CIP
di Giampiero Lupatelli [*]
Vorrei partire dal racconto di un episodio della mia vita professionale, apparentemente molto distante dai temi e dalle considerazioni che ci hanno portato ad essere oggi qui, non fosse che sempre di montagna si parla, e della mia montagna di elezione, la Montagna del Latte, in particolare.
La connessione però esiste e sta nella domanda che mi è stata posta in conclusione della storia che vi racconto; una domanda alla quale non ho saputo allora rispondere; una domanda che ancora mi interroga frequentemente e della quale le immagini di Karim al Maktafi mi hanno riproposto vigorosamente l’urgenza. Una domanda che ha segnato l’impressione della mia visione quando, una settimana fa ho visitato la mostra con Davide Zanichelli ricordando qualche considerazione di tempi passati su legami possibili tra montagna e Fotografia Europea.
La storia che vi voglio raccontare si svolge il 29 gennaio 2022, quando, in una giornata fredda e piovosa, ero salito in montagna in compagnia di un ospite insolito e prestigioso raccolto alla stazione Mediopadana dell’Alta Velocità. L’ospite era il giornalista Brooke Unger, caporedattore del settimanale ‘The Economist’ che si era messo sulle tracce della “Montagna del Latte” su indicazione di amici romani. Doveva curare un inserto speciale della sua prestigiosa rivista sull’inverno demografico che incombeva – e ancor più incombe oggi – sull’Europa e intendeva esplorare – tra le altre – anche la visione del problema che si poteva ritrarre dalla angolatura delle parti più discoste e periferiche del Continente.
Gli avevano parlato di noi, di questa singolare avventura che, nella occasione della Strategia Nazionale per le Aree Interne, era riuscita a mettere insieme un programma ambizioso e visionario. Per memoria ricordo che l’inserto monografico dell’Economist poi non uscì. Qualche giorno dopo il nostro incontro la Federazione Russa avrebbe invaso l’Ucraina e di altro si sarebbero dovuti occupare giornali e riviste.
A ricevere Brooke Unger, al centro della sala del Consiglio Comunale di Castelnovo ne’ Monti, erano con me Enrico Bini ed Emanuele Ferrari, assieme ad Antonio Pisano, un neocittadino della montagna in provenienza dalla Brexit, che, con il suo inglese sofisticato e fluente, consentiva alla nostra conversazione approfondimenti e sottigliezze non usuali.
Dopo averci sentito raccontare una storia fatta di prati, vacche, latte e formaggio, ma anche di un poderoso investimento sul capitale umano, dal ciclo primario (e pre) della “Piattaforma 0-10” a quello secondario superiore (e post) dei “Laboratori Appennino”, Unger si è congedato da noi con una domanda:
«Ma tutti questi investimenti che voi fate sullo sviluppo economico e sulla qualità dei servizi, e questo straordinario impegno per istruire ed educare, convincerà secondo voi gli abitanti vecchi e nuovi dell’Appennino a fare più figli?».
Quasi a intendere che, se così non fosse stato, il nostro sforzo, nonostante il suo apparente successo, sarebbe comunque risultato vano.
Gli anni che sono seguiti, il 2022 e il 2023, hanno registrato importanti flussi di nuova popolazione in ingresso nel territorio della Montagna del Latte e, in misura diversa ma in analoga direzione, nell’intera Montagna italiana. Non più solo o prevalentemente immigrazione di ritorno, alla fine del ciclo lavorativo, o accoglienza di immigrati stranieri con provenienze di lungo raggio; anche popolazione di provenienza urbana e metropolitana, con un afflusso quantitativamente significativo ma ancora drammaticamente insufficiente non già a coprire gli esodi, ma i grandi varchi che ogni anno sono determinati dal largo prevalere delle morti sulle nascite.
Alla domanda di Unger, io ancora non so dare risposta. L’ho cercata, non so quanto appropriatamente, anche nelle fotografie di Karim, che ai bambini sembrano dedicare una grande attenzione. Anzi, nella mia interpretazione, che tuttavia so essere del tutto disarmata criticamente, sono proprio i bambini l’altra metà del cielo di un universo prettamente virile che le immagini catturate e raccolte da Karim sul nostro Appennino ci restituiscono. I bambini e non le donne!
La rassegna che ho visitato mette subito in mostra una sequenza di volti arcigni e un po’ cupi, con espressioni dichiaratamente virili (anche quelli delle donne) in un riferimento rafforzato dalla ampia presenza di segnali e richiami della virilità: i cavalli, la caccia, i trofei.
Volti virili che a me hanno subito riportato in mente le parole di Ludwig Wittgenstein a commento di una fotografia che mostrava il volto di banditi corsi.
«Guardo una fotografia di banditi corsi e penso che quelle facce sono troppo dure e la mia troppo morbida perché il cristianesimo vi possa scrivere sopra. Le facce dei briganti sono orrende a vedersi, eppure essi non sono certo più lontani di me da una buona vita. Si trovano soltanto su un altro lato, felici quanto lo sono io» [1].
Una frase che ho cercato di nuovo nel libro che ho ripreso in mano, scoprendo, tanto mi aveva colpito, di averla ricopiata già allora sul frontespizio della copia appena acquistata nel 1980.
Da questo il passaggio è stato breve a un altro ricordo letterario di gioventù, quello che associo alla scoperta del “perturbante” [2] e della sua magica e minacciosa raffigurazione nei racconti e nei romanzi di Ernst Theodor Amadeus Hoffman (più semplicemente E.T.A. Hoffman, per tutti) scoperti nella frequentazione di quello straordinario veicolo di formazione culturale che per la mia generazione è stato il mensile Linus nella cura di Oreste del Buono. Perturbante che è una modesta traduzione dell’Unheimlicht tedesco, che meglio rende, nella radice heim, casa, il contorto riferimento che mostra «ciò che dovrebbe essere nascosto», heimlich, in una accezione secondaria del termine di cui, appunto, uneheimlich è la negazione. Perché, come ci ricorda anche Italo Calvino a proposito de L’uomo della sabbia [3]: «La scoperta dell’inconscio avviene qui, nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne venga data una definizione teorica» [4].
Quasi che i volti seri e cupi degli uomini di montagna che si allineano sul lato destro della esposizione a Palazzo Da Mosto, anche quando mostrano fattezze che mi sono familiari come quelle di Giovanni Lindo Ferretti o dei fratelli Torri, mostrino “sfacciatamente” un rimosso, che è – a me pare essere – il femminile.
Anche le donne che compaiono su questo lato della rassegna aderiscono in qualche misura a un canone virile, nelle espressioni austere, prive di dolcezza o, all’opposto nella postura remissiva che le abbiglia abbandonate ad una presenza maschile che si stacca dal mascheramento nello stereotipo di un altro secolo (non l’ultimo), solo per la presenza di calzature tecniche.
Sul lato opposto della sala sono invece i bambini a tenere la scena, nella lunga, ordinata, processione di ritratti che ne individualizza – ma insieme quasi ne militarizza – la presenza nella esperienza, che invece è necessariamente collettiva, dell’“Asilo nel Bosco”.
Nel mezzo della sala, due grandi stampe fotografiche si mostrano reciprocamente le spalle, tenendo comunque il proprio sguardo lontano dalle due sequenze di ritratti, quelli virili a destra e quelli infantili a sinistra partendo dall’ingresso, che le due pareti laterali portano in evidenza, e che esprimono più sistematiche antropologie della montagna, comunque incomplete.
Da entrambi i lati di questa installazione centrale un bambino – meglio, un bambino e una bambina, e la differenza non è qui da poco – immerso nella chioma di un albero che lo accoglie e lo avviluppa, sino quasi a farlo sparire o, forse, ad assimilarlo. Sembra dunque la natura, l’albero, ad essere l’attore protagonista della scena quel che dà nuovo e più profondo significato al gioco infantile dell’arrampicata che diventa così una esplorazione non già solo di altezze ma anche di profondità; esplorazioni che i bambini intraprendono guidati da un richiamo ancestrale.
Qui, ancora più che nella durezza dei volti che ha colpito inizialmente la mia osservazione portandomi al ricordo giovanile dei banditi corsi di Wittgestein, sta il perturbante, la manifestazione di ciò che era o che dovrebbe essere rimosso. L’attrazione fatale di un rapporto primordiale con la natura che non ha ancora la mediazione culturale della nostalgia o del rimorso. Piuttosto della natura esplora la supremazia e la irriducibilità al nostro volere, al limite della ostilità leopardiana.
In questa capacità della natura e della montagna di accogliere e insieme smarrire il visitatore, di unire desiderio e meraviglia, spavento e appagamento, può forse trovare eco il richiamo a seguire gli accordi di una intonazione dell’animo che ci disponga al generare (e al rigenerare) con una energia e una pulsione più forte di quella che commisura invece costi e benefici della riproduzione delle generazioni nelle società post moderne, lasciando sempre in negativo lo scarto di questo bilancio?
Se questo ci vuole dire Karim o se questo vogliamo leggere nel suo messaggio, se questo riusciamo a intravedere nelle correnti di flussi che l’incertezza della crisi climatica nelle sue sterminate ramificazioni economiche, sociali, politiche e militari, sembra aver riportato verso le nostre montagne, la domanda di Brooke Unger potrebbe avere una risposta.
Non perché le nostre ricette di economisti e sociologi dello sviluppo sappiano muovere e promuovere nuove disposizioni vitali ma perché, all’opposto, nell’accompagnare queste stesse disposizioni che gli spiriti animali (ma dovremmo dire piuttosto, con Stefano Mancuso e Luigino Bruni, gli spiriti vegetali?) dei nuovi abitanti di Appennino, le nostre politiche possono trovare un significato e un senso che altrimenti sfuggirebbe loro.