Gennep dà un numero estremamente ricco di esempi, ricavati in molte e diverse culture, mostrando una competenza vastissima relativa agli usi e costumi dei tanti popoli presi in conto; si concentra, tra gli altri, soprattutto sui riti di grande portata che hanno a che vedere con la nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la gravidanza e la morte. Per questa straordinaria capacità di sintesi e di individuazione di relazioni, Van Gennep è stato lodato ma anche criticato: è stato lodato perché ha posto l’accento, in modo sintetico e brillante, su alcuni snodi importanti del rito e della stessa nozione di passaggio; è stato criticato, invece, perché la sua concettualizzazione è stata considerata elementare, in qualche modo riduttiva della grande complessità implicita – sottesa – nei processi relativi alla ritualità. Resta il fatto che il passaggio, in ogni caso, quali che siano le critiche, in quanto nozione e pratica merita un posto importante nella riflessione antropologica poiché rappresenta un possibile momento trasformativo di ruoli generali oltre che di status individuali.
Va dunque preso in conto nella sua generalità e specificità, se non altro perché il principio di base è valido comunque: «tutti gli individui passano senza posa attraverso una serie di stati e passaggi, dalla vita alla morte e dalla morte alla vita» (Van Gennep 1981: 170). Nel suo volume, Van Gennep dà per scontato che il passaggio attraverso una soglia da un comparto all’altro sia l’elemento di fondo dell’agire umano. Lo ribadisce, più volte, nelle conclusioni, spesso in tono riepilogativo: «Abbiamo visto l’individuo inquadrato, sincronicamente o per stadi successivi, in compartimenti diversi, e obbligato a sottomettersi, dal giorno della sua nascita a quello della sua morte, a cerimonie spesso differenti nelle loro forme, ma simili per il loro meccanismo: tutto ciò per poter passare da un compartimento all’altro, al fine di riuscire ad aggregarsi a individui classificati in compartimenti diversi» (Van Gennep 1981: 164). Van Gennep dà ugualmente per scontato il fatto che il passaggio di cui egli parla sia sinonimo di superamento di una soglia rituale: non ne discute le implicazioni metantropologiche ed epistemologiche. In effetti, al cospetto di una soglia si possono presentare diverse reazioni da parte del soggetto che deve affrontarle: 1. ci si può rifiutare di superarla ripiegando su altro; 2: ci si può rassegnare all’immobilismo che consiste nel risiedere nell’incertezza; 3. ci si può avventurare nella ribellione intenzionale alla stessa ideologia rappresentata dalla soglia.
In un saggio precedente, ho preso come riferimento una novella di Joyce per spiegare le diverse possibilità che si presentano a un soggetto che deve – dovrebbe – passare da un comparto all’altro per cambiare il suo status (Montes 2003b). La novella di Joyce che ho preso in conto è Eveline. Questa novella fa parte della raccolta intitolata da Joyce Dublinesi. Le novelle raccolte nei Dublinesi sembrerebbero essere, di primo acchito, dei testi meno avanguardistici delle altre opere quali, per esempio, l’Ulisse o Dedalus. In realtà, la mia ipotesi è che Joyce, più che sul piano dell’espressione (e sui flussi di coscienza per i quali è soprattutto noto), lavora sul piano del contenuto – un contenuto che riguarda i comportamenti sostanziali – mettendo in scena diversi personaggi che si trovano al cospetto di soglie da superare ma rimangono immobilizzati, per una ragione o l’altra, e non riescono ad andare al di là del confine posto dalle varie situazioni-limite.
La storia riguardante Eveline è, tutto sommato, semplice. Si tratta di una giovane dublinese a cui è morta la madre che, delusa dalla vita familiare e dal padre tirannico, decide di fuggire con Frank, un marinaio del quale si è innamorata. Gli dà appuntamento alla stazione marittima, ma, una volta giunta sul posto, rimane misteriosamente bloccata e non riesce ad andare oltre la soglia messa in scena materialmente dal recinto che la separa dai passeggeri che devono partire ed equivalente, simbolicamente, all’incapacità di agire. Facendo riferimento a queste novelle, più in generale, Joyce dirà che rappresentano allegoricamente gli abitanti di Dublino, una città che, a sua volta, viene intesa come una sorta di ombelico del mondo in cui si mettono in scena incapacità ad agire e debole volontà di passare ai fatti da parte dei soggetti preposti al fare. Ovviamente, stiamo parlando di un testo letterario che contiene anche un punto di vista autoriale e una poetica più specifica di uno scrittore: non ho intenzionalmente preso in conto questi aspetti. È invece un testo che ho preso come esempio per spiegare in che modo si reagisce, in alcuni casi, alla presenza di una soglia da superare per potere cambiare di status e di vita.
I testi letterari, più in generale, contengono modelli culturali e mettono in scena – implicitamente ed esplicitamente, soprattutto nei grandi autori – snodi culturali della massima importanza sociale e culturale. Inoltre, anche se dovessero essere totalmente inventati, i testi letterari simulano, spesso, situazioni effettivamente realizzabili – o realizzate – oppure, ancora, dei mondi possibili la cui capacità immaginativa è parte integrante della cultura e dei suoi modi di rappresentare se stessa. Così è, secondo me, per le novelle dei Dublinesi. A partire da Eveline, sempre nello stesso saggio, ho parlato delle varietà di produzione del senso e, facendo riferimento ad antropologi e semiologi quali Greimas e Barthes, ho ulteriormente approfondito la questione prendendo in conto la categoria continuo/discontinuo. Perché? Di fatto, la soglia è una forma di discontinuità che, nell’ipotesi di Van Gennep, rappresenta la frontiera da superare al fine di passare da un comparto sociale all’altro e dare avvio – e, possibilmente, soluzione – al rituale stesso. In realtà, benché non sia espressamente presa in conto da Van Gennep in questi termini, la soglia può rappresentare – come nel caso di Eveline – anche uno scoglio insuperabile o momenti di crisi con cui un soggetto deve fare i conti.
Per tradurre la questione nei termini di Van Gennep, si può dire che la soglia, benché ritualizzata, non viene superata in quelle situazioni in cui il passaggio non si rivela essere benefico per l’individuo che vi si sottopone e il rituale inefficace; altrimenti, prendendo le distanze da Van Gennep, si può ancora dire che il rituale, benché previsto, viene rifiutato dall’individuo che entra in dissenso con le regole sociali soggiacenti e con la concezione stessa del passaggio messa in opera da parte della collettività. Per potere essere efficace, in sostanza, le regole soggiacenti il rituale devono essere condivise dal ‘soggetto che passa’ e dalla collettività che istituisce il suo passaggio. Questa ipotesi dovrebbe essere presa in conto sia in tutti quei grandi rituali di cui parlava Van Gennep – per esempio, il fidanzamento, il matrimonio o la morte – sia in quei riti più moderni di – soltanto – apparente minore portata in cui il soggetto ha effettivamente l’intenzione di passare da un comparto all’altro, ma viene bloccato da coloro i quali, nella loro ‘valutazione’, non lo ritengono adatto o scarsamente preparato ad affrontare il passaggio; oppure, ancora, può succedere allorquando la collettività considera inadeguata, a cose fatte, la realizzazione del passaggio effettuata dall’individuo.
Il riferimento va a tutti quei rituali moderni che prevedono una valutazione da parte di un attore collettivo e una preparazione individuale legittimata da regole sociali dall’altra. L’istituzione scolastica o quella accademica ricade in questa tipologia di rituale. Un esempio per tutti potrebbe essere l’esame scolastico oppure quello universitario. Se debitamente presi in conto, questi tipi di rituali obbligano a focalizzare l’attenzione sulla critica prodotta da Bourdieu nei confronti di Van Gennep e della sua concezione di rito di passaggio. Bourdieu critica all’autore dei Riti di Passaggio il fatto che, nell’atto del passare – di cui Van Gennep parla nella sua opera – si tiene conto soltanto del soggetto che si sottopone al rituale allo scopo di ottenere una trasformazione di status e non di tutto il resto. Secondo Bourdieu, i riti di passaggio, nei termini in cui ne parla Van Gennep, tengono conto del passaggio ma non della sua istituzione da parte della collettività.
Nella prospettiva di Bourdieu, in effetti, i riti di passaggio sono indissociabili dai riti di istituzione: se è sempre vero che qualcuno passa – sottoponendosi a un rituale – è anche più vero che, dall’altra parte, esiste un ‘gruppo di potere’ che decide se questo passaggio può essere preso in conto e accettato o, al contrario, rifiutato. L’ipotesi di Bourdieu porta a una diversa concezione della soglia, quindi, non più intesa come un limite posto da una società ipoteticamente indifferenziata e neutrale. Nell’ipotesi di Bourdieu, il rito di passaggio avviene in conformità a una società che è diversificata – soprattutto nelle sue classi sociali – e richiede delle prove ai propri membri che non valgono per tutti allo stesso modo. In altri termini, essendo il rito di passaggio anche un simmetrico rito di istituzione, si producono distinzioni regolate dall’alto, secondo regole previste dal gruppo che le ha prodotte e che controlla il passaggio nei termini in cui viene da esso adottato. Bourdieu, tra gli altri, fa riferimento al sistema scolastico e prende l’esempio di chi è promosso e di chi è invece bocciato: «l’esame crea differenze radicali, e per la vita. L’uno sarà allievo di una scuola qualificata con tutti i vantaggi afferenti, l’altro non sarà nulla» (Bourdieu 1988: 100). In altri termini, se si prende il passaggio dal punto di vista dell’istituzione, il rito non è soltanto un’attribuzione di status e di trasformazione personale, ma risulta anche essere un vero e proprio processo di selezione che si svolge secondo le regole della comunità che lo legittima sulla base delle proprie aspettative e dei propri criteri differenziali. A proposito di differenze, un esempio di Bourdieu, quello relativo alla circoncisione, risulta essere particolarmente illuminante:
«Tracciando solennemente il passaggio di una linea che crea una divisione fondamentale nella struttura sociale, il rito attira l’attenzione dell’osservatore sul passaggio (di qui l’espressione rito di passaggio), mentre è la linea il fattore importante. Ma cosa separa questa linea? Un prima e un dopo, evidentemente: il bambino non circonciso e quello circonciso, o anche l’insieme di bambini non circoncisi e l’insieme di adulti circoncisi. In realtà, la cosa più importante, e che passa inosservata, è la divisione che la linea opera tra l’insieme di coloro cui è prescritta la circoncisione, i bambini, gli uomini, i fanciulli o gli adulti, e coloro cui essa non è prescritta, cioè le donne. Vi è dunque un insieme nascosto in rapporto al quale si definisce il gruppo istituito. L’effetto più forte del rito è quello che passa inosservato: trattando in modo differente gli uomini e le donne, il rito consacra la differenza, la istituisce, istituendo, a un tempo, l’uomo come uomo, cioè circonciso, e la donna come donna, cioè come individuo cui non è prescritta questa operazione rituale. È quanto lo studio del rito in Cabilia mostra chiaramente: la circoncisione separa il giovane uomo non tanto dalla sua infanzia, o dai ragazzi che sono che sono ancora nello stadio infantile, bensì dalle donne e dall’universo femminile, cioè dalla madre e da tutto ciò che le viene associato»(Bourdieu 1988: 98).
Per sintetizzare, si può dire che il rito contiene un insieme di prescrizioni che producono separazioni manifeste e consacrano differenze nascoste. Nell’esempio dato da Bourdieu, l’evidente separazione istituita tra uomini e bambini occulta la differenza tra uomini e donne. Se è vero che il rito di passaggio avviene su una linea (per esempio, da bambino ad adulto), è anche più vero che la linea genera una divisione tra coloro ai quali il rito viene prescritto (i bambini) e coloro ai quali non viene prescritto (le donne). Se si tiene conto di questa impostazione ‘politica’ di Bourdieu, si può dire che la soglia non dà semplicemente accesso – come il termine, in origine, sembrerebbe lasciare credere – ma produce inoltre, nel bene e nel male, delle esclusioni. In sostanza, oltre il tragitto lineare che prevede ogni soglia in genere, bisogna tenere conto della stessa divisione che la linea occulta. In questo senso, la critica di Bourdieu alla concezione del rito di passaggio di Van Gennep sembra molto forte perché si individuano quelle che sembrano delle falle incontrovertibili. È anche vero, però, che, se opportunamente limate, le ipotesi di Van Gennep e di Bourdieu possono risultare complementari, per molti aspetti, se non altro nel richiamo che entrambe fanno all’esistenza e al collegamento che si viene a produrre con il senso stesso da attribuire all’esistere. Bourdieu termina il suo saggio sul rito di istituzione nel modo seguente:
«i riti di istituzione, qualunque essi siano, non potrebbero esercitare il potere che hanno […] se non fossero capaci di dare almeno l’apparenza di un senso e di una ragione d’essere a esseri che non hanno ragione di esistere: gli esseri umani; di dare, in breve, loro la sensazione di avere una funzione o, più semplicemente, una importanza e di strapparli così all’insignificanza. Il vero miracolo prodotto dagli atti di istituzione consiste nel fatto che essi lasciano credere, agli individui consacrati, che essi hanno un motivo di esistere, che la loro esistenza serve a qualcosa» (Bourdieu 1988: 107).
Secondo Bourdieu, i riti di istituzione – io direi tutti i riti – danno un senso all’esistenza e convertono l’insignificanza in significato. La parte controversa, forse pure polemica, dell’enunciato di Bourdieu riguarda quella parte in cui lo studioso parla della funzione centrale dei riti di istituzione che consiste nel lasciare credere che l’esistenza serva a qualcosa quando, in realtà, non ne avrebbe. Possiamo davvero dire che, al di fuori dell’attribuzione di senso provvista dai riti di istituzione, l’esistenza non serva a niente? Non sarebbe meglio dire che l’esistenza ha dei sensi molteplici che i riti – ivi compreso i riti di istituzione – contribuiscono a rendere nelle diverse forme che le culture organizzano? Non sarebbe altrettanto opportuno affermare che i riti di istituzione sono concepiti all’interno di una cultura secondo una logica di potere – e di classe – che può essere rifiutata, anche dal basso, o orientata in senso diverso rispetto all’intento originario? È come se Bourdieu non prevedesse forme di vita al di là del senso che i riti di istituzione attribuiscono. Allo stesso tempo, è come se Bourdieu non prevedesse una vera e propria possibilità di insubordinazione alla logica dei riti di istituzione messi in opera da una comunità che, così facendo, produce conformità e occultamenti.
Il fatto interessante è che anche Van Gennep, nelle conclusioni, dà una definizione della vita e spiega che tutto il suo lavoro nei Riti di passaggio, oltre che una riflessione sui riti in sé, è un modo per mettere in luce il legame che esiste tra il passaggio ritualizzato e il senso del vivere. Secondo Van Gennep, «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, mutare stato e forma, morire e rinascere; in altre parole, si tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo diverso» (Van Gennep 1981: 166).
In cosa differiscono le posizioni di Bourdieu e di Van Gennep? Bourdieu associa le pratiche rituali al potere e al suo esercizio che conferisce comunque senso al vivere, mentre Van Gennep pone in secondo piano la questione della regolazione del rituale da parte di chi lo istituirebbe e accentua invece l’associazione al vivere inteso in alcuni suoi specifici aspetti. Non è infatti irrilevante che Van Gennep affermi che la disaggregazione e la reintegrazione dell’individuo in seno alla comunità sono entrambe questione costitutive del vivere concepito in accordo all’agire e all’aspettare.
Insomma, Bourdieu e Van Gennep hanno due diverse concezioni del vivere, benché associno entrambi il rituale e l’esistenza. Ne consegue che anche la concezione della soglia dei due autori muti e metta in scena due prospettive diverse. Nel caso di Van Gennep, la nozione di soglia possiede una linearità che viene associata – in qualche modo neutralmente – al passare dell’individuo da una condizione sociale all’altra. Nel caso di Bourdieu, la nozione di soglia mantiene, anch’essa, una sua linearità che viene, però, ad acquisire minore importanza – nella prospettiva dell’autore – rispetto alla suddivisione tra un ‘al di qua’ e un ‘al di là’ demarcatori della differenza occultata.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
Bourdieu P., “I riti di istituzione”, in La parola e il potere, trad. di S. Massari, Guida, Napoli, 1988 (1982): 97-107, 97-107
Deleuze G., Parnet C., Conversazioni, trad. di G. Comolli e R. Kirchmayr, Ombre corte, 1998 (1996)
Merleau-Ponty M., Conversazioni, trad. di F. Ferrari, a cura di S. Ménasé, SE, Milano, 2002 (1948)
Montes S., “Antropologia come pratica dell’indisciplina”, in Dialoghi Mediterranei, 64, novembre 2023a
Montes S., “Le continu et le discontinu comme organisation de sens. À partir d’Eveline de Joyce”, in Dialoghi Mediterranei, 63, settembre 2023b
Van Gennep A., I riti di passaggio, trad. di M. L. Remotti, Bollati Boringhieri, Torino, 1981 (1909).
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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