di Emanuele Buttitta e Gandolfo Schimmenti
«Ti devo far vedere una cosa. Se non mi trovi, lo sai dov’è la chiave», disse al telefono. L’altro viveva poco più in là, nella campagna di Polizzi Generosa. Entrando, guardò, per lunga consuetudine, nella luce soffusa, sul tavolo in fondo, vicino al camino, dove solitamente rifulgeva, solitario, il centro intellettuale della casa: un manufatto, un libro, un autografo, un CD … Quel giorno era una lettera [1]: «Corriere della Sera / 17. I. 31 / Via Pontaccio 12 // Caro Umberto, / un mio amico e illustre scrittore, Marino Moretti […]». Allora girò il foglio e andò alla firma: «G A Borgese». Fu così che l’indomani si trovarono a rileggere, su quel tavolo di legno chiaro che riflette la luce, come un’acqua di pozzo, del quale mai, come vedremo, puoi indovinare le profondità. Era il Natale del 2005.
Corriere della Sera 17. I. 31
Via Pontaccio 12
Caro Umberto,
un mio amico e illustre scrittore, Marino Moretti, vuole – rimettendo su la sua casa a Cesenatico – fare nel suo studio quella ch’egli chiama la parete dell’amicizia; cioè vuole mettere in fila alcune stampe che riproducano aspetti panoramici o in qualunque modo singolari e caratteristici dei paesi natali dei suoi amici. Naturalmente non deve trattarsi di fotografie, ma di stampe che abbiano un qualche valore di curiosità o d’arte.
S’è rivolto a me ripetutamente dicendo: che sarebbe una parete dell’amicizia senza Polizzi Generosa?
E io a chi posso rivolgermi se non all’amico Umberto, podestà del mio paese nativo? Esistono stampe di Polizzi? Possono in qualche modo aversi? A chi ci si può rivolgere? Io, se se ne potessero avere due, le acquisterei tutte e due, perché veramente la mia casa è troppo povera di ricordi polizzani, e mi piacerebbe, mandatane una al Moretti, tenerne una per me.
L’occasione è buona per chiederti: è possibile ancora avere una copia di quella vecchia fotografia del Trittico decorata con lo stemma di Polizzi? Mi piacerebbe tanto di averla.
Vedi quante cose in una lettera. Ciò ti mostri oltre la mia fiducia nella tua amicizia che non vorrà infastidirsi, la mia fedeltà al paese: benché non lo veda ormai da 15 anni: ma il desiderio è forte.
Ricordami a tutti i tuoi. Ti saluta affettuosamente il tuo
G. A. Borgese
Così leggemmo di quell’uomo disperso, che, dopo 14 anni, nel gennaio del 1931, cercava una via per il ritorno a casa: «perché veramente la mia casa è troppo povera di ricordi polizzani, e mi piacerebbe, mandatane una al Moretti, tenerne una per me». E c’era anche tutto il senso dell’amicizia: da una parte, voleva assolvere a un bisogno di Marino Moretti e, dall’altra, cercava l’aiuto del barone e Podestà Umberto Gagliardo. Insomma, «oltre la mia fiducia nella tua amicizia che non vorrà infastidirsi, la mia fedeltà al paese».
Ci sembrò una piccola e bella storia da ripercorrere e testimoniare; soprattutto per quell’amore tanto singolarmente durevole quanto manifestamente irreale che chiamano nostalgia. Borgese aveva quell’età in cui il sole si è fatto alle spalle e cominci a calpestare la tua ombra: a ricordare anche ciò che avevi dimenticato. Concordammo di scrivere alla Casa Museo Moretti per apprendere qual era l’immagine di Polizzi Generosa che, da una parte, aveva materializzato il lungo [2] e profondo [3] sodalizio fra i due scrittori sulla Parete dell’amicizia; e, dall’altra, aveva consentito a Borgese di compiere, dalla parete del suo studio, negli anni a seguire, il nostos virtuale. Dicevamo che un giorno saremmo andati a vedere il nostro paese sulla Parete, «dove ancora si raccolgono le stampe delle città natali dei vari amici, da essi naturalmente donate e firmate» (Moretti, 1960: 213).
La risposta arrivò presto, chiara e amara: «Borgese diede a Moretti una stampa di Northampton nel Massachusetts […] Le invio dunque alcune cartoline: in quella dove c’è Moretti seduto, può vedere sullo sfondo il corridoio con l’inizio della “parete dell’amicizia”» [4]. La Parete esisteva; Polizzi non c’era. Perché? Perché Borgese aveva inviato, il 20 ottobre 1934, una stampa della città in cui risiedeva da soli due anni, dall’estate del ’32? [5] Non era riuscito a procurarsi una stampa di Polizzi? o l’aveva ricevuta, ma aveva scelto comunque Northampton come sua città natale?
Erano passati quattro anni quando cercammo una risposta. Era l’ottobre del 2009. Bisognava innanzitutto appurare se Borgese avesse ricevuto le due stampe che chiedeva: una per la Parete dell’amicizia, l’altra per sé. Telefonammo a chi poteva aiutarci in modo forse decisivo nell’indagine, sebbene non fosse incline alla moda del romanzo giallo. Pregammo Vincenzo Consolo, che sapevamo amico di una figlia di Borgese ed Elisabeth Mann, Dominica, di chiederle se avesse mai visto, in casa del padre, una stampa di Polizzi Generosa e/o la fotografia del Trittico fiammingo. Pochi giorni dopo, apprendemmo da Consolo che Dominica non ricordava alcuna stampa del paese natale di suo padre, né immagine del Trittico. In Comune, consultammo il protocollo in uscita: nei mesi seguenti la richiesta al Podestà, non registrava nulla di indirizzato a Borgese o al Corriere della Sera; come ci aspettavamo. Se Umberto Gagliardo gli avesse risposto, con ogni probabilità lo avrebbe fatto privatamente, come era stato per la richiesta, non senza una ponderata accortezza da parte dello scrittore, considerato l’imbarazzo che la missiva avrebbe creato al Podestà, per ragioni che più avanti vedremo. Fatto sta che della stampa di Polizzi e della fotografia del Trittico non v’era alcuna traccia, né in casa Borgese né in casa Moretti. Concludemmo che lo scrittore polizzano non aveva ricevuto nulla. Eppure, all’epoca, di stampe ne esistevano diverse: Polizzi, che Federico II, Stupor Mundi, volle Generosa, era stata una delle più importanti città della Sicilia in epoca antica e medievale, una delle poche demaniali dell’Isola. Impossibile che non fossero nella disponibilità del barone e Podestà. E la fotografia che era patrimonio comune e quotidiano della borghesia polizzana? Umberto Gagliardo di Casalpietra aveva eluso la richiesta dello scrittore. Perché? perché mai negare a un uomo pure la memoria? a un amico di famiglia? Era inquietante e commovente. Ma temevamo d’essere al punto in cui le tracce si perdono, e restano le domande.
Scrivemmo ancora a Casa Moretti, per sapere della corrispondenza fra i due scrittori lì custodita e chiedere copia del capitolo dedicato a Borgese nel Libro dei miei amici di Moretti. Rivelatrice, arrivò la risposta; perché, nel Libro dei miei amici, lo scrittore di Cesenatico riportava la lettera di Borgese del 21 ottobre 1934 – che seguiva la spedizione della stampa di Northampton fatta il giorno prima direttamente dalla libreria in cui l’aveva acquistata –, in cui si leggeva: «È di modesto valore artistico [la stampa], e non meno modesti sono i quattro versi che ho press’a poco trascritti da una pagina delle mie vecchie Poesie. Per strada poi mi accorsi che una parola della quartina m’era rimasta nella penna; ed era troppo tardi per tornare» (Borgese 1934d: 213). Borgese aveva dimenticato una parola nella dedica della stampa? o l’aveva omessa? «Nella stampa borgesiana faceva però sfoggio, oltre la dedica, un’ampia strofa del donatore poeta, in buon inchiostro laddove una parola veniva omessa ad arte in fin di verso: “libertà”» (Moretti 1960: 213). Riprendemmo la lettera inviataci da Casa Moretti, quattro anni prima; e lì rileggemmo la dedica di Borgese, nel verso della stampa, con il particolare che allora scioccamente c’era sfuggito: «A Marino Moretti, G.A. Borgese / 20 ottobre 1934 / “I treni lunghi ronzando per le piane, mi hanno portato nomade di città in città. / Questa volta ho sentito le campane che annunziavano finalmente la / Le Poesie, 1922”. Sabato Santo in riva al Connecticut». Sì, un vocabolo era stato omesso: «… libertà», era la parola mancante.
E non solo: Borgese aveva riscritto profondamente i versi della poesia Gli arrivi riportandoli nella dedica; tanto da capovolgerne il significato. Nella raccolta Le Poesie, aveva scritto: «Ogni volta, prima d’arrivare, mi pareva di sentire le campane che annunziavano finalmente la libertà» (Borgese 1922: 173) [6]; e ora: «Questa volta ho sentito le campane che annunziavano finalmente la …». La ricercata omissione della parola appalesava la volontà dell’autore di rimarcarne la centralità nella significazione testuale. Borgese, nella riscrittura dei versi con la dimenticanza ad arte della parola, diceva di avere trovato a Northampton la libertà che aveva a lungo cercato; e pertanto la eleggeva a sua città natale: «ora t’ho fatto mandare da una libreria la stampa della mia città nativa» (Borgese 1934d: 213). Nell’evadere la richiesta fattagli almeno quattro anni prima [7], inviando la stampa di Northampton, Borgese spiegava la ragione della scelta: «Questa volta ho sentito le campane che annunziavano finalmente la [libertà]». La libertà che non aveva trovato nei luoghi in cui aveva vissuto, aveva scritto dodici anni prima: «Ogni volta, prima d’arrivare, mi pareva di sentire le campane che annunziavano finalmente la libertà». Anche a Polizzi Generosa, dunque. D’altra parte, lo aveva già scritto chiaramente: in quelle pagine del romanzo omonimo in cui Rubè (Borgese) [8] rinunzia al ritorno a Calinni (Polizzi Generosa), obiettivo suo ultimo e dichiarato, pur essendo ormai a pochi chilometri, fermo alla stazione di Campagnammare (Campofelice di Roccella).
Ma la mancanza di libertà del passato, dei luoghi in cui aveva vissuto, rivissuta nel testo letterario, nelle Poesie e nel Rubè, non gli aveva impedito di riconoscersi ancora in Polizzi Generosa, richiedendo la stampa del paese, quando Moretti gli aveva scritto per la Parete dell’amicizia. Non poteva essere quindi una mancanza di libertà tutta al passato, quella di cui scriveva Borgese nella dedica della stampa di Northampton per giustificarne la scelta; quella che lo induceva a disconoscere Polizzi e a identificarsi in una città straniera alla memoria. Ci doveva essere una mancanza di libertà al presente: una nuova privazione, prigionia, pena. E noi sappiamo qual era: allo scrittore polizzano erano state negate la stampa del paese e la fotografia del Trittico: la libertà di amare il proprio paese, di ritrovare l’ubi consistere nell’infinito evocativo delle dilette immagini della terra della nascita e dell’infanzia. Borgese aveva dunque compreso il rifiuto e infine ne aveva preso atto.
Ma fu sufficiente il silenzio del Podestà a indurlo ad abbandonare la ricerca della stampa di Polizzi? a convincerlo che le campane della libertà non avrebbero mai suonato al suo paese? Cosa accadde dopo la lettera a Umberto Gagliardo? Dopo aver cercato l’aiuto di chi anagraficamente non poteva essergli stato amico (il Podestà era di 15 anni più giovane) negli anni trascorsi a Polizzi, quelli dell’infanzia e, limitatamente al periodo estivo, dell’adolescenza, Borgese scrisse a macchina, il 17 aprile 1931, tre mesi dopo la lettera al Podestà, da Milano, al Presidente della Biblioteca comunale del paese, l’amico Luigi Carini, in risposta a una richiesta di sue pubblicazioni. Lo scrittore mandò quel che aveva, perché «parecchie cose sono completamente esaurite e irreperibili»; aggiungendo: «profitto subito della tua affettuosità: io desidero molto che Polizzi sia rappresentata nella mia casa e non ho nessun ricordo. Io vorrei acquistare, pagando s’intende il prezzo, la fotografia del grande Trittico, l’immagine tradizionale del santo, e una qualche vecchia stampa che riproduca il paese panoramicamente, o qualcuno dei suoi aspetti caratteristici. Di questa stampa vorrei acquistare due copie: il mio amico scrittore, Marino Moretti, fa una raccolta di stampe dei paesi nativi dei suoi più cari amici e desidera averne una del mio paese. / Fammi avere, ti prego, e al più presto, notizie sulla possibilità che io sia contentato» [9]. In modo a primo avviso sorprendente, Borgese non faceva alcun cenno alla precedente lettera al Podestà. Ma, a ben pensarci, era ovvio che fosse così: dichiarare inevasa la prima istanza, quella fatta a Gagliardo, significava esplicitarne l’ostilità nei propri confronti; e ciò avrebbe reso quanto mai improbabile, al Presidente della Biblioteca comunale, soddisfare la richiesta di Borgese. Lo scrittore nascondeva, all’amico, la prima lettera. Eppure sapeva che se Umberto Gagliardo, Podestà del paese, aveva cercato la stampa, lo aveva fatto anche in Comune e specificamente in Biblioteca, allora come ora peraltro ubicata nel palazzo municipale. E così sarebbe anche stato chiaro, a Carini, che Borgese lo stava ingannando tacendo sulla propria richiesta al Podestà. Il silenzio sulla lettera a Gagliardo ci dice che lo scrittore dava per certo che questi non aveva cercato le stampe e le fotografie, e che, conseguentemente, Carini nulla sapeva della sua precedente istanza. Sappiamo che anche questa preghiera al Presidente della Biblioteca rimase inascoltata.
Ci stavamo chiedendo: perché negare a un uomo la memoria identitaria? agire contro Borgese – come egli stesso ci ha indicato nella dedica a Moretti – questa estrema coercizione della sua libertà? Tale era, a Polizzi e in Italia, l’avversione nei confronti di Borgese? tale che per molti era un nemico, e per pochi un amico da dimenticare? In definitiva, cosa intendeva lo scrittore quando diceva che le campane della libertà non avevano mai suonato al suo paese? a quali eventi del passato pensava? Dobbiamo fare un passo indietro e riprendere una storia in parte nota. A Milano e all’Università, quando G.A. Borgese aveva scritto al Podestà di Polizzi Generosa, il clima politico gli era violentemente ostile. Più volte, le sue lezioni di Estetica erano state disturbate e/o interrotte dai giovani della Gioventù Universitaria Fascista, già prima dell’inverno 1930, quando il Duce stesso era intervenuto con telegramma, su sollecitazione di Borgese, ad ammansire i gerarchi fascisti locali. L’8 febbraio 1930, lo scrittore aveva scritto in tal senso a Lando Ferretti, vecchia conoscenza milanese, capo ufficio stampa del Duce, «al quale aveva spesso potuto far giungere la sua voce grazie ai buoni rapporti che conservava con Arnaldo Mussolini, fratello del capo del governo» (Mezzetti 1978: 34). Senza una soluzione definitiva; sino all’aggressione, il 18 maggio 1931, di due studenti, in quanto allievi di Borgese. Il rilievo intellettuale della sua figura, nel Paese e a Milano, aveva però sconsigliato al Regime di spingersi oltre poiché era certamente uno fra i più noti intellettuali non fascisti. Anche se risaltava e risalta ancora «il silenzio di Borgese in un periodo pur grave e drammatico quale fu quello relativo all’affare Matteotti» (Mezzetti 1978: 30), (assassinato il 10 giugno 1924), e il suo rifiuto di firmare il Manifesto degli intellettuali antifascisti (1 maggio 1925); come risalta il fatto che la sua ultima presa di posizione pubblica contro il Regime fu nel 27 giugno 1925 con l’adesione all’Indirizzo di simpatia a Gaetano Salvemini, arrestato dai fascisti per il “Non mollare”. Ma la persistente ostilità fascista per l’«elemento infido» [10], nonostante la sua acquiescenza verso il Regime, era tale che Borgese si risolse a lasciare l’Italia alla volta degli Stati Uniti, nel luglio del 1931, per tenere un ciclo di lezioni all’Università di California Berkeley, a disposizione del R. Ministero degli Affari Esteri. Permanenza che prolungò, sino alla estrema decisione, nel 1934, di non fare ritorno.
Quali erano le ragioni dell’ostilità fascista nei confronti di G.A. Borgese? Bisogna ricordare che egli era stato in prima linea fra gli interventisti contro Austria e Germania, sostenendo la necessità della guerra nei volumi Italia e Germania (Milano, 1915), Guerra di redenzione (Milano, 1915), La guerra delle idee (Milano, 1916), L’Italia e la nuova alleanza (Milano, 1917), e in numerosi articoli sul Corriere della Sera; invitando a combattere il partito della neutralità come partito di disertori. Poi, però, partecipando in vario modo e a diverso titolo alle trattative di pace della Prima guerra mondiale, aveva accettato la perdita della Dalmazia, pur promessa nel Patto di Londra, esponendosi all’accusa, di nazionalisti e fascisti, di essere responsabile della ‘Vittoria mutilata’ (D’Annunzio 1918), «marcato con l’epiteto di “rinunciatario” perché aveva difeso le ragioni della Jugoslavia quando erano giuste» (Piovene 1978: 11). Tanto più colpevole appariva la rinuncia, ricordando che «i profeti primi, in ordine cronologico, del nazionalismo furono poeti (Corradini, Papini, Borgese, 1903) sognatori di espansione e di attività. […] unica sostanza sentimentale, un patriottismo ora filisteo ora retorico, sempre troppo ingenuo per avere validità politica (il sentimento della patria può essere un presupposto, non un elemento della politica)» (Gobetti 1924: 21).
Fu questo tardo maestro del cosmopolitismo fra i primi a sposare e diffondere l’idea che il bene della patria è la legge suprema, sì che il nazionalismo imperialista sconvolse l’Italia. Bisogna ricordare. Perché la memoria ritagliata, oblio di verità, fa sì che la storia dell’uomo si faccia con le sue pagine migliori ma si ripeta in quelle peggiori. Leggiamo Borgese: «Possiamo attendere da questa guerra la liquidazione dell’idea dell’impero universale, non la distruzione dei singoli imperi che sono realtà di fatto e tali rimarranno finché vi siano sulla terra popolazioni e popoli, cioè a dire masse, come sono le africane e in gran parte le asiatiche inconsapevoli di sé e incapaci di self-control e nazioni che, sapendo reggere sé medesime, sono chiamate al dovere di amministrare le razze in istato di minorità. Gli imperi sussisteranno anche finché vi siano terre che i loro abitanti non bastano a fecondare e terre che non bastano ai loro abitanti» (Borgese 1917: 45-46). «Non possiamo negare ammirazione a questo nostro popolo che da otto mesi si è foggiata un’arma ed una volontà, giorno per giorno, e s’è preparato alla guerra con così poco sciupìo di retorica, con così poco gridìo. Se s’era fatto un bel passo da Adua a Tripoli, quale altro passo da Tripoli a oggi! Forse non s’era mai vista nella storia una così meditata ragionevole preparazione alla guerra» (Borgese 1915: XL). E così, per avere fortissimamente voluto la Grande guerra, in cui il Paese aveva profuso infinito sangue, ma essere stato poi «rinunciatario» sulla Dalmazia, Borgese divenne – benché all’epoca delle contestazioni e delle violenze dei giovani fascisti erano ormai passati dieci anni, e fosse «da tempo uscito dalla vita politica» – uno di quei nemici di cui ha bisogno qualunque movimento politico come collante per costituirsi e consolidarsi; tanto più un movimento qualunquista, la cui prospettiva politica è essere contro qualcuno e qualcosa. Sicuramente «motivazioni eminentemente locali e contrasti interni dell’ambiente universitario, con probabili risentimenti personali» (Mezzetti 1978: 33), misero in moto questo classico processo di creazione del nemico. Certo, quando Borgese chiese, al Podestà e al Presidente della biblioteca di Polizzi Generosa, le stampe del paese e le foto del Trittico, l’offensiva del G.U.F. in Milano contro l’intellettuale era al suo culmine, e nota attraverso i maggiori quotidiani nazionali.
Fu solamente questo a indurre Gagliardo e Carini al silenzio? Probabilmente no. L’oblio in cui caddero le richieste dello scrittore ebbe anche ragioni locali. Il fatto è che Polizzi era ostile a G.A. Borgese e alla sua famiglia. Che il rapporto col paese fosse travagliatissimo è indiscutibile. Lo scrittore risiedette per l’ultima volta in paese nel dicembre-gennaio 1916-17, rientrato probabilmente per l’elaborazione familiare del lutto per la morte del fratello Giovanni, avvenuta il 13 giugno 1916 sul Monte Giove, dove era stato schierato il 69° Fanteria, che nei giorni 12 e 13 respinse un imponente attacco nemico subendo pesantissime perdite. Fatto sta che il documento che certifica la morte è ricevuto e registrato all’anagrafe comunale di Polizzi Generosa proprio a dicembre 1916, il giorno 14. Dal gennaio del ’17 al ’31, quando lasciò l’Italia per gli U.S.A., pur molto viaggiando per il Paese, recandosi a più riprese in Sicilia – ancora a maggio del ’31, a Catania e Siracusa, riflettendo sull’imminente partenza in un Discorso sulla Sicilia (ai siciliani)? – egli, come Rubè, non volle ritornare mai a Polizzi Generosa, pur animato da un amore in evidenza in tanti suoi testi. «A un tale che gli imputava a vergogna l’esilio, Diogene di Sinope disse: “O infelice, ma è grazie all’esilio che ho potuto pervenire alla vita da filosofo!”. Quando un tale a sua volta gli disse: “Sono i cittadini di Sinope che ti hanno condannato all’esilio”, Diogene gli rispose: “Ma sono io che ho condannato loro a rimanere a Sinope”» (Diogene Laerzio, Libro VI).
Sulle ragioni della ostilità polizzana nei confronti dello scrittore (costitutiva ma rimossa ragione del cinquantennale ritardo con cui una Fondazione è stata a lui intitolata) e della sua definitiva separazione dal paese nel ’17, non tutto è chiaro. Due cose tuttavia sono note. Primo: egli era giustamente considerato, per i già citati articoli e volumi pubblicati prima e durante la Grande guerra, uno dei maggiori animatori dell’irredentismo italiano e responsabile del conflitto che tanti morti aveva causato a Polizzi Generosa: 98 su circa 8500 abitanti. E ciò al pari del fratello, avv. Giovanni: Presidente del Gruppo giovanile nazionalista di Palermo e ivi Consigliere comunale nel 1914, quando fu eletto dal Congresso membro del Comitato centrale della stessa Associazione Nazionalista Italiana; «tra i primi organizzatori del nazionalismo in Sicilia e tra i più fervidi assertori nella sua regione della necessità della guerra contro l’Austria» (Necrologio 1916a), «il maggiore leader della Destra Nazionale dell’anteguerra in Sicilia» (Scaglione 2000), morto in azione col grado di Capitano, colpito in fronte da una scheggia di granata, che «mai ebbe preoccupazioni democrateggianti, le correnti internazionali considerava sorpassate: una bestemmia solo discuterle» (Necrologio 1916b). Tale ostilità è ancor oggi testimoniata a Polizzi Generosa da quanti ricordano quel che dicevano i nonni o i genitori [11]. Secondo: non era certo gente che si faceva ben volere. Che i Borgese fossero ‘tipi difficili’, come si dice, e non godessero di simpatie diffuse lo attesta lo scrittore stesso allorché illustra il loro carattere e la loro immagine pubblica nelle lettere allo zio Giovanni: quando dice di sentirsi Borgese perché non gli piace fare l’ebreo errante né fare favori alla gente che non conosce né fare la parte del minchione; quando racconta che, vivendo a Roma, preferì una lontana, pessima e provvisoria sistemazione in una nuova abitazione piuttosto che il trasferimento, propostogli dalla tenutaria, in una stanza uguale a quella in cui stava, e nello stesso appartamento, per l’unica ragione che gli era rimasta: per ripicca (Tumminello 1988: 250-51). Né col tempo cambiò carattere: «la quale pieghevolezza sembra, a quel che dicono, fra le caratteristiche del mio modo di far versi, anche se non fra le caratteristiche di tutti gli altri miei modi di comportarmi» (Borgese 1934d: 213). Insomma, come scrive Borgese allo zio Giovanni, c’è gente che lascia la gente indifferente; lui, mai: raramente simpatico, più spesso antipatico (Tumminello 1988: 235) [12].
Nonostante Polizzi Generosa non avesse risposto alla richiesta di Borgese, e il Regime lo avesse indotto all’esilio dall’Italia, egli non desistette dalla speranza di ritrovare il suo paese e il suo Paese. I due rapporti continuarono a svilupparsi in sovrapposizione. Ma passarono anni prima che lo scrittore prendesse atto del fallimento. Ci furono probabilmente altre ricerche della stampa e certamente altri tentativi per tenere in vita un rapporto con l’Italia che l’irrigidirsi del Regime comprometteva ulteriormente, prima che Borgese si rassegnasse all’idea della perdita. Ancora il 18 agosto 1933 – sollecitato dalla richiesta del Preside della Facoltà di conoscere le sue intenzioni rispetto al nuovo anno accademico che stava per aprirsi in Milano – scriveva al Duce [13]. Lo scrittore, che era stato «favorevolmente colpito dal movimento [fascista], quale complesso fattore di rottura rispetto all’Italia pre-fascista, e punto attratto dal “regime” (Mezzetti 1978: 42-3), riconoscendo nel Fascismo «elementi attivi del divenire storico», spiegava le sue ragioni antifasciste: «Durante la mia lontananza è stato prestato il giuramento fascista dai professori universitari. A me non è stato ancora proposto; né mi è stato chiesto di manifestare la mia intenzione. Suppongo che così si farebbe alla ripresa delle mie lezioni in Italia» (Borgese 1933b: 22). Proseguiva spiegando le ragioni per le quali non poteva prestare il giuramento prescritto (che solo 12, a tempo e luogo dovuti, avevano formalmente rifiutato; cfr. Goetz 2000 e Boatti 2001), molti venendo messi a riposo col maturato beneficio pensionistico. Comunicava altresì che avrebbe insegnato anche per l’anno accademico a venire, 1933-34, allo Smith College; non sarebbe tornato per riprendere servizio. Non subito: «in uno degli schemi preparatori [della lettera], si legge alla fine: “Miei propositi, mio ritorno, mie richieste di garanzie”» (Borgese 1933a: 623).
Voleva rientrare, ma non fu esplicito, né pose al Regime le condizioni del suo ritorno, come inizialmente aveva pensato. Cosa voleva? Tornare all’Università senza giurare? Impensabile. Messo a riposo, prepensionato, come gli altri? Probabile. Destinato anche ad altri incarichi? Possibile. La lettera era sapientemente costruita. Annunciava che non sarebbe rientrato in servizio, per l’inizio dell’anno accademico, a ottobre; ma così facendo sarebbe decaduto dall’incarico universitario, senza pensione. Dunque dichiarava – era agosto – che rifiutava di giurare; sicché il Regime gli avrebbe dovuto usare lo stesso trattamento degli altri: messa a riposo con beneficio pensionistico. E così «a ottobre l’Università si riaperse senza la cattedra di Estetica e senza supplenza. Ma il 23 gennaio, inaspettatamente» (Borgese 1935: 27), lo scrittore venne posto per un altro anno a disposizione del R. Ministero degli Affari Esteri. Ancora un anno gli veniva concesso dal Regime, non senza un sapiente calcolo. La decisione estrema, se restare negli Stati Uniti o tornare in Italia, era rinviata.
Un anno dopo, fu Borgese a prendere l’iniziativa; non vi era più spazio per non detti e dilazioni. Sapeva che non poteva tergiversare, perché non poteva aspettarsi che l’«inaspettatamente» si sarebbe ripetuto. Dal 1° novembre 1931 era stato professore ‘in missione’ a disposizione del R. Ministero degli Affari Esteri presso l’Università di California; dal 1° novembre 1932 allo Smith College, presso l’Università di Northampton, come l’anno successivo. Il tempo di tirare le somme era venuto, indefettibilmente. Ogni possibilità era stata esperita con una forza di carattere che rasentava la noia: «Vedo che non vi sono situazioni personali che non possano essere risolte all’infuori delle situazioni collettive» (Borgese 1934b: 29). La speranza di convivere col Regime, ma senza macchia, era naufragata. Il 18 ottobre 1934, scrisse al Rettore dell’Università: «Prego la S.V. di voler prendere nota che io non ho prestato, né mi propongo di prestare, il giuramento fascista prescritto ai professori universitari» (Borgese 1934a: 26); e pure al Ministro Ercole inviava «una dichiarazione con la quale manifestava il proposito di non prestare il giuramento prescritto per i professori universitari, e chiedeva perciò i conseguenti provvedimenti (dispensa dal servizio per incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo)». Diversamente, lo scrittore fu dichiarato «dimissionario di ufficio, per essere rimasto assente dall’ufficio senza un giustificato motivo per un periodo superiore a dieci giorni (art. 46 comma 3 del R. D. 30 dicembre 1923, n. 2960)». Avverso tale decisione con cui gli veniva negata la messa a riposo con beneficio pensionistico, già ad agosto del 1935, Borgese ricorse al Consiglio di Stato. Ma il ricorso fu rigettato con nota, in tal senso, di pugno del Duce, nella Nota preparatoria della Segreteria di Mussolini, riepilogativa della situazione di Borgese (Mezzetti 1978: 59).
Lo stesso 18 ottobre 1934 inviò la lettera al Duce in cui comunicava il suo addio all’Italia, dichiarando ancora il suo amore per la libertà: «mio luogo di vita non può essere se non laddove sia permesso allo scrittore d’essere veramente scrittore, cioè di scrivere il suo pensiero» (Borgese 1934b: 29). E l’invio della stampa di Northampton è del 20 ottobre 1934: «Questa volta ho sentito le campane che annunziavano finalmente la [libertà]» (Borgese 1934c); del 21, la lettera di accompagnamento: «ora t’ho fatto mandare da una libreria la stampa della mia città nativa; perché quale è il vero luogo nativo? Quello dove s’è nati per fatto naturale e non nostro o quello dove s’è nati per fatto morale e nostro? Si può discutere» (Borgese 1934d). «Nicodemo gli disse: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?”. Gesù rispose: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne; ma ciò che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: Dovete nascere di nuovo”» (Giovanni 3,1-21).
Erano passati quasi quattro anni, dalle lettere a Umberto Gagliardo e a Luigi Carini, quando Borgese assolse la richiesta di Moretti; e più di tre dall’allontanamento dall’Italia. Le date delle lettere al Duce e a Moretti non lasciano spazi a dubbi. È incontrovertibile che a metà ottobre del 1934, Borgese fece i conti ultimativi col suo Paese e col suo paese. I suoi tentativi di recupero, di dialogo erano indefettibilmente falliti. E la ragione era la stessa, come aveva scritto rispettivamente al Duce e a Moretti: gli era stata negata la libertà, la libertà di essere se stesso. Chi sa quale travaglio [14] ad accettare la perdita: l’Italia tanto nazionalisticamente amata, e Milano e Firenze, «dove sono cresciuto» (Borgese 1932), e rifare le strade dell’infanzia e degli affetti in Polizzi, nella memoria che si svuota, senza un farmaco di immagine, ritornando alla casa natale in via Vinciguerra, dimora dei nonni materni, Di Martino, oggi obliata (come quella della famiglia Rubè), curiosamente confusa, da più parti, con un’altra [15], dove peraltro non nacquero né il fratello (in vicolo Cirillo) né la sorella (in via Vinciguerra); perché i genitori dello scrittore vissero a lungo in abitazioni diverse da quella in largo Santo Spirito, che successivamente fu la loro casa.
Il passato è riemerso, richiamandoci alle nostre responsabilità. Dobbiamo ridare voce a G.A. Borgese realizzandone il desiderio: è ora che il Sindaco di Polizzi Generosa invii la stampa alla Casa Museo Moretti. Perché lo scrittore amava il paese in cui non volle mai tornare, per ragioni che ora conosciamo meglio ma forse ancora solo in parte. Alle genuine dichiarazioni d’intenti, o di circostanza, anche animate da un desiderio reale, pure affidate al suo alter ego (Sara a Rubè: «Se sapessi come t’aspetta la mamma tua; ché sono tre anni che non ti vede e sempre scrivevi: vengo presto; e non arrivavi mai»), certo non corrispose mai una reale volontà, che infatti mai si tradusse in quel viaggio di ritorno alla terra-madre, in quel progetto che nulla, per troppi anni, avrebbe potuto impedire: «Nec sine te, nec tecum vivere possum» (Ovidio III, 11, 39). Eppure Borgese non avrebbe voluto fare di Northampton il suo «vero luogo nativo»; desiderava che la sua Polizzi Generosa campeggiasse sulla Parete dell’amicizia, finché seppe tardivamente «che ci sono paesi in cui siamo stati felici, ma non ci sono paesi felici» (Hansen 2008: 351).
Ho da poco terminato di leggere ciò che questa mattina mi hai mandato…
Non conoscevo questi fatti
In realtà ammetto di non sapere nulla di questo scrittore sia della sua vita privata che quella letteraria.
Questi fatti totalmente nuovi hanno fatto nascere in me la voglia di saperne di più.
Grazie Emanuele