di Sergio Buonadonna
Ho conosciuto Nino la notte del 17 o 18 gennaio 1968. Erano i primi giorni del catastrofico terremoto del Belice. Avevo 23 anni, lui tre più di me. E mi trovavo nella redazione dell’Ora, a disposizione per qualsiasi emergenza, ma anche perché in quei giorni e soprattutto in quelle notti L’Ora era diventato un rifugio. Mauro De Mauro, che era molto apprensivo per la sua famiglia – che due anni dopo avrebbe dovuto affrontare ben altra ragione di apprensione, per lui violentemente scomparso –, portava al giornale la moglie Elda e le figlie Franca e Junia. Le metteva al riparo dalla loro casa di via Libertà 203 bis in un piano alto (quinto, sesto?) – e perciò esposto alle scosse del sisma – per poi partire per il Belice e raccontare la tragedia di un popolo.
Nino giunse leggero e felpato, quasi in silenzio, com’è sempre stato, e quella macchina fotografica, di cui è rimasto innamorato fino alla fine e che aveva riempito di scatti del Belice violentato dal disastro. Lui sostiene che io sia stato la prima persona ad aver incontrato e dunque ad averlo accolto. Ma che ci faceva nottetempo (giornale per giornale, mi vien da dire) quel giovanotto di Mazara del Vallo dall’aria timida e dispersa ma dal sorriso accattivante? Semplicemente era venuto per restarci e ci rimase per lunghi anni. Per fare fotografie, ma soprattutto scrivere.
Come i tanti colleghi che giungevano o sarebbero giunti da Salemi, Vittoria, Gangi, Caltanissetta, Trapani, Enna, Messina perché L’Ora era la casa dei comunisti, ma era soprattutto una casa di libertà, di aperture mentali, di giornalismo moderno, di grande cronaca e racconto.
Nino scriveva sempre se stesso. Mi spiego: se fosse cronaca minuta, brevi interviste o pezzo impegnato, il suo tono restava leggero, solidale, illuminato da aforismi che ne svelavano la radicata matrice culturale e dai suoi lampi di saggezza.
Io penso che sia rimasto sempre così anche quando l’ “anzianità” di servizio lo ha portato più a dirigere che a scrivere. Ma anche da questa parte del tavolo, Nino era attento lettore e “recensore” dei pezzi dei cronisti (come una volta usava) e prodigo di consigli. Niente orpelli negli articoli, risparmiare sugli aggettivi che spesso diventavano e diventano tragici e gratuiti luoghi comuni del cronista, e soprattutto era attentissimo alla veridicità dei fatti, alla loro attendibilità. Parliamo di un giornalismo ormai desueto.
Raramente Nino alzava la voce, sempre si disponeva al ragionamento e alla persuasione. Nel privato, magari, si abbandonava ad alcuni esercizi retorici prima di arrivare al dunque. Ma era un gioco animato dalla leggerezza e aggiungerei dalla leggiadria.
E così se n’è andato come era arrivato quella notte in piazzetta Napoli, oggi non a caso via Giornale L’Ora.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Sergio Buonadonna, giornalista professionista e promotore culturale, ha lavorato a lungo al giornale “L’Ora” di Palermo, poi a “La Provincia Pavese”, è stato capo redattore cultura e spettacoli de “Il Secolo XIX”. Ha collaborato ai servizi culturali di Repubblica Palermo e dei quotidiani locali del gruppo L’Espresso. Da anni svolge una proficua attività di organizzatore culturale portando in Italia scrittori di fama internazionale. Tra i libri da lui curati: Calvino da Sanremo a New York (De Ferrari) e Finestra sul Mediterraneo (il melangolo): da Sepulveda a Consolo, 25 scrittori per un G8 dei popoli. È tra i 47 autori de L’Ora edizione straordinaria. Il romanzo di un giornale raccontato dai suoi cronisti. L’ultima sua fatica è L’imbroglio, una disamina del ‘caso Tandoj’ scritto a quattro mani con Massimo Novelli.
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