di Giovanni Cordova [*]
Le scienze umane e sociali, specialmente gli studi inerenti alle migrazioni, hanno da ormai diverso tempo reso evidenti tutti i limiti insiti nel ‘nazionalismo metodo- logico’, ovvero nel considerare lo Stato-nazione così come si è affermato in Occidente nel XIX secolo quale unico modello politico generatore di flussi culturali, sociali ed economici (Wimmer, Glick Schiller 2002; Riccio 2014). La prospettiva del transnazionalismo (Glick Schiller, Basch, Blanc-Szanton 1992) ha invece permesso di ampliare gli orizzonti interpretativi e conoscitivi sulla mobilità, consentendo di pervenire all’individuazione di quel vasto campo sociale di pratiche, reti e strategie che viene attivato da individui, gruppi e comunità in continuo movimento (Simonicca 2015) e che non può certamente esaurirsi nella ristretta geografia dei confini e degli spazi statuali.
Precursore di tale orientamento fu il sociologo ed etnografo algerino Abdelmalek Sayad, il quale, compartecipando ai patimenti dei suoi connazionali in Francia, insistette sulla necessità di considerare l’immigrazione anche, e soprattutto, come un’emigrazione (1999). In poche parole, sarebbe riduttivo pensare ai migranti come a soggetti ‘imprigionati’ in questo o quello Stato; occorre piuttosto rendersi conto della loro simultanea partecipazione a molteplici contesti e ambienti sociali e culturali [1]. Tuttavia, di fronte agli attuali drammatici spostamenti (spesso forzati) di ampie fasce di popolazione africana e asiatica, il discorso pubblico egemonico si arrocca su un ordine del discorso securitario quando non esplicitamente razzista, incapace com’è di superare gli slogan dell’invasione e dell’assalto alla Fortezza europea. Piuttosto che avviare un percorso riflessivo dotato di profondità storica e teso a individuare cause, storie, macrocongiunture economiche e politiche e responsabilità, i migranti sono sempre e solo soggetti pronti a riversarsi sulle nostre coste. Sono, tornando a Sayad, immigrati e mai emigrati, dal momento che sfugge ostinatamente la complessa causalità che ne determina la mobilità all’interno di un quadro geopolitico tormentato, e rispetto alla quale i classici modelli esplicativi della push and pull theory dimostrano tutta lo loro obsolescenza (Graziano 2008).
Tali ragionamenti andrebbero estesi anche a quelle rotte mediterranee a noi familiari e cariche di una storia plurisecolare, quali i movimenti di genti, merci, saperi e capitali tra Tunisia e Italia (Cusumano 1976; Finzi 2001; Faranda 2016). Riguardo alle attuali circolazioni tra i due Paesi, non si può infatti trattare degli italiani che sempre più si trasferiscono, definitivamente o temporaneamente, in Tunisia senza considerare anche l’altra faccia della medaglia, ovvero i tunisini che continuano a spostarsi in Italia, e viceversa. Tale prospettiva unificatrice individua nei rapporti di forza e negli squilibri di potere post-coloniali la chiave interpretativa atta a comprendere i suddetti movimenti. Attingendo alle riflessioni di uno tra i massimi esponenti degli studi postcoloniali, Achille Mbembe, la storia del continente africano va considerata nel rapporto reciproco tra azioni di forze interne e attori internazionali (Mbembe 2005). La stessa storicità delle società africane va ricondotta a un universo globalizzato, parte integrante dei ritmi e della temporalità della dominazione europea. Se i percorsi degli italiani in Tunisia e dei tunisini in Italia differiscono, la ragione non va ascritta a presunte qualità ontologiche, ‘naturalmente’ possedute dagli italiani e che renderebbero alcuni itinerari più suscettibili d’aver successo rispetto ad altri: va piuttosto ricercata in fattori sociali, politici, economici e culturali che affondano le loro radici in quel complesso fatto storico che è il colonialismo, le cui conseguenze perdurano e che, anzi, caratterizza ancora oggi le esperienze della mobilità. Nel regime di post-colonia non c’è un ‘prima’ e un ‘dopo’ la colonizzazione, ricorda sempre Mbembe, ma una temporalità dell’intrico, dove passato, presente e futuro sono in stretta relazione.
In tal senso, lo Stato post-coloniale è uno Stato che si fonda sugli universi ancestrali importati e consolidatisi nel periodo coloniale. Sarà utile allora indagare le configurazioni culturali che assumono i progetti e le concezioni della migrazione tra Italia e Tunisia, ragionando sulle diverse declinazioni di cui la mobilità viene investita secondo i luoghi e le circostanze. Ogni spostamento affonda le sue radici in idee, prassi, saperi ed esperienze che sedimentano in una comunità: la migrazione è un fatto perciò tanto individuale quanto collettivo e condiviso. Prendono forma le culture della migrazione, grazie alle quali ogni itinerario pensabile e programmabile per un futuro riposa su disposizioni culturalmente apprese, rappresentazioni che orientano i percorsi di mobilità del presente e dell’avvenire.
Presupposto teorico è l’idea che la mobilità, oggi, assurga a merce tanto preziosa quanto rara. Costituisce una risorsa che è forse quella a partire dalla quale si possono misurare le nuove geografie del potere: esiste un capitale di mobilità che differenzia chi ha il diritto a muoversi indiscriminatamente e chi, al contrario, può farlo solo a determinate condizioni, sempre che possa farlo. Ne consegue che il possesso di questo diritto non sia uniformemente distribuito e che, come ebbe a notare Zygmunt Bauman (1998), contribuisca all’edificazione di valori differenziali di prestigio e alla creazione di nuove stratificazioni sociali. Ciò può essere notato in tutta la sua durezza a partire dalle diverse condizioni in cui il lavoro, attività umana materiale e simbolica, si dispiega. Ma andiamo con ordine.
Gli italiani i cui movimenti alla volta del Nord Africa sono stati oggetto di studio negli ultimi anni possono essere ricondotti, operando un’astrazione, alle categorie dei pensionati e degli imprenditori [2]. Vi sono delle evidenti differenze nelle grammatiche che strutturano i percorsi di mobilità di questi italiani. A differire concorrono principalmente le diverse configurazioni culturali della mobilità. Per gli imprenditori il trasferimento, la delocalizzazione e la rilocalizzazione dell’attività produttiva sono un atto quasi fisiologico rapportato alle contemporanee tendenze dell’economia globale. Alcuni manager e uomini di impresa incontrati in Tunisia rimarcavano come l’età della medio-piccola azienda inserita nel suo distretto industriale, caratterizzato da una certa omogeneità culturale e radicata in un peculiare universo morale, sia ormai inesorabilmente finita. Per questo chi è arrivato negli ultimi anni in Tunisia ha spesso numerose altre esperienze di migrazione economica alle spalle. Questi imprenditori si muovono agilmente e con straordinaria disinvoltura tra i confini degli Stati, riconoscendo la molteplicità di centri da cui si irradiano oggi i flussi culturali, le tendenze sociali, le innovazioni in materia di produzione e lavoro. Per loro, dunque, trasferirsi in Tunisia non è del tutto un incidente: certo, questa deterritorializzazione viene accompagnata da una critica serrata rivolta allo Stato italiano, di cui ci sono state elencate con severità responsabilità e presunte mancanze. Ma l’eventualità di uno spostamento della produzione è contemplata, rientra nel campo del possibile, nel ventaglio di opportunità di scelte e di strategie economiche che un capace capitano d’industria deve contemplare.
Consideriamo adesso i pensionati che si trasferiscono in Tunisia, e che rientrano nel numero sempre in crescita di connazionali in movimento verso nuovi sud. Tale tendenza sembrava essere in esaurimento all’inizio del millennio, invece è stata potentemente alimentata dalla crisi dello Stato sociale e, più in generale, dalla crisi economica degli ultimi anni. L’esilio dei pensionati corrisponde ad una dismissione dello Stato, o alle dimissioni di una certa idea di Stato che si era affermata nel secondo dopoguerra, quel modello di Welfare State che avrebbe garantito la presa in cura del cittadino, sia pure con tante inevitabili aporie, dalla culla alla tomba. Oggi, quel modello parrebbe essersi concluso e, a fronte delle ricorrenti analisi economiche, scarsa attenzione viene prestata agli esiti sul lungo periodo nelle rappresentazioni e nelle concezioni dello Stato, della vita, dell’ordine normale e naturale delle cose che questa situazione di criticità perdurante produce negli attori sociali.
Laura Faranda ha definito ‘autunno mediterraneo’ questa età della migrazione (2015), laddove ‘età’ non corrisponde semplicemente all’età anagrafica, biologica dei pensionati, ma, à la Sayad, a una nuova fase migratoria in cui si consuma una frattura irreversibile nel patto sociale tra il sistema politico-economico nazionale e una fascia di popolazione sino ad alcuni anni fa garantita. La necessità di ripiegare sulla Tunisia, unitamente al dover mettere in piedi strategie finalizzate all’ottimale perseguimento di maggiori risorse, fa sì che questi pensionati corroborino l’idea di dovercela fare da sé, ma soprattutto da soli. Il disegno di una traiettoria migratoria, infatti, anche quando si situa all’interno di catene migratorie collaudate, rafforza l’individualismo dei migranti che ce la fanno perché vanno altrove e suppliscono così all’assenza del supporto dello Stato. Inoltre, questo ‘altrove’ viene sovente mitizzato (Gaibazzi 2010) e, parallelamente, una volta giunti in Nord Africa, gli italiani sovrastimano la responsabilità dello Stato nella determinazione della loro fuoriuscita, più o meno forzata, dal territorio. È un caso ampiamente riscontrato e trattato nella letteratura antropologica e storica sulle comunità etniche o nazionali all’estero, quello della formazione di intimità culturali – per riprendere l’ormai celebre espressione di Michael Herzfeld – che le comunità diasporiche coltivano, quasi sempre con un intento antagonistico rispetto al potere costituito, lo Stato, che assurge a fonte di tutti i mali della vita (Herzfeld 2003).
Tuttavia, pur con le difficoltà appena accennate, e all’interno di un quadro politico e identitario che parla il linguaggio della contesa, queste persone rivestono in ogni caso una posizione non certo subalterna nei rapporti di forza nel contesto sociale tunisino. È, in altre parole, evidente un’asimmetria profonda che pervade e squilibra le traiettorie migratorie di italiani e tunisini e i rapporti sociali dei primi all’interno del milieu culturale che li ospita. Ciò costituisce senz’altro un’eredità del passato coloniale, un passato tanto prossimo quanto oggetto di oblio e continua rivisitazione auto assolutoria. Anche se stentiamo a confessarlo, l’Italia è stato un Paese attivo nelle politiche di dominio coloniale, e questo passato porta con sé un caleidoscopio di conseguenze, rappresentazioni e prassi politiche ed economiche. Se analizzassimo i rapporti economici tra Italia e Tunisia e lo stato dell’economia tunisina, apprenderemmo come questa sia tutta orientata in direzione di esportazioni primariamente verso Italia e Francia. Da ciò deriva una deficienza strutturale nella produzione e nell’economia tunisina, un deficit permanente denunciato a più riprese dalle organizzazioni internazionali che hanno studiato e rilevato la dipendenza cronica della Tunisia dai Paesi europei, Italia e Francia su tutti (World Bank 2014). Si badi bene che questa dipendenza, le cui origini possono essere individuate già a partire dal XVIII secolo, quando gli Stati europei iniziavano ad indirizzare le proprie mire sui porti mediterranei (Hourani 2009), non è solo economica ma politica e culturale, perché causa effetti a lungo termine attraverso l’accettazione di vincoli e modelli proposti, talvolta imposti, da chi promette aiuti allo sviluppo. Produce e veicola degli ideorami, per ricorrere a un termine pensato dall’antropologo di origini indiane Arjun Appadurai, cioè sistemi di idee e di valori forgiati da Stati, agenzie politiche sovranazionali, istituzioni (Appadurai 2001). Del resto, un grande pensatore sempre sul crinale tra impegno politico e osservazione rigorosa dei fatti sociali e culturali, Frantz Fanon, aveva sottolineato come il colonialismo non si esaurisse nella fine dei rapporti di dominio militare, ma che si reiterasse in modalità ed espressioni sempre diverse (Fanon 2007).
A conferma di ciò, un angolo visuale privilegiato è dato dal lavoro, mondo simbolico, formativo, di apprendimento dell’ordine delle cose, di saldatura delle tassonomie mitiche e dell’organizzazione sociale (Bourdieu 2003). Gli imprenditori italiani godono in Tunisia di molti privilegi grazie alle leggi che negli anni, già dai tempi del presidente Habib Bourguiba, hanno permesso alle imprese straniere di incorrere in una serie di cospicui benefici e agevolazioni (Finzi 2015; Lainati 2003). Inoltre essi sono generalmente accolti nel contesto nordafricano come dispensatori di benessere, sviluppo, lavoro. Sono considerati, e si autorappresentano in tali termini, come benefattori.
Come viene invece costruita e rappresentata la dimensione lavorativa dei tunisini in Italia? Non potendo ripercorrere la storia della comunità tunisina nel nostro Paese, sono tuttavia esemplificativi alcuni casi di immigrati che hanno lavorato in Italia e hanno poi compiuto il percorso a ritroso, verso casa, al momento della pensione. Sono soprattutto uomini, sulla sessantina d’anni e che hanno lavorato, limitatamente alle storie raccolte, nell’Italia centrosettentrionale [3]. Una storia, in particolare, è esemplare. Riad Hassine, cinquantottenne, ha lavorato trent’anni in Italia tra Lazio, Toscana e soprattutto Emilia Romagna, nelle campagne e nei cantieri edili. Ma di questi trent’anni di lavoro, solo quattro coi documenti in regola. Rientrato in Tunisia per provare a richiedere una pensione italiana, attualmente gliene viene corrisposta una di circa 80 dinari (meno di 40 euro) dal governo tunisino. Sono, queste, storie assai diffuse. Il responsabile del patronato INCA-CGIL di Tunisi, Mustapha Laouini, ci ha messo al corrente dell’alta percentuale di lavoratori tunisini che rientrano a casa dall’Italia con malattie incurabili, soprattutto alle ossa, dovute alle condizioni dure del lavoro nei cantieri e in capannoni umidi e abbandonati. Tra l’altro, molti di loro non hanno diritto all’indennità civile e alla pensione anticipata se non hanno la residenza italiana e rientrano in Tunisia per motivi di salute.
Va però sottolineato che l’asimmetria tra immigrati italiani e immigrati tunisini è soggetta a riequilibrio. Le persone reagiscono alle difficoltà, attuano strategie collaudate o tattiche quotidiane, nei termini di de Certeau (2010), e quanto meno riducono il margine della diseguaglianza, dello squilibrio dei poteri. Ma è soprattutto la migrazione una via per attenuare i dislivelli sociali, politici ed economici. E l’emigrazione cosiddetta clandestina ne costituisce l’esempio massimo. Ancora una volta partiamo dall’evidenza dell’asimmetria.
La storia del popolo italiano è una storia di emigrazione. Che poi negli anni questa storia sia stata oggetto di tabuizzazione è un altro aspetto, di cui va comunque tenuto conto (Signorelli 2006). Ma gli italiani sono sempre stati adusi alla mobilità transcontinentale. E questa capacità, assai utile nelle condizioni di vita più disagiate, è sempre stata valutata positivamente come un’arte dell’arrangiarsi. O, nella sua versione ipermoderna e neoliberista, l’emigrazione economica diviene una migrazione di cervelli, competenze, eccellenze, di esportazione del made in Italy. I tunisini, più in generale i maghrebini, emigrano invece per rubare il lavoro agli italiani, come si dice a proposito degli immigrati. Ma non si tratta semplicemente di un’etero-rappresentazione – comunque grave – quanto della diffusione tra gli stessi tunisini di un’idea disonorevole dell’emigrazione, in particolar modo di quella clandestina. Si tratta in questo caso di una introiezione di modelli rappresentativi coloniali, ma non solo.
È stata già messa in luce la contiguità semantica, offerta dalla lingua tunisina, tra il suicidio, l’immolazione e l’emigrazione clandestina (Terray 2009; Alaa 2012). Gli harrāga sono i migranti che attraversano le frontiere su imbarcazioni di fortuna. Harga deriva dal verbo dell’arabo classico harrāqa (bruciare) e indica anche l’atto dell’emigrazione clandestina. I clandestini, o meglio, coloro la cui condizione di clandestinità viene prodotta socialmente dai dispositivi giuridico-legali, sono coloro che bruciano. Spiega Annamaria Rivera, in uno dei non frequenti studi antropologici italiani sulle primavere arabe, che tale accostamento potrebbe provenire dal fatto che un tempo, prima di partire, i migranti bruciassero i documenti d’identità (Rivera 2012) [4]. Ma sembra più verosimile che, come suggerisce Mehdi Mabrouk (2010), tale espressione derivi dalla metafora francese bruler les etapes (bruciare le tappe) entrata nelle varianti maghrebine dell’arabo, e che stia così a significare la decisione di partire a tutti costi, nonostante le leggi proibizioniste in materia di emigrazione che troviamo nel Maghreb, il rischio insito nel viaggio e la svalutazione cui incorre l’atto di emigrare clandestinamente, infrangendo regole e divieti (Ben Daoud 2009). Il gesto estremo compiuto dagli harrāga viene così equiparato al suicidio e condannato in riferimento alle prescrizioni religiose, che peraltro l’Islam condivide con il Cristianesimo, secondo cui porre fine arbitrariamente alla propria vita interdice l’accesso al Paradiso. Fu in particolar modo Mehdi Mabrouk, nominato ministro della cultura nella fase post rivoluzionaria, e con un passato di studioso di questioni legate alla migrazione e alle fasce giovanili, a considerare l’emigrazione illegale come parte di una cultura suicidogena sempre più diffusa a suo dire (Mabrouk 2010).
Ma quali che siano il significato o l’etimologia di harga e harrāga, quel che è certo è che emigrare comporti bruciare un presente intollerabile, in cui si è condannati all’insignificanza, all’anomia, alla morte sociale. Nel mondo frontiera che sta diventando sempre più realtà, gli harrāga, mettono a segno un atto politico che sfida i canoni politici e sociali ideali di una società, quella tunisina, che più di ogni altra nel Maghreb e nell’area nordafricana ha costruito nei decenni un nazionalismo efficace e pervasivo (Boularès 2012), a partire senza dubbio dal sistema educativo. Basti ricordare che in seguito all’indipendenza dalla Francia la Tunisia poteva vantare già dagli anni ’70 il tasso di alfabetizzazione araba più alto nel Maghreb (Pouessel 2012), il che si lega a una ricostruzione della storia nazionale che mette ai margini le comunità altre, quella berbera in primis e il cui idioma indigeno, a differenza che in Marocco, non viene insegnato nelle scuole. Oltretutto, a partire dagli anni Novanta, la fine del sogno panarabo e le insanabili fratture tra Marocco e Algeria hanno determinato l’abbandono di una identità maghrebina omogenea, diluita invece nel grande spazio mediterraneo, rispetto al quale, anche per la sua posizione geografica, la Tunisia si è considerata centro (Abbassi 2008). Alla mutazione di questo paradigma storiografico si accompagna la rappresentazione della nazione su un piano che privilegia e attribuisce un valore fondativo all’accordo tra le parti, alla pacificazione, alla salvaguardia degli interessi nazionali e che, di contro, considera oltremodo dannosi il conflitto e la divisione interna. Gli harrāga sfidano questa concezione dell’ordine sociale, anche quando emigrare è semplicemente un atto di trasgressione, l’inseguimento di sceneggiature di vite immaginate (Appadurai 2001), voglia di evasione non giustificata da difficoltà oggettive di vita in patria.
È questo il fuoco della mobilità: un’asimmetria di partenza, creata da congiunture storiche, politiche, economiche che trovano il loro momento fondativo nell’esperienza coloniale; un’asimmetria al centro di contese che, badiamo bene, superano i confini nazionali, portate avanti da ragazzi, donne, uomini che forzano i confini geografici e le barriere erette tra divieti e aspirazioni. Ma il fuoco della mobilità è anche, più banalmente, l’immagine della ribellione, la fiamma delle torce umane che in tutta l’area mediterranea, non solo in Tunisia e non solo tra 2010 e 2011, assurgono a figure mitiche del conflitto e di una speranza tragica, una speranza che tutti noi ancora oggi, harrāga o no, inseguiamo e sogniamo.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
Note
[*] Il presente articolo è stato presentato sotto forma di relazione nel corso della giornata di studi ‘Non più a sud di Lampedusa. Italia e Tunisia: sguardi, transiti, contaminazioni mediterranee’, tenutasi all’Università ‘La Sapienza’ di Roma il 7 marzo 2016.
[1] Da ciò deriverebbe l’intrinseca debolezza dei quadri normativo/legislativi europei, i quali contemplano l’integrazione in termini di scelta di appartenenza ad una e sola comunità di approdo, scelta convertibile (liberamente o in maniera coatta) nel rimpatrio nella terra d’origine. Tale visione dualistica (qui o lì) non terrebbe conto della complessità e delle sfumature della mobilità contemporanea (Tarrius 2011). L’annosa questione del regolamento di Dublino III ne è un chiaro esempio.
[2] Mi riferisco agli accordi interuniversitari internazionali tra Université ‘Neuf Avril’ di Tunisi (referente A. Hénia) e ‘Sapienza’ Università di Roma (referente L. Faranda) [2010-2013] e tra Université ‘Manouba’ di Tunisi (referente S. Finzi) e ‘Sapienza’ Università di Roma (referente L. Faranda) [2013-2016].
[3] La conoscenza di queste storie, informazioni e persone è stata resa possibile grazie alla frequentazione etnografica del Patronato INCA-CGIL di Tunisi, diretto da Mustapha Laouini.
[4] Riprendo dal testo di Annamaria Rivera la traslitterazione dall’arabo maghrebino harga/harrāga.
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Giovanni Cordova, ha conseguito la laurea magistrale in Discipline Etno-Antropologiche presso l’Università di Roma ‘Sapienza’, dove attualmente è dottorando in Storia, Antropologia, Religioni. Si interessa di fenomeni migratori – in particolar modo nel sud Italia – e questioni di antropologia urbana. Ha condotto attività di ricerca in Tunisia e nelle periferie romane.
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